02-Planeta_manchette_175x100
Allegrini 2024

L’ESPRESSO

Aiuto si è ubriacato il mondo ... Il Bordeaux è invenduto. Il Cava spagnolo è in crisi.
E il Chianti piange. Il business del vino abbandona
l’Europa. Per emigrare in Cile, Argentina e Australia... Al termine dell’ultima edizione di Vinexpo, a fine giugno, sono stati diffusi dati trionfalistici: il consumo mondiale di vini e alcolici continuerà ad aumentare del 3,5 per cento nei prossimi cinque anni e il fatturato al consumo dovrebbe raggiungere da qui al 2012 oltre 390 miliardi di dollari. Ma pochi hanno fatto festa: anche a Vinexpo (meno 7,56 per cento di visitatori rispetto all’edizione del 2007) si è avuta conferma di quanto resti alta la febbre del mercato del vino, che ha il suo termometro principale negli Stati Uniti: non tanto e non solo per le sue dimensioni, quanto perché là si manifestano e si misurano le tendenze. I dati diffusi un mese fa dall’Italian Wine & Food Institute, per quanto previsti, parlano chiaro e sono più che mai allarmanti per i produttori del Vecchio Mondo: italiani, francesi, spagnoli e tedeschi. La crisi ha cambiato i consumi. Non si rinuncia al vino, ma si privilegia quello meno costoso. Il consumo complessivo continua cioè ad aumentare in quantità negli Usa (più 19,3 per cento rispetto al 2008), ma perde in valore (meno 14,4 per cento). Chi ne fa le spese? I paesi del Vecchio Mondo, che devono assistere a crescite impressionanti dell’export dell’Australia (che con un più 60,8 per cento ha nettamente superato l’Italia, in perdita del 10,2 per cento, e conquistato il primo posto nel mercato nordamericano), del Cile (più 134 per cento), dell’Argentina (più 28,5 per cento), della Nuova Zelanda (più 20,3 per cento). Se si considera poi che la produzione interna degli Usa cresce in qualità e si espande in quantità, si spiega perché gli spazi per i paesi tradizionali si restringono, soprattutto per i vini di minor valore.

E infatti su tutti i più imporranti mercati crescono in misura molto consistente le importazioni di vini sfusi, cioè non imbottigliati nel paese d’origine, o “da pasto”, come li definiscono gli americani. Vini che, appunto, rappresentano oggi la forza dei paesi emergenti, a danno soprattutto dell’Italia, storico leader di mercato dello sfuso, che non può in alcun modo competere con quei paesi sul terreno dei listini: il prezzo medio all’origine degli sfusi australiani, argentini e cileni è di circa mezzo dollaro al litro, contro i 3,5 dollari di quelli europei. Per fortuna, grazie agli incentivi disposti
dall’Organizzazione mondiale del commercio a favore di chi estirpa vigneti di bassa qualità e di alto rendimento, e grazie anche al raccolto non abbondante delle ultime quattro vendemmie, sta riducendosi lo scarto strutturale fra la produzione globale, da sempre largamente eccedente, e l’andamento dei consumi, in crescita molto lieve. Si beve infarti più vino nei paesi nuovi consumatori e meno in quelli di più antica tradizione, anche per effetto delle energiche e talvolta indiscriminate campagne anti-alcol promosse dai diversi governi. I più preoccupati sono i francesi: lo champagne è stata una locomotiva inarrestabile, - ma ora segna il passo e rafforza le perplessità di chi, senza successo, aveva combattuo contro la decisione di estendere nel prossimo quinquennio l’area della denominazione. Bordeaux annega nel vino: la corsa d folle dei prezzi dell’annata 2005 si è scontrata con il muro della crisi mondiale e ha fatto crollare di almeno il 30 per cento il prezzo di bottiglie che “en primeur” superavano come niente fosse la barriera dei mille euro (a bottiglia, si intende). Una situazione aggravata dall’andamento delle annate successive che, pur buone e a prezzi drasticamente ridimensionati, ha creato
mastodontici stock in giacenza, per i grandi ma soprattutto per i vini di base che oggi vengono
svenduti in un mercato paralizzato. Tengono i Bourgogne, perché l’ottima qualità si accompagna a quantità complessivamente modeste: la somma delle produzioni di tutti i Grand Cru bianchi e rossi borgognoni è inferiore a quella di un Cru Classe mediogrande di Bordeaux. Hanno vita dura altre denominazioni prestigiose ed è drammatica la situazione dei vignerons delle aree meno qualificate.
Problemi analoghi vive la Spagna, dove sono poche le etichette di fascia alta che trainano l’immagine del vino di qualità, mentre la stragrande maggioranza delle altre, compreso il Cava, lo spumante spagnolo, combatte nelle fasce medio-basse dei mercati. In ogni caso, la competizione è sempre più aspra fra i vini di stampo e gusto internazionale, ricavati cioè dai quei vitigni che,
pur con caratteristiche non omogenee, garantiscono qualità accettabile e compatibile con tutte le latitudini: i cabernet sauvignon e franc, il merlot, un po’ meno lo sirah fra le uve nere, lo chardonnay e il sauvignon fra le bianche. Nella grande battaglia dello sfuso un segnale molto importante arriva da un altro paese fondamentale per il mercato del vino, il Regno Unito, dove fra il 2000 e il 2008 la quota dei “bulk wines” importati e imbottigliati direttamente in Inghilterra è passata dall’11 al 20 per cento del mercato totale, mattatori Australia e Usa. E, come se non bastasse, è di poche settimane fa la notizia, data da Wine News.it, che i produttori del Nuovo Mondo - dalla Nuova Zelanda alla California, dal Cile al Sud Africa e all’Argentina - stanno creando la New World Alliance per fare squadra fra loro e mettere a punto nuove strategie di marketing e di penetrazione per contrastare la forza dei paesi dell’Unione europea.

Copyright © 2000/2024


Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit


Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2024

Pubblicato su