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RICERCA E LEGGE

Ue, via libera ai “vitigni resistenti” nei vini a Denominazione. Una svolta epocale per il settore

Ma in Italia il percorso è ancora lungo. A WineNews il professor Attilio Scienza (Comitato Nazionale Vini) ed Eugenio Sartori (Vivai Rauscedo)
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Il professor Attilio Scienza, presidente del Comitato Nazionale Vini

I “vitigni resistenti”, sempre più al centro dell’attenzione e del dibattito nel mondo del vino, potranno essere utilizzati nei vini a denominazione di origine in Europa. La notizia è di quelle che segnano le svolte epocali, anche se - contrariamente a quanto può suggerire - quel tempo non è proprio dietro l’angolo, almeno in Italia. Per prima cosa c’è il passaggio del recepimento delle modifiche del Regolamento europeo da parte di ogni Paese e poi, ancora, di mezzo ci sono l’autorizzazione dei resistenti da parte delle Regioni - in Italia sono poche ad averla data - e, soddisfatto questo presupposto, il loro inserimento nei disciplinari di produzione delle denominazioni affrontando la trafila che le modifiche comportano. Finora per i vini a Denominazione prodotti nell’Unione Europea era possibile utilizzare soltanto vitigni della specie Vitis vinifera (vite europea) in purezza, ed erano quindi esclusi i vitigni che hanno nel loro genoma tracce di altre specie, come appunto i vitigni resistenti alle malattie fungine (peronospora e oidio), frutto di incroci con viti asiatiche o americane (Vitis amurensis e non solo). La modifica del Regolamento (Ue) 2021/2117, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea il 6 dicembre scorso, ora, sdogana questi incroci che stanno ultimamente riscuotendo molto interesse nell’ottica di una viticoltura meno impattante sull’ambiente grazie alla riduzione dell’uso di fitofarmaci.
“Ora la palla è nel campo delle Regioni e dei Consorzi - spiega a Winenews Attilio Scienza, luminare del settore, docente di viticoltura dell’Università di Milano e presidente del Comitato Nazionale Vini - ad oggi solo un piccolo numero di Regioni ne hanno autorizzato la coltivazione sono, ma altre si stanno muovendo. Il passaggio successivo è “promuoverle” da “autorizzate” a “raccomandate” per poterle utilizzare nei vini Doc nella quantità massima del 15%. Dopo tre anni, poi, i Consorzi possono chiedere di aumentare questa quota con modifiche ai disciplinari che non dovrebbero incontrare difficoltà nel doppio passaggio dal Comitato Vini e da Bruxelles”.
Per inciso, racconta ancora Scienza, i francesi ci hanno preceduto: hanno considerato i resistenti “moderni” come appartenenti a Vitis vinifera e li hanno iscritti nell’elenco delle varietà di vite europea, mentre in Italia sono stati inseriti in una categoria speciale. E, infatti, due vitigni resistenti sono già stati inseriti rispettivamente nel disciplinare dello Champagne e del Bordeaux.
A proposito dell’iscrizione come “categoria speciale”, Eugenio Sartori, dg Vcr-Vivai Cooperativi Rauscedo, sottolinea che “la prima azione a livello ministeriale dovrà essere la rimozione della limitazione posta a margine dei resistenti nel Registro Nazionale delle Varietà”, che probabilmente rientra nelle azioni dovute nell’ambito del recepimento nazionale delle modifiche del Regolamento.
“In Italia - sottolinea Scienza - abbiamo vincoli culturali e antropologici che vanno rimossi con la comunicazione, e non sarà facile con 200 anni di questa cultura alle spalle. La prima cosa da fare è incrementare i resistenti di vitigni autoctoni. Oggi ne abbiamo solo tre, la Nosiola e il Teroldego, selezionati da Fondazione Mach, e il Tocai, frutto del lavoro dell’Università di Udine. Tra un paio di anni arriverà la Glera e allora l’impatto sarà forte. Gli altri resistenti disponibili si riferiscono a varietà internazionali, ma noi abbiamo bisogno di un Nebbiolo, di un Sangiovese, di un Nero d’Avola, di un Aglianico, eccetera. La seconda urgenza è la sperimentare dei vitigni resistenti in numerosi e diversi ambienti pedoclimatici per capire le loro performance, che possono essere anche molto differenti, come nel caso del Solaris, uno dei più “vecchi”, che in altitudine in Alto Adige dà vini decisamente molto più interessanti che altrove. Serve un progetto nazionale per mettere in prova in campo e in cantina i 50-60 resistenti disponibili per capire dove vengono meglio. Con i resistenti si potrebbe cominciare a utilizzarli al 100% per produrre vini Igt che non portino il nome del vitigno, ma del territorio, come in Alto Adige hanno fatto con il Bronner. Le Igt, d’altra parte - sottolinea ancora Scienza - sono sempre state un banco di prova dei vitigni per le Doc. E poi, fondamentale, è la comunicazione che deve valorizzare la grande sostenibilità ambientale dei vini ottenuti dalle varietà resistenti, che peraltro hanno anche maggior resilienza rispetto alla vitis vinifera. Va anche chiarito il reale significato di “autoctono”, che è riferito al luogo in cui un vitigno esprime il meglio di sé e non a quello di origine. Così per esempio nel caso del Sangiovese penso alla Toscana e non all’autoctonia della provenienza da Calabria, Sicilia e Campania”.
“Attualmente i vitigni resistenti sono stati autorizzati in Friuli Venezia Giulia, Veneto, Trentino Alto Adige, Emilia Romagna, Marche e Abruzzo - spiega Sartori - una facilitazione per l’autorizzazione potrebbe venire da un cambiamento del modus operandi. Diversamente da quanto previsto dall’accordo Stato-Regioni, si potrebbe fare riferimento a prove in campi sperimentali non regionali, ma per le macro-aree di Nord, Centro, Sud e Isole”. Come dire 4 vigneti sperimentali e non 20.
I tempi da parte delle Regioni potrebbero essere più stretti “se si procedesse - suggerisce il professor Scienza - come nel gioco del domino ricorrendo al “principio di contiguità”, permettendo l’iscrizione al Registro regionale o provinciale se il vitigno è già stato autorizzato in una regione confinante”.
Il vero punto critico, il collo di bottiglia, è rappresentato dalla mancanza di “resistenti autoctoni” a supporto dei vini a denominazione. Punto critico che supporta anche la resistenza offerta da alcune Regioni all’autorizzazione della coltivazione dei resistenti.
Ad oggi non è né facile, né veloce ottenere vitigni autoctoni resistenti, tuttavia “se le autorizzazioni alla coltivazione dei resistenti esistenti andranno spedite - immagina Scienza - credo che la ricerca avrà un’accelerazione e potrà diventare una vera rivoluzione. Ci sono diversi progetti orientati all’ottenimento di autoctoni resistenti, per esempio la Sicilia si sta muovendo in questa direzione. Purtroppo, con il genoma editing, nel caso della vite, ci sono alcune difficoltà. La fase sperimentale è indietro e questo sposta di 10-15 anni l’orizzonte temporale per ottenere individui del tutto simili ai genitori, se non migliori dal punto di vista della resistenza. Quindi in questa fase si dovrà continuare ad operare con l’incrocio ricorrente e la selezione assistita. E non c’è tempo da perdere”.

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