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1.500 RACCONTI ISPIRATI AL MONDO DEL VINO FIRMATI DA ABILI SCRITTORI APPASSIONATI DEL BUON BERE: E’ BOOM PER IL CONCORSO LETTERARIO, PROMOSSO DA SANTA MARGHERITA, CON FELTRINELLI, CHE PREMIA AUTORI DI BEST SELLERS DI RETRO-ETICHETTE DI BOTTIGLIE

Italia
Luca Marzotto, Gaetano Marzotto, Ettore Nicoletto: ecco i vertici della Santa Margherita

Oltre 1.500 racconti in 4.000 battute dedicati al variegato mondo del vino, frutto della fantasia e della creatività di appassionati scrittori amanti del buon bere: un modo originale e divertente per decretare i futuri autori delle storie best sellers che saranno pubblicate sulle retro-etichette delle bottiglie di Pinot Grigio, Chardonnay Trentino e Müller Thurgau Frizzante di Santa Margherita, diffusi in decine di migliaia di “copie”, come i libri più famosi, e letti e “sorseggiati” da un vasto pubblico, in casa, in enoteca e al ristorante. E’ boom per l’edizione n.3 del Concorso letterario, promosso da Santa Margherita, in collaborazione con le Librerie Feltrinelli: “Un libro, una bottiglia e...” di Giuseppe Santarsiere, “Purché se ne parli” di Gabriele Scorzoni e “Una bottiglia di quello buono” di Francesco Da Riva sono i tre racconti originali vincitori del concorso, firmato da una delle cantine più importanti d’Italia.
In “Un libro, una bottiglia e...” Giuseppe Santarsiere immagina un’imprevedibile caccia al tesoro tra i segreti di una ricca biblioteca e le bottiglie pregiate di una cantina, creando un divertente legame tra letteratura e mondo del vino, tra le cose belle e raffinate. “Purché se ne parli” è una divertente storia nata dalla penna di Giuseppe Scorzoni, che racconta di un uomo, Ennio, che, abbandonata una semplice vita da impiegato, mette in piedi una piccola azienda vinicola, un sogno a lungo desiderato ma un’avventura destinata a finire male. Francesco Da Riva in “Una bottiglia di quello buono” ci racconta di un vignaiolo alle prese con i segreti dei vini dei rivali, considerati più buoni dei suoi.
Tre storie diverse che, grazie alla loro originalità e fantasia nel diffondere con semplicità la cultura del vino, hanno conquistato la giuria di esperti del settore - da Inge Feltrinelli, ai giornalisti Gad Lerner, Licia Granello di “La Repubblica”, Anna di Martino de “Il Mondo”, dal curatore delle guide de L’Espresso Enzo Vizzari al direttore di “Euposia” Giuseppe Giuliano, dal direttore didattico di Alma Luciano Tona a Luisa Carrada, blogger di www.mestierediscrivere.com, fino al capo ufficio stampa di Feltrinelli Editore Paolo Soraci e il direttore marketing di Santa Margherita Lorenzo Biscontin - tra gli oltre 1.500 appassionati che hanno voluto partecipare all’iniziativa eno-culturale.
Anche per quest’anno tre autori Doc del mondo della letteratura italiana hanno aderito all’iniziativa nello splendido scenario di Villa Necchi Campiglio a Milano, con tre racconti inediti sul tema del vino: accanto a Benedetta Cibrario, recente vincitrice del Premio Campiello 2008, con il romanzo “Rossovermiglio”, nel quale il vino svolge un ruolo a dir poco decisivo, Vanni Santoni, scrittore e giornalista, e Ippolita Avalli, autrice anche di cinema e teatro.

La classifica Santa Margherita/Feltrinelli - Ecco i racconti best-sellers ...
- “Un libro,una bottiglia e......” di Giuseppe Santarsiere (1° classificato)
La villa, il giardino, alcuni ettari intorno, una biblioteca con migliaia di volumi pigiati negli scaffali tarlati, centinaia di bottiglie impolverate nella cantina, una spider del 1961, tre cavalli da sella e diversi quadri. Di soldi nemmeno l’ombra: eppure di denari il nonno doveva averne, e tanti. Sì, ma dove li aveva messi: certamente non sotto il classico mattone. Una postilla in calce al testamento aveva lasciati perplessi noi e lo stesso notaio. Era scritta con la grafia del nonno : < Carissimi, se desiderate anche il “resto” dovrete frequentare per un po’ la cantina e la biblioteca. Abbiate cura delle mie bottiglie e dei miei libri. Auguri e buona fortuna! > A quale resto alludesse, si intuiva subito. Il nonno non era stato uno spendaccione. Gran collezionista di libri antichi, di vini pregiati e particolari, questo è vero; non è che fosse stato un gran lettore o bevitore impenitente, tuttavia quell’uomo taciturno un po’ misterioso e ricercato, dotato di cultura classica, amava circondarsi di cose belle e raffinate. Era bibliomane oltre che bibliofilo e lo stesso valeva per le bottiglie d’annata. Considerava la cantina il sancta sanctorum della sua casa e la biblioteca l’ara pacis dei suoi momenti di riposo. Aveva collocato le bottiglie nelle nicchie in cantina che aveva ricavato nello spessore della muratura. Ogni nicchia era numerata coi caratteri romani dipinti in bianco su sfondo nero ed anche i supporti dei candelieri provenienti probabilmente da qualche vecchia sacrestia, erano allineati come fossero granatieri. Lampadine in cantina egli non ce le aveva volute, diceva che la luce elettrica “innervosiva e disturbava” il vino. Il nonno era fatto a modo suo. Ai libri ed ai vini, altre passioni si erano aggiunte quando era rimasto vedovo. Gli piacevano in ordine gerarchico decrescente anche le donne ed i cavalli. Che rapporti avesse poi con entrambi- data l’età avanzata- non era agevole stabilire. Al nonno piaceva l’idea di possedere il lato estetico delle cose belle. Completato l’inventario non fu difficile il piano di suddivisione dell’eredità. Il vero problema era la singolare postilla al testamento che ci ficcava in testa le supposizioni più strampalate. Quella frase era una fida. Si trattava di esplorare la cantina e la biblioteca: iniziammo dalla cantina. Controlli sistematici. Esaminammo le bottiglie, una ad una. Vini dai nomi sconosciuti, altri noti e di annate di pregio. Ad un certo punto una bottiglia ci fece sobbalzare. Sull’etichetta una scritta a penna con la grafia del nonno: "G. Baptista Cruci est indicium." Grandezza di internet e di Google! Dopo qualche clic su...vino e...Croce, ecco apparire la videata web su Giovanni Battista Croce autore "Della eccellenza e diversità de i vini che nella montagna di Torino si fanno." Di corsa in biblioteca; ecco il libro polveroso e dentro un cartellino:< Bravi! Bene, primo indizio risolto. La banca è la G.Tell Credit Group di Ginevra. Il numero di conto è in cantina: nicchia prima, numero bottiglia LXXI.> Giù per le scale a rotta di collo. A quel posto c’era una bottiglia impolverata con una scritta della casa vinicola con l’etichetta sul retro ed i versi di Marziale. Cuori che battono. Uaooh! Emozione. Leggiamo: Epistola del brindisi per le donne amate.“Laevia sex cyathis, septem Iustina bibatur, quimque Lycas, Lyde quattuor, Ida tribus. Ommnis ab infuso numeretur amica Falerno,et quia nulla venit, tu mihi, Somne,veni.” Federica, fresca della maturità classica tradusse a braccio: Levia: cinque. Giustina: otto. Lica e Lide: quattro e quattro. Ida tre. Quante lettere ha ciascuna delle mie amanti, altrettante coppe di falerno versato. E poiché non ne arriva neppur una, vieni tu, sonno, a me. Eureka! Accidenti ragazzi: il C/C è il n. 58443. Aprimmo la bottiglia e brindammo felici. Mai vino ci sembrò più buono. L’indomani di buon mattino partimmo per Ginevra.
- “Purché se ne parli” di Gabriele Scorzoni (2° classificato)
Lo ripetevano tutti, fa’ buon viso a cattivo gioco. Oppure dicevano: è un’occasione che va sfruttata. O ancora: se ne parli male, purché se ne parli. Dicevano che doveva sforzarsi di avere una mentalità imprenditoriale. Ma Ennio voleva solo fare del vino. Del buon vino. Lo aveva desiderato per tutta la vita, no? Timbra cartellini, compila moduli, manda fax. E coltiva un sogno. Beh, Ennio il suo sogno lo aveva realizzato, e a lui andava bene così. Dopo trent’anni di routine nella contabilità di una ditta di trasporti, aveva investito la sua liquidazione, ed ipotecato il suo appartamento, per mettere in piedi una piccola azienda vinicola, trasformando il piccolo capitale in vitigni Pinot di quindici anni di età, avvinghiati a fili tesi fra un palo e l’altro secondo il metodo Guyot. Sembravano lattanti in grembo ad un esercito di bambinaie, e raccontavano il suo amore. Grappoli luminosi attraversati da venature ramate. Giallo, verde ed oro, i colori della felicità di Ennio: a vederli, i filari sembravano le minuscole pennellate di uno qualsiasi degli impressionisti.
Ma con l’avvento delle molotov tutto cambiò, e chiunque conoscesse Ennio principiò a ripetergli: se ne parli male, purché se ne parli. Le molotov erano apparse in televisione quando a Milano la Digos aveva fatto irruzione nell’appartamento di un noto parlamentare, sequestrando diciotto fucili, un paio di pistole e quattro bombe incendiarie. Qualcuno disse che il politico sosteneva gruppi di separatisti veneti, altri sostennero che in realtà egli fosse un jihadista, altri ancora si animarono nello spiegare che si trattava di un tentativo di sovversione alimentato dalla massoneria, e ci fu chi dichiarò di avere le prove che c’entravano le brigate rosse. L’unica certezza erano le quattro molotov, che, scintillanti per via dei flash dei fotografi presenti alla conferenza stampa della polizia, mettevano in bella mostra la loro etichetta: Pinot Grigio Casale Ceri. Ceri come Ennio Ceri. Le molotov erano state infatti confezionate con le bottiglie del vino prodotto da Ennio, messe davanti alle telecamere, mandate in onda per giorni e pubblicate a più riprese su tutti i principali quotidiani, in prima pagina. Tu manchi di mentalità imprenditoriale, disse la moglie di Ennio. E aggiunse: se ne parli male purché se ne parli, sfruttiamo quest’occasione. Questa è pubblicità gratuita! Ma Ennio voleva solo fare del vino. Uve raccolte a mano, pressatura soffice, fermentazione controllata in acciaio, riposo su fecce fini. L’aveva sognato ad ogni bolla di trasporto timbrata durante i decenni di prigionia lavorativa. Mezzi e procedimenti, certo, si erano rivelati moderni e luccicanti, più di quanto Ennio avesse immaginato, ma nulla avevano alterato del suo amore per la terra argillosa, per la vite gonfia di Sole, per i calici pieni di vino giallo paglierino. Gli enologi dicevano che il suo pinot sprigionava aromi di pera e crosta di pane; lui ci sentiva l’odore del vento altoatesino, e quello delle sue mani che raccoglievano l’uva insieme a quelle dei suoi dipendenti.
Ma le molotov sconvolsero tutto. I vignettisti disegnarono le sue etichette sui quotidiani nelle rubriche satiriche. Partiti politici utilizzarono il nome Casale Ceri per giochi di parole alla base di propagande formato settanta cento. Le persone vicine ad Ennio lo convinsero, o lo costrinsero, a cavalcare l’onda. Venne ingaggiata un’agenzia di comunicazione, furono staccati diversi assegni e il risultato fu Molotov, Un Esplosione di Gusto, stesso vino ma etichetta diversa. Le vendite decollarono ma durò poco. Il politico venne prosciolto: era vittima di una macchinazione a suo danno ad opera dei separatisti, o dei massoni, o dei brigatisti, e la Casale Ceri venne accusata di cinismo, di aver sfruttato la sofferenza di un innocente. Boicottata dal mercato, perseguitata dai creditori e lentamente condotta al fallimento. Che se ne parli male purché se ne parli. E dire che Ennio voleva solo fare del vino.
- “Una bottiglia di quello buono” di Francesco Da Riva (3° classificato)
Cosa fai, ti sei messo a bere il vino della concorrenza?! L’unica cosa che, ripensandoci, mi è dispiaciuta era di non aver visto l’espressione della sua faccia, mentre mi rivolgeva quella domanda, occupato come’ero ai fornelli. Per il resto, avevo premeditato tutto. I fratelli Canigazza, Gino non poteva sopportarli. Erano vignaioli come lui, venivano dalla stessa strada, dalla stessa terra. Coltivavano vigneti attigui, eppure, non era mai riuscito a carpire il loro segreto – se di segreto si trattava, a spiegarsi perché il loro vino era considerato migliore del suo. Di certo Gino non si risparmiava nel suo lavoro e aveva una grande passione per le sue viti. Le potava con cura, ne seguiva la crescita, vigilava con attenzione su tutte le fasi della produzione, dalla vendemmia, alla spremitura dell’uva, fino all’imbottigliamento. A volte era lui stesso a mettere i tappi alle bottiglie, lo rilassava, diceva. I suoi vigneti erano, se possibile, ancor più belli e rigogliosi di quelli dei confinanti, ancor più curati, i grappoli dell’ultima raccolta ancor più ricchi e sani, come amava ripetere nelle annate buone, eppure, mancava sempre qualcosa. A sentire gli altri, almeno. Il vino di Gino, in realtà, era davvero molto buono, nessuno avrebbe detto il contrario, ma chissà perché quello dei Canigazza era universalmente riconosciuto come il migliore della zona. Stessi appezzamenti, stessa esposizione ai raggi del sole, alle intemperie. Non c’era volta che Gino, dopo aver guardato la distesa dei vigneti, non si chiedesse, perché? Perché dalla cantina di quei due tizi che avevano affidato ad altri la loro vigna, senza preoccuparsene troppo, continuava a uscire un vino dall’anima eletta, mentre lui, che dedicava le cure più amorevoli alle sue viti, non riusciva a ricreare quel profumo intenso che invadeva le sue narici ogni volta che passeggiava tra i filari, quel gusto morbido e rotondo che percepiva all’assaggio dei primi acini d’uva matura. Sì, stasera beviamo quello, avevo detto indicando la bottiglia già aperta sul tavolo - il rosso si sa, ha bisogno di prendere un po’ d’aria prima di arrivare al bicchiere - sai, avevo continuato, per le grandi occasioni ci vuole il meglio! Non fosse che sto a cinquanta chilometri e sono già le otto, andrei a casa a prendere una bottiglia delle mie, aveva risposto dissimulando un certo distacco, mentre teneva la bottiglia in mano senza sapere bene che fare. Al diavolo, aveva sbottato poi, io stasera bevo acqua. Anche quando eravamo piccoli, il mio fratellone è sempre stato uno orgoglioso, ma ormai, sono passati un po’ d’anni e per fortuna so come prenderlo. Dai Gino, non fare il permaloso, gli avevo detto, bisogna conoscerla la concorrenza per batterla! E così dicendo avevo versato due mezzi bicchieri. La serata poi era trascorsa piacevolmente, merito della mia cucina e di Gino, che avrà anche tanti difetti, ma di certo non è uno che tiene il muso. Gli passa presto e all’occorrenza sa anche chiudere un occhio, se non entrambi. Sapevo che avrei potuto osare. Avevamo parlato come non ci accadeva da tempo, delle nostre famiglie, con le rispettive mogli ora al mare con i bambini, del lavoro, dei nostri piccoli grandi progetti, di tutti quegli elementi di contorno, che alle fine ti riempiono la vita. Ma sai cosa mi piacerebbe fare davvero? mi aveva detto assorto. Un vino come questo, aveva confessato, indicando con la testa la bottiglia vuota dei Canigazza. Riuscire a fare un vino come questo. Se lo ascolti bene, ti racconta qualcosa di chi l’ha fatto, delle mani che hanno potato e poi raccolto. Non importa l’etichetta e il nome, un vino come questo, che ti scalda il cuore. Beh, se è per quello, non è difficile, è solo una questione di imbottigliamento, credo. Gli avevo detto con un sorriso furbo. Basta svuotare una bottiglia dei Canigazza e metterci dentro un po’ del tuo. Era tutta la sera che aspettavo quel momento. Lui non aveva capito subito. Ma come, vuoi dire che…abbiamo bevuto il mio?! Già, buon compleanno fratello!

Ecco i racconti dei tre autori Doc del mondo della letteratura italiana: Benedetta Cibrario, Vanni Santoni, Ippolita Avalli
- La quercia del re di Benedetta Cibrario

Due anni, per arrivare a Colombières. E dopo un inverno a spalare la neve dai tetti, sarebbe ripartito, non gli avessero offerto la guardiania delle querce. Al sindaco, un tipo spiccio e rosso di pelo, Pierre andava a genio: un piemontese schivo e caparbio, lungo di gambe, senza tante fantasie. Sulle prime, tra sé e sé ne aveva riso: non è un gran lavoro badare che un bosco non bruci; e se non aveva saputo fare il palo a una banda di rapinatori, c’era da augurarsi che almeno la balia a un gruppo di tronchi sapesse farla, senza darsela a gambe. Così aveva accettato; ed era salito su, a guardarsi il bosco che doveva custodire. Si saliva per un sentiero, largo abbastanza per far passare un carro, ed eccole lì, dietro la curva: cinque querce magnifiche, alte, con i tronchi compatti, quasi morbidi al tatto, dello stesso colore delle pietre di Soprana, o del pelo dei caprioli di montagna. Le querce di Luigi XIV, che si era intestardito a voler navi di scafo robusto, senza nodi nel legno, per domare anche gli oceani: al re non si negava alcun desiderio, e un manipolo di botanici aveva speso anni a selezionare la Quercia Perfetta. Longeva, sana, diritta, resistente alle gelate e alla sete, lenta magari, ma possente, come il monarca che l’aveva voluta. Ed era lì, a Colombières, che Luigi aveva fatto piantare le sue querce e lì accanto che era nato quel borgo di contadini promossi alla cura della piantagione reale. Trecento anni, decade più, decade meno, ed erano rimaste in cinque: ognuna con un intrico di rami diverso, la Bassa, la Grassa, la Lunga, la Magra, la Bella, le aveva chiamate così Pierre, per riconoscerle; e si vergognava, e non l’aveva detto a nessuno - nemmeno a Philippe, con cui divideva una bottiglia di vino buono, la sera - che gli era venuto quell’estro, di nominarle, come si fa con le vacche. Poi, da vecchio, certe timidezze se n’erano andate, insieme ai denti, e che Pierre amasse il vino e chiamasse le sue querce per nome ormai lo sapevano tutti. La prima ad andarsene era stata la Magra, per una gelata notturna che aveva spaccato anche il cannello della fontana; poi era toccato alla Bella, un fulmine se l’era portata via, con uno schiocco secco e una spira di fumo. Quanto alla Bassa e alla Grassa, un’estate torrida le aveva viste deperire, e poi perdere le foglie prima del tempo, e Pierre non ci aveva dormito la notte. Li temeva, quei segni: le piante, come gli uomini, quando arriva il loro tempo se ne vanno. Non si era sbagliato: due primavere e si erano arrese. Tagliandole, l’amara scoperta: quei tronchi senza nodi erano involucri vuoti, ricolmi di segatura, completamente scavati dall’interno da un insetto tenace, venuto da un paese lontano a divorarsi le sue querce. Da allora passava ore a studiare la Lunga, a controllarla. Giù a Colombières lo prendevano in giro, perché lui si incurvava e la Lunga restava diritta, bella e svettante, come l’albero della goletta che non era mai diventata. A fine agosto aveva visto la prima foglia. Un centinaio, in una settimana. Anche la Lunga, l’ultima, la più maestosa ... Quel tronco perfetto, voluto dal più visionario dei re di Francia, sarebbe diventato un cumulo di segatura misto agli umori di un insetto invisibile. Si era sdraiato, Pierre, sotto la chioma, a guardare quella danza minuta di foglie nell’aria, si era sdraiato a pensare che presto non ci sarebbe stata più neanche una quercia a cui badare, solo segatura, e se anche quelli si riprendevano la giacca di panno e il distintivo, pazienza, ma di tutto, tra poco, cosa sarebbe rimasto? Quattro settimane. In quattro settimane aveva organizzato ogni dettaglio. Si era fatto aiutare da Philippe, che di vino sapeva tutto. Aveva spedito dieci lettere. E infine avevano risposto, tutti e dieci, dalla Francia, dall’Italia, dalla California e dalla Spagna, dal Portogallo e dal Cile. Si erano dati appuntamento poco prima dell’alba. La motosega era pesante e la cinghia gli mordeva la spalla. Ci vollero tre ore per buttarla giù, senza sciuparla, con delicatezza. Il tronco era perfetto, ancora sano, color nocciola; senza un nodo. Le guardie forestali se ne sarebbero accorte solo dopo qualche settimana. Probabilmente gli avrebbero tolto la giacca di panno verde e il distintivo; oppure lo avrebbero rimandato a Soprana, dodici baite, a mezza costa tra il fiume e la cima, da dove era partito come Pietro Morra, e chissà nel frattempo com’era diventata; o forse lo avrebbero lasciato lì, in domicilio coatto, a guardare le vigne magari, che hanno sempre bisogno di cura. Ma intanto la Lunga viaggiava giù per i tornanti, diretta a una segheria, e poi di lì dal miglior fabbricante di barriques del mondo, e poi, ancora errabonda, fino a nascondersi nel buio di dieci grandi cantine, ad abbracciare vini preziosi, a profumarli di vaniglia e di bosco, lei, la Lunga, voluta da un re per solcare gli oceani.
- Vino di Vanni Santoni
Ci sono arrivato tardi, al vino. C’era un omino, al mio paese, Sereni, si chiamava, che girava sempre col fiasco in mano. Quando girava, perché spesso lo trovavi steso per terra. Gli piace troppo il vino, al Sereni, mi spiegò una volta mio nonno. Che grullo, pensai, vedendolo disteso.
A quei tempi abitavamo tutti insieme, io, mio fratello, i miei nonni, i miei genitori. C’era sempre un fiasco di vino sul tavolo, a pranzo e a cena. Lo comprava mio nonno ogni anno, da un contadino che conosceva lui, e personalmente lo imbottigliava, chiudendo ogni fiasco con l’olio e col sughero. Mio padre aveva diritto ad amministrare il fiasco durante i pasti, cosa che in qualche modo sanciva il suo status. Lo versava al nonno, poi alla mamma, poi per sé, poi chiedeva alla nonna se ne volesse; lei diceva quasi sempre di no, oppure se ne faceva mettere un poco nell’acqua.
Io e mio fratello avevamo diritto a “una goccia di numero” a fine pasto, e solo se la chiedevamo. Io mi guadagnai questo diritto a otto anni. Mio fratello, grazie forse al fatto che gli avevo spianato la strada con mille richieste, a sei. Quando lui ebbe la prima goccia, quindi, avevo dieci anni: da quel momento la cosa perse progressivamente interesse ai miei occhi; già un anno dopo, non chiedevo più la mia goccia di vino. Mio fratello, sempre. Qualche volta mi chiedeva pure se non lo volessi. No, mi allappa, rispondevo io.
A quattordici anni, ebbi un sospetto. Lessi di quel vino nero, “soave, dolce e puro”, che Màrone, sacerdote di Apollo, donò a Ulisse, e che questi offrì poi a Polifemo, come accompagnamento al suo pasto di carne umana. Qualcosa di tanto sublime da valere la vita di un gerofante e tanto forte da stendere un ciclope non poteva non nascondere qualche segreto. Per un po’ la cosa mi diede da pensare, ma Odisseo veleggiava già verso suggestioni più potenti per un adolescente - Circe e le Sirene incombevano - e presto Polifemo tornò ad essere solo uno dei tanti grulli che si erano fatti fregare da Ulisse.
A diciassette, diciotto anni uscivamo molto. andavamo nei pub. Stavamo in fissa per le birre. Tutti intenditori, eravamo. Rosse, bionde, lager, pilsner, ci bullavamo di conoscerle e saperle riconoscere. Il vino ci pareva una cosa da vecchi, anche se un nastro di Guccini che mi aveva passato un compagno mi aveva messo, dopo Omero, un’altra pulce nell’orecchio.
Qualche anno più tardi, finimmo ad una festa in un casolare. C’erano ragazzi e, soprattutto, ragazze. L’età media era di poco più alta della nostra, ma in termini di atteggiamento c’era un inspiegabile abisso. Si capiva, si capiva bene da come le ragazze ci guadavano - o meglio, non ci guardavano - come al cospetto di quella gente di soli due o tre anni più vecchia non fossimo che una manica di bambocci. Dall’angolo in cui ci eravamo piazzati scrutavo le comitive, lasciandomi distrarre dai ricci e dalle cosce e dalle bocche belle che passavano qua e là. Che hanno di diverso, questi? Pensai che forse era il vino. Non c’era una sola birra su quel tavolo, ma bottiglie e fiaschi portati dagli invitati. Mi versai un bicchiere di rosso. Davvero, lo feci solo per emulazione: mi aspettavo giusto l’allappo, e magari un’immagine di me meno sbarbata, e invece. E invece, non dico che si dipanò un dialogo tra il mio palato, il mio cuore e la mia terra, né che ebbi all’istante una diversa comprensione di mio nonno, mio padre o mio fratello, o tantomeno che fui pervaso di calore e gioia e vita. Ma certo, da quella sera, il Sereni e Polifemo mi parvero un po’ meno grulli di quanto li avevo stimati.
- La felicità non può far male di Ippolita Avalli
Dalla finestra del casale Giorgio seguì la Renault fino a che la luce dei fanalini posteriori non fu inghiottita dalla curva. Non si sarebbe mai immaginato un epilogo come questo, tra lui ed Eva. Eppure, qualche minuto prima, sulla soglia con la valigia in mano, lei aveva detto Allora io vado. E lui era rimasto fermo e ammutolito, come se l’avessero gettato legato e imbavagliato dentro un pozzo. Settimane a discutere, implorare, ragionare, minacciare, piangere: niente. Eva aveva perso la testa per un ventisettenne, tredici anni meno di lei e diciassette meno di lui! - e aveva deciso di lasciarlo.
Quando la Renault aveva cominciato a muoversi, facendo scricchiolare il ghiaino sotto le ruote, Giorgio era corso alla finestra con la bocca spalancata: voleva gridare, chiamarla, ma anche la voce lo aveva abbandonato.
Il cielo imbruniva e tutta la vigna era percorsa dai primi rumori degli animali notturni. Tutto era come sempre, le quinte dei filari a digradare giù per la collina, i grappoli gonfi sui tralci, in attesa della vendemmia ormai prossima. Ma tutto sembrava già diverso, inesorabilmente cambiato. Mario, si chiamava quello. Un nome banale, come il lavoro che faceva: tecnico informatico. Ripensò ai dieci anni trascorsi, dopo che lui ed Eva avevano comprato il podere rilevando l’azienda, un colpo di fulmine che aveva cambiato radicalmente la loro vita, trasformandoli da bibliotecaria lei e architetto lui in viticoltori. Anche la loro vita di coppia era stata rilanciata di riflesso, tra loro erano rifioriti passione ed eros. Come due ragazzini ai primi appuntamenti, di notte andavano a passeggiare nella vigna, perdendosi e rincorrendosi tra i filari. Quando finalmente si acchiappavano finivano a fare l’amore furiosamente e spudoratamente a cielo scoperto, con gli sterpi che pungevano la carne, aggiungendo piacere al piacere. E se qualcuno ci sta guardando? i filari sono come quinte, qualcuno potrebbe essersi nascosto a spiarci, ridacchiava Eva. Lascia che ci guardi, non essere egoista, la felicità non può far male a nessuno, rispondeva lui. E ricominciavano. Dopo, uno dei due andava a prendere una bottiglia e un sacco a pelo. Il sonno li vinceva mentre cercavano di riconoscere le costellazioni. Li svegliava il sole alto, il cigolare dei primi trattori in movimento, i richiami dei contadini, il ronzare dei calabroni.
Il telefonino prese a vibrargli in tasca.
“…Eva?!...”
“Giorgio, sono Nico…”
“Ah …”
“Giorgio, come stai… se ne è andata?
“Sì.”
“Senti che scoperta ha fatto Betta! Quel coglione è un salutista, non beve, non fuma, pare che stia in una setta tipo Scientology. Lei l’ha saputo da un’amica che conosce il tizio, dice che è un integralista del cazzo, fissato su certe cose.”
“Sì”
“Sì, solo sì?! Dovresti fare salti di gioia. Con quello Eva non dura, dài, sarà anche giovane ma pensa che rottura, a Eva piace vivere, adora il buon vino, che ci fa con uno che dice solo no … vedrai che torna … su con la vita, ti chiamo presto, niente fesserie!”
Giorgio chiuse e intascò il cellulare. Astemio. Gli veniva da ridere. Astemio! Andò a prendere in cantina un rosso del ‘98, la prima annata della loro produzione. Ottima annata. Stappò, annusò e versò nella coppa da una certa altezza, mentre il gorgogliare del vino gli faceva aumentare la salivazione.
Sollevò la coppa al cielo tenendola delicatamente tra i palmi.
“Aiutami” pregò, come se ad ascoltarlo ci fosse Bacco in persona, e ci appoggiò le labbra.
Stava ancora facendosi bobbonare il sorso tra denti lingua e palato mentre il profumo gli invadeva le narici, che il cellulare segnalò l’arrivo di un sms.
“Ho ripensato a tutto quello che ci siamo detti. Vuoi ancora che venga con te in Thailandia?“
Numero sconosciuto. Giorgio scrisse: ha sbagliato num… ma si fermò. Guardò fuori. La vigna respirava quieta sul dorso della collina. Il mondo poteva tornare ancora a essergli amico e lui questo desiderava con tutto se stesso.
Cancellò e scrisse in maiuscolo: sì!

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