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VINO E RISTORAZIONE

Enrico Bartolini: dalla campagna alla città, un viaggio tra fornelli e grandi vini

A WineNews - da “Benvenuto Brunello” a Montalcino, da ieri al 24 febbraio - lo chef più stellato d’Italia, che ha riportato le “tre stelle” a Milano

Con le sue 8 stelle Michelin, comprese le tre del “Mudec”, che hanno riportato Milano, dopo anni, sulla mappa dell’altissima ristorazione mondiale, Enrico Bartolini è il “Ducasse italiano”, ma tra i fornelli la sua è quella di una ricerca instancabile e continua, che tocca territori, tecniche, ingredienti e - ovviamente - il vino. Che, nella sua cucina, ha un ruolo di primo piano, ma tutt’altro che banale, come racconta a WineNews dalla cornice del “Benvenuto Brunello”, l’anteprima dell’annata 2015 del re del Sangiovese, di scena a Montalcino, da ieri al 24 febbraio. “Un grande maestro come Gualtiero Marchesi diceva che non è necessario abbinare il vino al piatto, anzi, raccomandava di bere acqua. Io - dice Bartolini - sono in una fase emotiva in cui mi piace consumare, con intelligenza, ciò che amo, come il vino. Mi piace anche abbinarlo ai cibi, ma non ho l’ossessione di doverlo fare a tutti i costi, cercando abbinamenti arditi. È bello che ci sia coerenza: se il vino è rosso, elegante, è stato per anni in botte grande prima di andare in bottiglia, va rispettato, cercando la sfumatura giusta per farlo dialogare con il piatto, l’ambiente e le persone. Con i piatti da rosso, un ingrediente rosso potrebbe andare bene, ma questo spesso non succede, al contrario: pensiamo al Brunello di Montalcino con il pomodoro, fanno a cazzotti. Quello che viene quasi naturale è invece l’abbinamento con i prodotti del territorio”.

E a proposito di prodotti, e quindi di ingredienti, c’è qualcosa di profondo che li trasforma in piatti unici, impensabile nella cucina quotidiana, quella di casa. “La differenza tra cuocere e cucinare - riprende Enrico Bartolini - è enorme: quando si cuoce si trasforma l’ingrediente per renderlo commestibile, e basta. Quando si cucina c’è una scienza che si applica: si trasforma l’ingrediente affinché il risultato della cottura sia più brillante di quanto fosse in natura. Pensiamo ad uno spinacio, verde in natura e che nel piatto deve essere verde brillante grazie allo chef, e magari durante la cottura si sposa con altri ingredienti e dar vita ad una ricetta, anche se semplice. È importante che in cucina si trovino le capacità di estrarre il meglio dagli ingredienti. Nel piatto cerco di non poggiare gli ingredienti, ma di costruire un talk show tra essi, che racconti il territorio ed il luogo e regali emozioni a chi mangia, ovviamente attraverso il filtro dello chef, che deve innescare queste emozioni in chi mangia”.

Ma se nel piatto la libertà, messa ovviamente al servizio del risultato e mediata dalla tecnica è massima, come si costruisce e cosa non può mancare nella wine list di un tristellato? “Non credo che si possano avere tutti i vini, il ruolo del ristorante è quello di offrire un servizio, e quindi rincorrere - o generare - le aspettative del cliente. Esistono ristoranti con menù fisso e vini abbinati, che non offrono possibilità di scelta, una strada restrittiva - sottolinea lo chef del “Mudec” - ma da rispettare. In generale, a parte i ristoranti di lusso, dove vorremmo trovare la verticale di ogni produttore possibile, che è impossibile da realizzare, ma ci sono ristoranti con cantine immense ovviamente. L’ospite è libero di farsi guidare, ricordando che nel mondo c’è una ristorazione che non è questa, e che genera volumi pazzeschi condizionando i mercati ed i produttori. Il commercio dà dei messaggi molto più forti di quanto non faccia la qualità, e questo porta inevitabilmente a compromessi: la raccomandazione che faccio ad un qualsiasi produttore è di costruire - come farebbe un cuoco - la propria identità per tirare fuori il meglio di ciò che ha tra le mani. Se ci sono due vini che non possono proprio mancare sono Barolo e Brunello, presenti nelle carte di tutto il mondo, ed essendo presenti sia nelle aste che nel posizionamento alto dei vini italiani, sono di sicuro un faro per tutti gli altri produttori, anche per quelli già bravi”.

A proposito di modelli imprenditoriali e di offerta, quello di Enrico Bartolini è un unicum in Italia, che trova un termine di paragone però in un maestro assoluto della cucina e della gastronomia francese, Alain Ducasse, cui viene spesso paragonato, che ha solo “sfiorato”, qualche anno fa, quando ne prese il posto a L’Andana, il ristorante di Tenuta La Badiola, griffe maremmana della famiglia Moretti. Un modello che, a quanto pare, ha ancora capacità e possibilità di espansione. “Non mi fermo, perché abbiamo appena iniziato. Tre anni fa abbiamo aperto il “Mudec”, contemporaneamente al Casual ed a L’Andana, che è stato il primo ristorante in cui mi sono, per così dire, esibito, gestito anni prima proprio da Ducasse, anche se questo è un periodo molto diverso per la gastronomia. Ci sono progetti futuri, ma non mi sento in obbligo di ampliare le attività. Prima di tutto vogliamo consolidare l’esistente, migliorando la vita delle persone che lavorano e che trasmettono un messaggio ai nostri ospiti: è difficile, perché ci sono regole ed umori, che vanno fatti incontrare quotidianamente, e se spesso l’adrenalina crea effetti straordinariamente positivi, altre ne crea di negativi. L’aggregazione è ricchezza, e le nostre idee principali sono su Milano, città a cui guarda il mondo intero, è un esempio amministrativo di come condurre una metropoli, tra cultura, integrazione, attenzione ai bambini. Da piccolo vivevo nel verde, l’idea della città mi faceva venire il mal di testa, infatti il primo ristorante, nel 2005, l’ho aperto in Oltrepo Pavese, dove potevo sentire il profumo della campagna, e allora già la tangenziale per Milano mi metteva di malumore. Dopo l’Expo invece vivo ogni quartiere della città con entusiasmo, è facile muoversi, ci sono persone e storie, belle, da tutto il mondo, e l’attitudine della gente sembra più positiva ed ottimista di qualche anno fa: un bel fiore, che dobbiamo tenere idratato”.

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