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Il Foglio

Prima di dire Brunellopoli venite a vedere la vita di Montalcino ... Prima di gonfiare un titolo e scrivere Brunellopoli; e prima di azzoppare le vigne pazienti e il popolo che ci lavora; prima di insolentire la realtà, di dare una spallata alla fatica degli altri dato che non è la tua; prima di montare sopra una collina coperta di vigne e gridare veleno, falso, frode, perché più alta è la collina e più da lontano si è sentiti; prima di giudicare Montalcino, bisognerebbe conoscere Montalcino. Il paese di tutti i giorni, la schiettezza che vi si posa. Lo spiritello che esala dalle bottiglie magistrali. La buona beva che ne esce e di cui ho goduto non saprei dire le volte, e sono le volte madornali, tante madornali volte - quando un pranzo ordinario diviene un’ora memorabile, il testo del teatro della Creazione. Oddio come è questo vino, oddio. E commuoversi come per le elegie duinesi, il Vespro della Beata Vergine di Monteverdi, ogni volta che ascolto i Cream che eseguono “Spoonfull”.
Bere non è un tutt’uno. Buttar giù. Intontirsi. Bisognerebbe sapere cosa sia Montalcino nella vita quotidiana. D’autunno, quando le vigne graffiano l’aria e fin dentro il paese non c’è via, singolo muro, che non rimandi la vendemmia. Bere è preparazione. Un ciclo che termina in gola. Si comincia con le barbatelle, si finisce commossi. E’ solo al termine del ciclo, che siamo ad apparecchiare. Prima ci sono anni di una crescita. A noi che apriamo la bottiglia, rimane di mettere in fila i cibi in modo che alla fine dei bocconi, il vino risulti. Non un’esplosione di lussi, ma le cose nelle loro proporzioni, così come nessuno si metterebbe mai un basco al posto delle brache. Basta un piccolo ragù, e la verità emerge smerigliata. Lo snodarsi del rapporto tra noi e la natura, e onorare il sacrificio che la natura compie ogni momento, dato che è offerta a noi. Questo è bere, far sì che combacino le occasioni della vita, e l’ho imparato a Montalcino.
Per un periodo abitai di nuovo a Roma, e c’era un vino che mi portavo dietro. Bevendolo mi ricordavo la campagna dove abitavo. Scoprii che era quel che di violetta che cresceva alla base delle vigne sotto casa. Un sorso, la testa che si piega, un sentire.
Amo questo paese e il suo vino. Il vino va in una brocca con il paese, e libera le emozioni. ii vino è vita e quando esce dalla bottiglia deve risorgere, inverarsi, e finalmente magnificarsi. Non esiste un censo che beve, chiunque sta a Montalcino, lo sa. E’ tutta qui la cultura del vino. Non il piccolo chimico e certo non il grande avvelenatore. Se bevi tutti i giorni a Montalcino, un giorno senti la tua lingua schioccare: senza neanche saperlo, hai imparato a bere. Un’altra volta sei al bar, esenti qualcuno dire: Mì! E’ uno di Montalcino, sorpreso dalla bontà di un sorso. Mi, come dire toh. Lo dicono gli uomini, che qui cominciano a bere fin da bambini, un poco alla volta. Dicono mì! le donne, in tono sovracuto, in quell’antica lingua trillata che è il montalcinese delle donne, paese nel paese.
Bisognerebbe passare per la piazza al mattino, vedere il corpo stretto del palazzo comunale e alzare la testa verso il bargello che va in cielo, mentre giù di sotto i montalcinesi cominciano la giornata. Bisognerebbe abitare di fronte a quest’antica torre che spiove sui tetti; avere una finestra da una parte del paese, e la notte sentire la campana battere le ore mentre tutto il mondo cambia. Bisognerebbe passare dal negozio dell’Internet point, quando dall’osteria del Moro fugge nella via il sentore del pollo bagnato nel vino. Essendo che in un paese che è colle piantato nella natura, gli odori vanno dalla natura agli alimentari, agli scaffali delle enoteche, alle padelle fumiganti, e dagli usci delle case si liberano le forze profonde della terra. E c’è quest’altra cosa: per quanto il vino abbia trasformato il paese mettendolo in cima al mondo, il venerdì rimane giorno paesano di mercato. Dalla campagna arrivano i contadini. Fanno gli affari sotto il bargello, e si stringono ila mano, mentre salendo per le vie ventose su alla Fortezza, si alzano e si abbassano le onde delle bancarelle. Al mercato, i montalcinesi comprano una camicia, s’incontrano, fanno festa come per una seconda domenica della settimana. Bisognerebbe abitare in un luogo così, per capire la storia della Toscana, dove l’uomo ha modellato sia le mura che la natura, e la fatica sulle gigantesche zolle di creta, che qui chiamano i Deserti, somiglia alla fatica degli artisti che poi l’hanno dipinta.
La prima volta che sono capitato in questa terra, fu su una lunga strada sterrata senza mai traffico, tra Sant’Angelo e l’Abbazia di Sant’Antimo, mi portava una donna di Montalcino che sarebbe diventata mia moglie. Era primavera. La macchina sbucò da una curva e si immise su un rettilineo biancastro. Da un lato la collina, dall’altro una valle e altipiani non abbraccia- bili da un solo sguardo. Nel fervore dei verdi cangianti a vista sotto il sole e le nuvole, terre si succedevano a terre, scacchiera di morbidezze e golfi minimi, giganteschi corpi femminili il cui volto era la madre Terra che saliva fino al trono del monte Amiata. La macchina andava lenta, ma non bastava. Ci fermammo. Uscii di auto lentamente, per essere certo che tutto stava accadendo; che lo sportello non sarebbe sbattuto e quello che era davanti a me si sarebbe infranto alla prima dissonanza. Udii belare. Da dietro una vigna, per un campo, spuntò il candore di una processione di pecore, un tintinnare di campanelli dal timido passo. Un cane brioso lanciava la corsa intorno al gregge, e si arrestava. Veniva su la scia odorosa degli asparagi selvatici. C’erano minuscoli laghi, serbatoi artificiali per irrigare la campagna. Il sole prese a calare e tutto quel bene si trasfigurò,schiarì, e diventò un fulgore. Al crepuscolo uscì la vista netta di una quercia. Era accanto a una di quelle pozze. La luce del sole aveva reso l’acqua bagliore, e vidi proprio squadernato davanti a me il giardino dell’Eden. Il nostro vino è di questa fatta. Alla salute.

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