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“PIÙ IMMAGINAZIONE PER LA PROMOZIONE DEL VINO ITALIANO”: COSI’ PATRICK FAIRWEATHER, UN SIGNORE CHE NELLA VITA HA PERCORSO TUTTE LE TAPPE DELLA CARRIERA DIPLOMATICA BRITANNICA E CHE OGGI SI DILETTA COLTIVANDO INTERESSI: VINO, GIARDINAGGIO, VIAGGI …

“Per la promozione dei vini italiani bisognerebbe ricorrere di più all’immaginazione, alla fantasia”: è la chiusura di una “meditazione”, che ci sentiamo di condividere, fatta da Patrick Fairweather, un signore (anno 1936) che nella vita ha percorso tutte le tappe della carriera diplomatica britannica e che oggi si diletta tra Wiltshire, nel Regno Unito, e Pelion, in Grecia, coltivando i suoi interessi: vino, giardinaggio, viaggi nei paesi conosciuti nelle sue attività diplomatiche. E come dagli torto … Proprio in questo momento la creazione di azioni comuni e eventi aziendali devono lavorare più di immaginazione e di fantasia; essere incisivi, originali, particolari e non ricalcare le cose “solite note”. Infine, consiglia “di ricordare che nel vino, come nelle altre scelte della vita, bisogna mantenere l’apertura mentale (anche se appartengo al circolo Abc, ovvero , Anything But Chardonnay): essere pronti ad assaggiare ogni vino sconosciuto che capita a tiro e, se buono, scoprire dove si può comprare”.
La “Meditazione” è stata realizzata per un piccolo ma interessante opuscolo, a cura del Consorzio per la Tutela del Vino doc Rosso Canosa, presieduto da Nicola Rossi.

Il Circolo ABC di Patrick Fairweather
Nel 2003 la Gran Bretagna è stata il secondo importatore di vino al mondo con 300 milioni di galloni (circa 1350 milioni di litri), dopo i 314 milioni di galloni della Germania. Gli Stati Uniti, che ne hanno importato circa la metà, si sono piazzati al terzo posto.* Tuttavia, non essendo il Regno Unito un importante produttore di vino, a differenza della Germania o degli USA, il mercato britannico è poco influenzato da fattori nazionali ed è probabilmente più aperto di qualunque altro a produttori nuovi e vini sconosciuti.
Tuttavia, vi sono altri fattori che influenzano i modelli di consumo in Gran Bretagna. Ad esempio, i legami di vecchia data con alcuni produttori esteri, e soprattutto con la regione di Bordeaux. Un legame che risale a molti secoli fa, quando l’Aquitania e l’Inghilterra erano uniti sotto i re Plantageneti. Geoffrey Chaucer, il primo a scrivere poesie in un idioma identificabile come inglese, era figlio e nipote di mercanti di vino che commerciavano con Bordeaux nel XIV secolo, all’epoca della Guerra dei Cent’Anni. Chaucer, se evidentemente se ne intendeva di commercio di vino, accenna nel “Pardoner’s Tale” (uno dei Racconti di Canterbury, ispirati al Decamerone di Boccaccio) ai vini della Spagna che “si infiltrano furtivamente” in altri vini prodotti nelle regioni confinanti (ed è chiaro che intende Bordeaux) per renderli più forti. Si tratta forse del primo riferimento ad una pratica alla base di molte esportazioni di vino dall’Algeria, e anche dall’Italia meridionale, prima che il mutare delle circostanza politiche ed economiche (l’estirpazione delle vigne algerine dopo l’indipendenza, disposizioni UE ecc.) portasse nel tardo XX secolo a cambiamenti piuttosto fondamentali nella produzione e commercializzazione vinicola.
Non è chiaro tuttavia quale fosse il vino importato in Gran Bretagna da Bordeaux. Il termine “claret”, che in inglese indica i vini provenienti da Bordeaux, veniva usato già ai tempi di Chaucer ma a quell’epoca e ancora per molti secoli i vini inviati in Gran Bretagna venivano “fortificati” (cioè si aggiungeva alcol) perché altrimenti non riuscivano a “viaggiare” - un’espressione ancora usata dai commercianti di vino. Dato che il Duca di Clarence**, fratello di Edoardo IV re d’Inghilterra, fu annegato nel 1478 in una botte di Malvasia (presumibilmente non da Monemvasia nel Peoloponneso, dato che all’epoca la Grecia era sotto il dominio turco) e che da tempo l’Inghilterra importava Porto dal Portogallo, si può dedurre che anche da Bordeaux venisse importato vino fortificato.
Il più antico commercio di vino tra la Gran Bretagna e l’Italia era l’importazione di Marsala e iniziò quando l’occupazione della Spagna e del Portogallo da parte della Francia durante le guerre napoleoniche sollevò la necessità di un alternativa al porto e allo sherry. Le famiglie inglesi legate a Marsala hanno lasciato il segno in Sicilia – gli scavi di Mozia da parte di Whittaker (proprietario della società omonima), ad esempio, hanno portato alla luce una delle più importanti statue del periodo classico dell’arte greca.
Negli scambi commerciali di vino i legami con la Francia sono ancora saldi. Un tempo gli inglesi si vantavano di comprare i migliori vini di Bordeaux e di lasciare i meno buoni ai francesi, e sarà anche stato vero in passato, ma non vale per un commercio vinicolo sempre più globale. Tuttavia il Regno Unito continua ad importare vini di Bordeaux in grande quantità e per molti anni è stato uno dei maggiori mercati per le grandi marche di champagne.
In questi ultimi anni la straordinaria impennata in Gran Bretagna del volume delle vendite nei supermercati (Tesco, Sainsbury’s, ecc.) ha inciso moltissimo sul commercio di vino. I supermercati comprano soprattutto vini disponibili in grandi quantità e quindi i piccoli produttori sono stati estromessi da questa parte del mercato (anche se adesso alcuni supermercati hanno aperto reparti di vini di qualità che offrono uno sbocco per i produttori su scala minore). La tendenza è stata sfruttata con successo dai produttori del Nuovo Mondo, soprattutto l’Australia ma anche Cile, Nuova Zelanda, Sud Africa, Usa e Argentina, che offrono marchi molto conosciuti prodotti in grandi quantità. Il loro successo è dovuto anche ad un altro fattore, e cioè un etichettatura chiara, con più informazioni. Il consumatore ha imparato che probabilmente apprezzerà un shiraz o un merlot, un sauvignon o un viognier, e cerca queste varietà sull’etichetta. Non sempre trova queste informazioni sull’etichetta di una bottiglia di vino francese, anche se i produttori nelle regioni meno note della Francia si stanno adeguando.
In Gran Bretagna la rimanente parte del commercio di vino è divisa tra specialisti come Oddbins, Majestic e il Wine Society (una organizzazione di vendita per corrispondenza solo per soci) e i commercianti di vino come quelli di una volta, con pochi punti vendita. Da loro avrete più consigli e un servizio migliore (e forse anche vini più interessanti, ma questo è un punto molto dibattuto), pagando un po’ di più che al supermercato.
Quando vivevo in Italia negli anni Sessanta facevo parte di una società di degustazione vini che funzionava come un club di libri. Ogni mese c’era un’offerta e se seguivi regolarmente potevi rapidamente acquisire una certa conoscenza dei vini italiani, allora poco conosciuti in Gran Bretagna, ad eccezione del Chianti, che all’epoca era sempre venduto in fiaschi. Fu una rivelazione. Da allora sono passati quarant’anni e la qualità e varietà dei vini italiani sono cresciuti enormemente. Quando mi trovo a Roma, per cercare di migliorare la mia cultura di vini italiani vado ad una dei sempre più numerose enoteche come Trimani, dove puoi ordinare un’ottima pasta per accompagnare gli eccellenti vini della lista, o da Bric, dove la lista dei vini è così lunga e pesante che devi alzarti da tavola per andare a consultarla… è un po’ come una Bibbia di famiglia e degna di altrettanto rispetto.
L’importante, nel vino come nelle altre scelte della vita, è mantenere l’apertura mentale: bisogna essere pronti ad assaggiare ogni vino sconosciuto che capita a tiro e, se è buono, scoprire dove si può comprare. Al mio ritorno a Roma negli anni Novanta, il presidente Scalfaro invitò gli ambasciatori dell’Unione Europea a pranzo al Quirinale e dopo acconsentì gentilmente a rispondere ad alcune domande. Quando il capo della delegazione UE disse che il presidente avrebbe risposto ancora ad un’ultima domanda, scrissi un biglietto al mio vicino di tavolo dicendo che avrei voluto chiedere, se non fosse sembrato troppo frivolo, dove comprare il meraviglioso super-Tuscan che ci era stato offerto dal Presidente. Più tardi, mentre prendevamo il caffè e parlavo con il Presidente, il cameriere venne a consegnarmi solennemente il biglietto che avevo lasciato sul tavolo. Il Presidente mi domandò cosa fosse e sembrò contento quando glielo dissi, anche se non era un vino di Novara.
L’Italia offre all’appassionato non solo vini splendidi, molto noti e, ahimè, a volte piuttosto cari, in genere dell’Italia centrale e settentrionale come Barolo o Brunello di Montalcino, ma anche varietà locali poco conosciute che rappresentano una nuova, incantevole esperienza. Scoprire questi vini è uno dei piaceri del viaggiare in Italia, e questo vale soprattutto per il Mezzogiorno e le isole dove si producono ottimi vini raramente disponibili nel Regno Unito. Questi vini meno noti vanno tenuti in gran conto. L’aspetto più deprimente del mondo dei vini oggi è la corsa all’imitazione di varietà di successo come chardonnay e syrah (shiraz). Non sono certamente l’unico ad irritarmi quando in un remoto punto del mondo vinicolo scopro che quasi tutti i bianchi disponibili sono dei chardonnay e che molte varietà locali vengono trascurate. Non ho niente contro lo chardonnay che ci dà il supremo bianco di Borgogna, ma sarebbe un bene se l’Italia riuscisse a resistere alla moda che sta annoiando innumerevoli appassionati di vino e che ha portato nel Regno Unito alla fondazione del mitico club ABC - Anything But Chardonnay (Tutto fuorché Chardonnay).
Il Regno Unito compra il 13,2% dei vini italiani esportati, che detengono una quota del mercato britannico del 11,4%. Sono numeri che potrebbe essere migliorati? Non mi occupo di commercio di vini ma credo di sì, se si considera l’origine dei vini italiani esportati. Al Mezzogiorno viene attribuito il 39% della produzione di vino in Italia ma solo il 6% delle esportazioni. Un mistero per tutti coloro che hanno avuto la fortuna di degustare i meravigliosi e unici vini meridionali, che fa pensare che nel mercato britannico vi sia molto spazio per voi produttori di vino dell’Italia meridionale. *** Avete degli alleati: Jancis Robinson, che redige la rubrica di vino del Financial Times ed è una degli esperti più autorevoli, scrive dei vini italiani con vero entusiasmo.
Wiltshire, Dicembre 2008
* : Dati forniti da Fao, Ice e Camera di Commercio Italiana di Londra
** : Oggi il Duca di Clarence sarebbe sconosciuto in Gran Bretagna se non fosse che molti pub prendono il nome da lui. Il motivo credo sia che non ci sono personaggi storici che siano annegati in un barile di birra.
***: Quarant’anni fa il vino australiano più che piacevole veniva considerato curativo. Per correggere questa immagine infelice l’ente per la promozione del vino australiano iniziò ad offrire vini australiani a prezzo Fob nel porto australiano, cioè pagando il trasporto e l’assicurazione. Non so quanto sia durata la promozione ma so che ho bevuto del buon vino australiano per la prima volta nel Laos nel 1976. Non è un esempio che l’Italia potrebbe seguire oggi, ma indica che per promuovere i vini italiani bisognerebbe ricorrere all’immaginazione.

Il ritratto - Patrick Fairweather
Surbiton, 1936. Ha studiato press oil Trinity College, Cambridge, dove si è laureato con lode in Storia. E’ Senior Advisor per il gruppo finanziario internazionale Citigroup, dopo esserlo stato per la banca d’investimenti Schroders. Fra il 1965 ed il 1996 ha percorso tutte le tappe della carriera diplomatica britannica. Incaricato presso l’Ambasciata del Regno Unito a Roma fra il 1966 ed il 1969, vi è ritornato nel 1992 in qualità di ambasciatore, dopo essere stato nelle ambasciate britanniche a Parigi (1970-73), Vientiane (1975-76), presso l’Unione europea (1976-78), ad Atene (1978-83) e Luanda (1985-87). E’ stato ambasciatore non residente a San Tomè (1985-87) ed in Albania (1992-96) ed a diretto il Dipartimento della Comunità Europea presso il Foreign Office (1983-85). Sottosegretario per l’Africa e, poi, per il Medio Oriente (1987-92) ha diretto le attività del Foreign Office durante la prima Guerra del Golfo. Fra il 1997 ed il 2004 ha diretto la Fondazione Butrinto.Vive con sua moglie fra il Wiltshire, nel Regno Unito, e il Pelion, in Grecia, coltivando i suoi interessi: il vino, il giardinaggio, i viaggi nei paesi conosciuti durante la sua attività diplomatica.

La viticoltura a Canosa
A Canosa di Puglia - città fondata, secondo la leggenda, da Diomede - la viticultura è di casa da sempre. Vasi o coppe vinarie, adornate con scene di libagioni e banchetti, sono presenti nelle antiche tombe - di umile gente così come di aristocratici - della Canosa del IV secolo a.C. e solo un secolo più tardi la produzione di vino canosino doveva essere tanto abbondante da consentire al condottiero cartaginese Annibale - secondo lo storico Polibio - di curare i suoi cavalli, colpiti da una malattia cutanea dopo la storica battaglia di Canne (in prossimità di Canosa), con impacchi di vino vecchio.
L’importanza della coltura della vite a Canosa di Puglia emerge con chiarezza anche dalle monete ivi ritrovate e datate fra il V secolo a.C. ed il II secolo d.C.: non poche presentano su una delle due facce il grappolo di vite, a testimonianza della rilevanza del commercio del vino per la ricchezza del luogo. Lo storico Varrone riferisce, inoltre, di una particolare tecnica di coltivazione della vite adottata solo a Canosa di Puglia: la vigna veniva maritata, e con successo, all’albero di fico. Non manca chi, infine, abbia connesso lo stesso nome della città di Canosa alla cultura della vite: secondo alcuni, infatti, Canosa deriverebbe dalla parola ebraica chanuth, diventata poi chanus e cioè “taverna”. E Canosa fu, in effetti in epoca romana, un grande ed importante nodo stradale. Un luogo di sosta per mercanti, soldati e viaggiatori che sempre trovarono fra le sue accoglienti e ben munite mura una coppa di buon vino. Come accade anche oggi.
Non più tardi di un secolo fa (più o meno quando furono scattate le fotografie delle pagine precedenti) erano decine gli stabilimenti vinicoli che sorgevano nell’abitato o nella periferia di Canosa. Ognuno di essi era dotato di una sua cantina scavata nella pietra calcarea in grado di garantire basse e stabili temperature. In non pochi casi le “grotte” - così le chiamavano e le chiamano tutt’ora i canosini - erano costituite da più piani sovrapposti e scendevano fino a 20 o 30 metri in profondità. Nei bracci delle “grotte” erano collocate, ordinatamente, a volte anche decine di botti di medie dimensioni (solitamente, da 25 a 40 hl.) e, più raramente, barili. Un congruo numero di lucernai forniva aria e qualche barlume di luce. La nascita delle grandi cantine sociali - Canosa ne conta tre - condusse al progressivo disuso dei vecchi stabilimenti vinicoli e con esso al graduale abbandono delle “grotte” alcune delle quali furono trasformate in rifugi antiaerei nel corso del secondo conflitto mondiale. In molti casi l’irresponsabile chiusura di alcuni lucernai - impedendo la circolazione dell’aria - trasformò l’abbandono in irreparabile degrado. Ciò non ostante, alcune di queste “grotte” sono visitabili ancora oggi. In qualche caso vi si trovano ancora botti e barili che sembrano attendere la prossima vendemmia. In altri casi sono visibili, scolpiti nel tufo, motivi popolari di ispirazione religiosa. Il recupero ed il riutilizzo delle “grotte” costituisce un obiettivo certamente difficile ma non impossibile.
Negli ultimi anni, il panorama produttivo è ancora una volta significativamente mutato. Alle storiche cantine sociali si sono aggiunti alcuni vinificatori e imbottigliatori privati. Le tecnologie di vinificazione si sono aggiornate. Le difficoltà del mercato vinicolo, da un lato, e l’esposizione ai mercati nazionali ed internazionali, dall’altro, hanno inciso tanto profondamente quanto positivamente sulla mentalità dei produttori. Lo spirito di emulazione e la necessità di far fronte a competitori sempre più agguerriti hanno introdotto nel lessico dei produttori parole dimenticate, come “produzione di qualità”, o del tutto nuove, come “promozione, commercializzazione e internazionalizzazione”.
Dal febbraio 2001, il Consorzio per la Tutela del Vino Doc Rosso Canosa - costituitosi già nel 1998 - svolge ufficialmente le funzioni di tutela, valorizzazione e cura generale della denominazione di origine del vino “Rosso Canosa”. Il raddoppio, o quasi, del numero degli aderenti, delle superfici vitate e della produzione vitivinicola nel corso dell’ultimo quadriennio testimoniano l’impegno del Consorzio nel perseguire una strategia di valorizzazione della denominazione ed una crescente qualificazione della produzione basata sull’utilizzo dei vitigni autoctoni - in primo luogo il Nero di Troia - che da sempre caratterizzano il Rosso Canosa.
Come si è visto, nel vino Canosa di Puglia ritrova le proprie origini. Anche per questo motivo nelle attività del Consorzio, la difesa della tradizione agricola ed enologica della zona di competenza del vino doc “Rosso Canosa” si accompagna - con il supporto del Consorzio per la promozione del doc Rosso Canosa - alla promozione degli elementi storico-culturali del territorio di competenza della denominazione ed alla sensibilizzazione di tutti i comparti produttivi, diversi da quello vitivinicolo, potenzialmente coinvolti.
Consorzio del Rosso di Canosa
Canosa di Puglia (Bari) - www.canosadoc.it

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