02-Planeta_manchette_175x100
Allegrini 2024
VINO E SCIENZA

Tra sostenibilità, ricerca e futuro, cresce l’interesse intorno ai vini da vitigni resistenti (Piwi)

I migliori della prima “Rassegna nazionale” alla Fondazione Mach, con le “lectio” dei professori Luigi Moio, Attilio Scienza e Fulvio Mattivi

Incuriosiscono e crescono, in vigna e nel dibattito vinicolo, i vini Piwi, che nascono dai cosidetti “vitigni resistenti”. Frutto di ricerca e incroci e che, al netto di risultati qualitativi sempre più incoraggianti, saranno sempre più importanti. Perchè “il futuro del vino nell’era della sostenibilità”, intervento del professor Luigi Moio, produttore, docente dell’Università Federico II di Napoli e presidente dell’Oiv-Organisation Internationale de la Vigne et du Vin, passa anche da vini che sono “uguali, diversamente”, come ha sottolineato Fulvio Mattivi, docente dell’Università degli Studi di Trento. In questo senso, il “meticcio ci salverà o meglio salverà la viticoltura”, ha ribadito il professor Attilio Scienza, docente di viticoltura all’Università di Milano, e tra i decani della ricerca enoica a livello mondiale. Le cui relazioni (nei focus) sono state al centro della premiazione della “Rassegna nazionale dei vini Piwi” n. 1, andata in scena alla Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige, centro di eccellenza mondiale nella ricerca scientifica in vigna ed in cantina.
“La prima rassegna nazionale dei vini ottenuti da uve “Piwi” rappresenta un ulteriore passo, importante, della Fondazione Edmund Mach verso la valorizzazione dei vini resistenti - ha spiegato il presidente della Fondazione Mach, Mirco Maria Franco Cattani - e per noi, quindi, quasi consequenziale rendersi promotrice di questo primo evento nazionale, un’attività di evoluzione scientifica e colturale, che vede protagonisti, da anni, anche alcuni dei nostri più sensibili ed appassionati produttori locali. L’attenzione al benessere ed allo sviluppo armonico del territorio nel quale insiste è quindi la missione infusa nel dna della Fondazione, che è nata e vive per gli agricoltori del Trentino, ma è ormai riconosciuta da decenni come elemento di riferimento scientifico anche in ambito nazionale e internazionale”.
A questa rassegna nazionale hanno partecipato 56 aziende, con 95 vini, che sono stati attentamente valutati il 18 novembre, da una Commissione composta da qualificati esperti. I 30 commissari hanno attribuito un punteggio ma anche ai parametri descrittivi ai vini presenti in ognuna delle cinque categorie previste: rossi, bianchi, orange, frizzanti, spumanti. L’evento, supportato dal Consorzio Innovazione Vite e dall’Associazione Piwi International, si proponeva di promuovere la conoscenza delle nuove varietà attraverso un confronto tra vini prodotti con almeno il 95% di uve provenienti da varietà Piwi (PilzWiderstandsfähig).
Il professor Mario Pezzotti, dirigente del Centro Ricerca e Innovazione, ha moderato il seminario scientifico, ed ha evidenziato come questa iniziativa valorizzi “il tema della sostenibilità in viticoltura, che non è più procrastinabile nell’immediato futuro. Significa portare la coltivazione della vite verso la transizione ecologica attraverso l’innovazione genetica ottenuta da lunghi e costosi programmi di miglioramento genetico”.
I migliori vini Piwi? Il “vincitore assoluto” è il Solaris 2020 di Weingut Plonerhof. Nella categoria “Vini Rossi”, invece, il migliore è El Masut 2019 di Terre di Ger, davanti all’Urano 2019 de Le Carezze ed al Novello 2021 di Cantina Pizzolato. Tra i “Vini Bianchi”, primeggia il Solaris 2020 di Weingut Plonerhof, davanti all’Arconi Bianco 2020 di Terre di Ger, e, a pari merito, all’Aromatta 2019 di Villa Persani e al Vino del Passo 2020 di Lieselehof. Ancora, tra gli “Spumanti”, il n. 1 è il Resiliens de Le Carline, davanti all’Iris 2020 de Le Carezze, al Santacolomba 2019 della Cantina Sociale di Trento, ad ex aequo con l’Oltre 2018 di Cantine Umberto Bortolotti. Tra i “Frizzanti”, invece, i top sono, nell’ordine, il Johanniter 2020 di Azienda Agricola Dellafiore Achille, il Diadema 2020 di Sartori Organic Farm e l’Hoppa 2020 di Cantina Pizzolato; tra gli “Orange” spiccano il Julian Orange 2019 di Lieselehof, il Rebellis 2019 di Giannitessari Società Agricola, ed il Planties Amphora 2017 dell’Azienda St. Quirinus.

Focus - L’intervento del professor Luigi Moio: “Il futuro del vino nell’era della sostenibilità”
“Per comprendere bene il presente bisogna conoscere il passato. Occorre capire bene le ragioni dei cambiamenti. È questo, forse, il miglior modo per ispirarci ed orientarci nel futuro. Per tale motivo in questa mia relazione cercherò prima di ricostruire gli eventi che hanno portato nel corso dei millenni al vino moderno, in cui la ricerca del legame stretto con i luoghi di origine ha determinato la nascita di una vera e propria estetica olfattiva e gustativa del vino, per poi fornire una visione logica dell’enologia del futuro. Un futuro che sarà analizzato alla luce dell’attuale scenario mondiale fortemente condizionato dalle indifferibili strategie di sviluppo sostenibile a causa dei cambiamenti climatici, delle considerevoli apprensioni di rispetto e custodia dell’ambiente e della pressante richiesta di trasparenza, sicurezza e salubrità del vino da parte dei consumatori. I decori che è possibile ammirare nelle tombe dell’antico Egitto, quelli dell’epoca romana e quelli di tutte le altre rappresentazioni della vendemmia che si sono susseguite nell’arco di millenni mostrano che, sostanzialmente, il modo di fare il vino non è mai cambiato. È sufficiente pigiare dei grappoli d’uva matura ed il mosto che ne fuoriesce comincia spontaneamente a fermentare, la temperatura aumenta, il gusto dolce lentamente svanisce ed al suo posto appare un sapore leggermente alcolico.
Tutto ciò si è ripetuto per millenni in quanto il vino in origine era percepito come un prodotto che doveva presentare poche caratteristiche essenziali tra cui la più importante era la conservabilità. Infatti, il principale problema è sempre stato la sua facile deteriorabilità nonostante la presenza dell’alcol e dell’acidità che in qualche modo ne garantivano la sicurezza igienica. È a partire dal diciannovesimo secolo, periodo in cui, si è avuto un notevole sviluppo delle conoscenze scientifiche in chimica ed in biologia che è stato dato un impulso importante al miglioramento ed al potenziamento dell’intera filiera vitivinicola. Proprio l’uva ed ancor di più il vino, furono utilizzati dai ricercatori per approfondire molteplici studi in tali discipline. Addirittura, il vino si rivelò un formidabile modello naturale di studio utilissimo per la comprensione di fenomeni biochimici fondamentali come la fermentazione alcolica dando, nel 1789, un contributo fondamentale a Lavoisier, nella comprensione del principio di conservazione di massa e, successivamente, nel 1866, a Pasteur nel confutare in modo risolutivo la presunta teoria della generazione spontanea dimostrando che la fermentazione alcolica era un fenomeno collegato alla vita in quanto condotta da lieviti. Negli anni successivi a questi primi fondamentali studi sul vino, sono stati indagati innumerevoli aspetti della produzione del vino che hanno condotto allo sviluppo di una vera e propria “scienza del vino” destinata a migliorare in modo determinante le condizioni di coltivazione dell’uva ed i processi alla base della sua trasformazione in vino.
Una volta compresi i fenomeni alla base della genesi del vino e della sua stabilità microbiologica e chimico-fisica, gli uomini hanno sempre cercato di migliorarne le caratteristiche sensoriali fino a giungere ai nostri giorni in cui il vino è diventato un vero e proprio bene culturale ed emozionale, risultato del controllo di profonde conoscenze di naturali fenomeni biologici e biochimici. Tutto ciò ha reso possibile l’ottenimento di vini con caratteristiche sensoriali direttamente collegate alla varietà d’uva e ai luoghi di origine.
Una diversità sensoriale che non è stata mai così evidente come negli ultimi decenni in cui l’enorme crescita di conoscenze tecniche e scientifiche, sia in vigna che in cantina, hanno consentito di mettere meglio in valore le differenze naturali legate alla varietà d’uva d’origine e all’areale di coltivazione della vigna dando un’infinità di vini espressivi dei loro luoghi di produzione. Lo scenario di oggi, a causa degli evidenti cambiamenti climatici, rischia di indebolire la diversità sensoriale dei vini ed il suo stretto collegamento con il concetto di “terroir”, oltre ad influenzarne negativamente la longevità e la shelf-life aromatica.
Pertanto, oltre a tutto ciò che rientra nelle oramai classiche strategie finalizzate allo sviluppo sostenibile nella speranza di rallentare la spericolata corsa del nostro pianeta verso scenari sempre più dannosi, è fondamentale, nel settore vitivinicolo, riconsiderare un principio agronomico primario, forse un po’ trascurato negli anni recenti: favorire il perfetto adattamento tra il genotipo e l’ambiente, ovverosia coltivare la pianta che maggiormente si adatta al contesto pedoclimatico in cui si opera. Con la perfetta sintonia di una specifica cultivar di vite con l’ambiente pedoclimatico in cui essa vegeta, la possibilità che i grappoli, una volta maturi, abbiano tutti i parametri compositivi in equilibrio, è molto più elevata. Di conseguenza anche il vino che si otterrà, oltre ad essere più “sostenibile”, sarà armonico in tutti i suoi componenti ed il suo equilibrio sarà principalmente dovuto alla perfetta combinazione tra pianta, suolo e clima, che insieme all’uomo costituiscono la base del concetto di terroir. Se questa naturale armonia del vino non si verifica a causa di uno squilibrio compositivo del grappolo d’uva per una inadeguata sintonia tra pianta, suolo e clima, l’uomo deve intervenire molto di più per compensare, per correggere, per ricomporre un equilibrio. In tal caso non è possibile creare quelle condizioni che, proprio in seno all’Oiv, amo definire di “enologia leggera”: ovvero di una enologia che necessita di un numero di interventi minimi da parte dell’uomo e di conseguenza attuale rispetto ai temi ambientali e di salute del consumatore. Oltre agli aspetti puramente enologici alla base della realizzazione di vini più “sostenibili”, verranno passati in rassegna anche gli altri punti critici fondamentali che coinvolgono la filiera del vino nei prossimi anni: gli approcci biologici con la riduzione di prodotti chimici di sintesi, le strategie agronomiche ecocompatibili di precisione, i programmi di miglioramento genetico per aumentare la resistenza delle piante alla pressione dei patogeni, i principi alla base dei cosiddetti “suoli viventi”, ed infine, l’etichettatura verso la pressante richiesta di trasparenza, sicurezza e salubrità del vino da parte dei consumatori”.

Focus - L’intervento del professor Attilio Scienza: “Il meticcio ci salverà o meglio salverà la viticoltura”
“Il 1700 fu un secolo fondamentale per le conoscenze nel campo delle scienze naturali. Buffon per gli animali e Linneo per i vegetali definiscono alcune categorie fondamentali per la comprensione delle diversità tra gli organismi viventi, una nomenclatura capace di classificare tutte le specie animali e vegetali, basata sul genere e la specie. La storia della macrotassonomia, la scienza della classificazione, è uno straordinario viaggio nella diversità delle forme della vita, ricco di scoperte e di colpi di scena, che alimenta nell’800 il concetto di razza umana, attraverso la fisiognomica lombrosiana.
Le nozioni di “razze superiori” e “razze inferiori” nascono nell’Ottocento con la pubblicazione del Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane (1853-55) di Joseph Arthur de Gobineau. Il saggio stabiliva, infatti, l’ineguaglianza originaria delle razze, creando una tipologia fondata su criteri di gerarchizzazione ampiamente soggettivi come la “bellezza delle forme, forza fisica e intelligenza”. Criteri utilizzati dal nazismo per discriminare ariani ed ebrei. Bisogna arrivare alla fine degli anni 70 del secolo scorso con Luigi Cavalli Sforza dove nel suo libro “Introduzione alla genetica umana” del 1976 contesta il significato di razza, sostituendolo con la parola popolazione o gruppo etnico. Il concetto di razza ha delle motivazioni di carattere culturale, ma non ha basi biologiche. I caratteri che ci permettono di assegnare un individuo a una delle principali popolazioni umane sono il colore della pelle, il colore e la forma dei capelli, la forma del corpo e ancora più della faccia e degli occhi. Queste differenze sono senz’altro ereditarie e possono essere ricondotte in buona parte ad adattamenti ambientali.
Un ragionamento analogo possiamo farlo per il genere Vitis. I resti fossili di vite del calco della foglia della V.Sezannensis ritrovata nelle marne della Champagne e della V.teutonica nelle argille della Slesia, sono ritenuti i più antichi e risalgono alle stratificazioni eoceniche del primo Terziario. Le impronte fogliari di queste vitacee, definite previnifera, sono da ritenere di “transizione” tra il tipo americano e quello europeo-asiatico delle Vitis vinifera. Questo è un indizio importante della continuità genetica all’interno del genere Vitis nell’Eocene prima che i due continenti venissero separati dallo stretto di Bering.
Il tema della comune origine delle specie americane e della vite europea è attualmente molto divisivo nella comunità scientifica, che in base alle classificazioni basate su caratteri ampelografici e geografici, differenzia in modo netto le specie, un po’ come si è fatto nel passato con le razze umane. La prova di queste differenze è secondo i difensori della “purezza della vite europea” nella presenza di due metaboliti nelle bacche, il metil antranilato, responsabile del sapore di fragola e gli antociani di-glucosidi. Questa ultima caratteristica è portata da un tratto di DNA che per effetto di una doppia mutazione non è più espressa in V.vinifera, sebbene sia presente nel suo genoma ed è correlata ad un gene coinvolto nella sintesi dell’aroma caratteristico foxy della V.labrusca. Questa co-localizzazione fa si che negli ibridi di V.labrusca l’aroma di foxy sia trasferito assieme a quelli della sintesi degli antociani di-glucosidi, ma che per gli effetti delle mutazioni o ricombinazioni genetiche avvenute nel corso dell’evoluzione, l’espressione di questi geni sia stata profondamente mutata nella vite europea nel corso delle generazioni e quindi non si esprime più.
A conferma dell’origine comune delle viti americane e quella europea, una recente ricerca sulla filogenesi del genere Vitis, basata su sequenze di DNA nucleare e plastidiale, propone il centro di origine per il genere nel Nuovo Mondo e quindi le specie sono migrate durante il tardo Eocene (circa 40 milioni di anni fa) in Eurasia. Si ipotizza che i ponti terrestri dell’Atlantico settentrionale (la Beringia) siano stati la via più plausibile per la migrazione dal Nuovo Mondo all’Eurasia, capovolgendo così le ipotesi finora formulate che vedevano la diffusione del genere Vitis dalla direzione opposta. Le glaciazioni del Quaternario hanno decimato le specie in Europa mantenendo invece un elevato grado di variabilità nel America settentrionale. Gli sviluppi di queste ricerche porteranno in un futuro non lontano alla conclusione che non ci sono viti di “serie A”, i vitigni europei, e viti di “serie B”, le specie americane e quindi si potranno usare finalmente i nuovi vitigni resistenti anche per i vini a Doc”.

Focus - L’intervento del professor Fulvio Mattivi: “Uguali, diversamente. La composizione dei vini dai vitigni tolleranti ai patogeni fungini”
Molti ritengono che i vitigni tolleranti ai patogeni fungini siano una novità. L’uomo ha la memoria corta. Vi sono stati decenni, a partire dal 1871 circa, in cui la necessità impellente di trovare soluzioni contro la fillossera, e poi di affrontare una serie di nuovi patogeni fungini arrivati dall’America, hanno indotto ad esplorare l’enorme biodiversità presente nelle viti alla ricerca di migliorare svariati caratteri. Tramite la tecnica dell’incrocio di viti americane, portatori di resistenza ai patogeni, con la vite europea, sono stati introdotti caratteri di rusticità e di resistenza alle intemperie e perfino agli insetti (tignola e tignoletta). Un percorso non semplice, dato che in molti casi le prime generazioni di questi “ibridi interspecifici” avevano ancora composizione diversa e caratteri qualitativi inferiori a quelli richiesti dal mercato Europeo. Ma venne rapidamente migliorata effettuando successivi re-incroci con vitigni europei, per cercare di elevare la qualità delle uve e dei vini, mantenendo i geni di resistenza. L’enorme sfida affrontata dalla ricerca a cavallo tra il XVIII e XIX secolo è ben sintetizzata dal professore dell’Università di Tolosa Ernest Pée-Laby nella terza edizione ampliata, del 1929, del suo trattato dove descrive il contesto dei nuovi patogeni ed il comportamento di ben 202 di questi nuovi vitigni. “Non appena il reimpianto (dei vigneti distrutti dalla fillossera) ebbe termine, una serie di nuove piaghe si abbatté su questa infelice vite. È stata la peronospora la prima che ci è arrivata dall’America come la fillossera. Intorno al 1880, tutte le viti d’Europa furono invase da questo parassita. È vero che, dal 1850, furono spesso attaccati dall’oidio, ma furono difesi con il fiore di zolfo. Poi fu l’antracnosi e soprattutto il marciume nero. Il terribile marciume nero, il terrore dei viticoltori, una malattia che, in poche ore, spazzò via i raccolti mal difesi. È ancora un regalo degli Stati Uniti. La sua presenza fu osservata per la prima volta in Francia intorno al 1885.” Inoltre, sulla base di una esperienza ultraventennale nel monitoraggio, Pée-Laby proseguiva: “d’altra parte, nell’inevitabile quantità di nuovi ibridi introdotti nel campo della sperimentazione, da questa volta ho dovuto scegliere di indicare solo i vitigni che mi sembravano soddisfare le condizioni di un vero ibrido. Ho dovuto rivedere lo stesso ibrido in ambienti diversi prima di potermi formare un’opinione sul suo valore. Ecco già un esempio per mostrare la necessità di non proporre troppo presto le capacità di un determinato ibrido”. “Gli ibridi sono coltivati per fornire economicamente il vino necessario per il consumo. Ma deve ancora essere accettabile. Ne abbiamo dubitato per molto tempo. A poco a poco, grazie alle mostre e ai concorsi di vini ibridi organizzati nei principali centri di produzione, si è riconosciuto che se esistevano, soprattutto all’inizio, ibridi che producevano vini imbevibili, principalmente dal sapore foxy, ce n’erano altri che erano in grado, non solo di dare vini ordinari equivalenti a quelli dei vigneti francesi, ma anche di superarli, principalmente nei bianchi, in attesa che si notino gli stessi progressi per i vini rossi, che non tarderanno ad arrivare.” “L’entusiasmo per la coltivazione di nuovi ibridi è tanto maggiore in quanto i vini prodotti da questi vitigni sono riconosciuti come buoni e possono competere vantaggiosamente con quelli prodotti dai vitigni francesi”. Purtroppo, l’arrivo dopo la seconda guerra mondiale della meccanizzazione accompagnata dalla difesa chimica, ha visto abbandonare quasi del tutto quello che era un terreno fertile di ricerca. Alcuni gruppi di ricerca hanno caparbiamente tenuto vivo il miglioramento genetico, con il rilascio di qualche vitigno bianco degno di nota, specie sul versante qualitativo, nel centro Europa. Intanto, verso il 1960, nella peraltro lodevole intenzione di difendere gli oltre 500 vitigni autoctoni presenti, partì una demonizzazione degli ibridi produttori, basata sul contenuto di tracce più elevate di metanolo e, nei vini rossi, della presenza di pigmenti antocianici portanti due molecole di zucchero, invece che una sola come per le uve ed i vini da vite europea. Agli occhi odierni è chiaro che fu una guerra senza esclusione di colpi, volta a togliere completamente dal mercato le varietà ibride tolleranti ai patogeni. Basata su argomentazioni largamente pretestuose, anzi direi “ridicole” nel caso degli antociani diglucosidi. Il progresso della scienza ha permesso di smascherare queste argomentazioni scientificamente poco fondate, ma si sa in Europa la legge non si preoccupa molto della scienza. Quindi i divieti introdotti nel secolo scorso sono ancora oggi presenti nella legislazione europea, ponendo dei vincoli all’utilizzo dei vitigni tolleranti a bacca rossa. Alle volte la storia è ciclica. Un secolo dopo, l’aumentata pressione e resistenza ai fitofarmaci dei patogeni, l’impatto crescente dei cambiamenti climatici che pone in dubbio l’esistenza stessa di alcuni vini come oggi li conosciamo, e l’aumentata sensibilità ambientale, hanno portato numerosi centri di ricerca a puntare nuovamente sull’utilizzo della biodiversità esistente all’interno della vite per trovare risposte durature. Dispiegando approcci diversi, dal classico incrocio fino al genome editing. Sono già oggi disponibili decine di vitigni interessanti, molti dei quali ammessi alla coltivazione. Che sono il risultato di svariate generazioni di reincrocio con le viti europee, aumentando ad ogni generazione la vicinanza genetica con la Vitis vinifera. Per questo non vengono più denominati ibridi, un termine ormai desueto. Sono ormai considerati geneticamente equivalenti ai vitigni europei tradizionali. In questa relazione passeremo in rassegna gli elementi compositivi peculiari di alcune viti americane nel confronto con i vitigni europei. Per poi discutere i risultati di studi effettuati in Italia e Germania per confrontare la composizione delle uve e dei vini di alcuni vitigni tradizionali europei, con quella di una selezione di vitigni tolleranti. Entrambi i gruppi di vitigni, tradizionali e tolleranti ai patogeni fungini, hanno una elevata diversità. Come per i vitigni tradizionali, la loro composizione dipende enormemente dall’interazione con il territorio. Le prime conclusioni di questi studi sono chiare. Lo spazio metabolico, ossia l’insieme dei metaboliti presenti nei prodotti delle due famiglie di vitigni sono del tutto sovrapponibili. In modo pressoché totale per i vitigni bianchi. L’unica classe di composti che resta distintiva, perché maggiormente presente, è quella degli antociani diglucosidi in molti vitigni tolleranti a bacca rossa. Stranamente, nei programmi di selezione si è finora spesso trascurato questo aspetto. Ma anche questo carattere può essere rimosso durante la selezione della progenie, come dimostrano i vitigni Termantis e Nermantis rilasciati dalla Fondazione Mach. Quello che emerge da questi studi, e dalla valutazione dei risultati delle numerose aziende che stanno facendo da esploratori, è che i vitigni tolleranti alle malattie presentano caratteristiche produttive e qualitative estremamente diversificate. Alcuni, ma non tutti, hanno il potenziale di poter produrre vini di elevata qualità ed anche di eccellenza. Hanno caratteristiche che possono spaziare dalla produzione di vini spumanti fino agli orange, dai rosati ai vini rossi da invecchiamento. Purtroppo, l’introduzione in Italia richiede oggi la replicazione di esperimenti similari, nelle diverse regioni, che lasciano poco spazio alla valutazione fine della attitudine vitienologica. Sono di limitata utilità. Serve uno sforzo coordinato per realizzare più importanti sperimentazioni a livello nazionale, per valutare per ogni genotipo quali siano le modalità di coltivazione ottimale, quali stili di vino valorizzino ciascun vitigno, e soprattutto quale sia la plasticità e quali le migliori combinazioni con il territorio. Ogni tanto si sente raccontare che i vitigni tolleranti vanno bene per essere piantati nelle zone sensibili, vicino ai centri abitati, o dove vi siano contenziosi con i residenti. Se fosse così, dovremmo dare per scontato che sono vitigni di serie b. Non è questo il caso, ma serve uno sforzo importante per una sperimentazione pluriennale che permetta una espansione di una viticoltura a basso impatto, legata al clima ed al territorio. Se ci sarà - cosa di cui sono convinto - un futuro di crescita, non sarà certo a scapito della qualità”.

Copyright © 2000/2024


Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit


Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2024