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“La bellezza italiana si tutela inventando il brand, il mito. Il vino è 50% vino, 50% mito sempre. Ma il mito va fabbricato”. WineNews a tu per tu con Philippe Daverio dalla presa di coscienza del patrimonio italiano ai capitali stranieri, ad Expo

Italia
PhilippeDaverio a tu per tu con il direttore di WineNews, Alessandro Regoli

La bellezza dell’Italia si tutela “inventando il brand, parola americana della comunicazione, un po’ assurda, ma nel nostro caso importante, e che vuol dire inventare il mito. Il vino è 50% vino, 50% mito sempre. Ma il mito va fabbricato, perché è solo parzialmente delineato”. Ecco il significato del termine che il celebre critico d’arte Philippe Daverio dà a WineNews, declinandolo al mondo del vino, una tra le “bellezze” italiane. E spiegando anche come si fa, a creare un mito: “i miti italici sono quello piemontese, quello friulano, quello centro-italiano e quello toscano - i toscani sono stati i primi perché sono “mitomani” - mentre invece un umbro “ridondante” non si è ancora visto. Il mito lo hanno inventato molto bene i siciliani - sottolinea Daverio - se si pensa ai nomi di luoghi mai esistiti tratti dalla letteratura, o la storia stessa delle famiglie con i loro antichi cognomi che si sono messe a fare vino. E prendiamo Montefalco, la terra del Sagrantino, con la sua densità storica, con la vicinanza al mondo di Assisi, con Benozzo Gozzoli, tutti elementi che possono far sognare e che meritano di esser trasformati in un mito”.
“Noi abbiamo avuto una disgrazia, che è stata la nostra fortuna, ovvero la storia dell’etanolo - afferma Philippe Daverio a WineNews - fin lì il vino era un alimento, ed una famiglia media italiana ne consumava 400 litri di vino all’anno. Attualmente ne consuma in media 40 di litri, ma il fatturato è aumentato, perché l’Italia ha scoperto il percorso verso la globalità e verso il mito”. Ma “oggi l’Italia è convinta di essere apposto - dice Daverio - ma che lo sia del tutto non è certo. Il brand italiano viene copiato troppo facilmente e la quantità di bufale che girano per il mondo con il nome Italia sono tantissime. Non siamo dei protettivi capaci e dovremmo definire meglio il nostro brand. Le denominazioni e l’origine controllata funzionano, ma sul Doc complessivo dell’alimentazione ci vuole più rigore. Non è una strada facile, ma necessaria. E il made in Italy vero, di territorio, ne ha ancora tanta da fare”.
E ci vuole equilibrio, perché a volte per una scarsa prospettiva e un più facile guadagno, c’è il rischio di un espandersi per esempio della monocultura nei più importanti territori del vino italiano, che modifica il paesaggio e non solo. Ma “tendenzialmente questo rischio non c’è - secondo Philippe Daverio - perché il vino quando può è anarchico. Quello che sta avvenendo è l’acquisto di terreni da parte di grandi capitali internazionali. Rispetto ai costi dei grandi cru francesi, comprare in Italia è ancora conveniente. Farlo non era neanche immaginato dagli italiani: la Maremma per esempio la comprano “degli altri”, portando è vero la loro esperienza, la loro tecnologia, la loro capacità di comunicazione, ma non hanno l’accento. Si può fare un vino senza accento, è la domanda ancora da porsi?”.
Dalla teoria alla pratica, una volta creato, il mito va poi conservato. A sostegno del patrimonio italiano si sta facendo sempre più strada l’intervento pubblico insieme ai privati, spesso del mondo agroalimentare, settore in salute dell’economia italiana. “È fondamentale”, secondo il critico, perché “affidarsi alla geniale creatività del Ministero dei Beni Culturali, è una strada un po’ azzardata, visto la fatica che fanno a tenere in piedi i musei che abbiamo e che devono chiamare esperti da fuori. Se dovessimo chiamare esperti da fuori anche per delineare l’immagine Italia sarebbe la catastrofe. Ci hanno provato ogni tanto a prendere un attore internazionale, ma alla fine non funziona. È fondamentale oggi una presa di coscienza del patrimonio che abbiamo, legata più agli enti locali, che ad un progetto nazionale che non è mai riuscito a funzionare in Italia. Sono l’iniziativa del singolo ed una maturazione trasversale della sensibilità che permetteranno di fare questa operazione di propaganda, fondamentale, perché bisogna parlare a quelli che sono lontani. E noi siamo stati gli inventori della propaganda, ma l’abbiamo dimenticato”.
O forse no, e l’Expo è in un certo senso un paradigma dell’Italia. “Com’è andata non lo so - afferma Daverio - è stata fatta in ritardo, e come se dopo il 2015 ci fosse anche il bis, il ter, e la reiterazione come avviene per le nostre leggi. Ma alla fine l’Italia è un Paese che ha fortuna, e l’Expo ha funzionato, se non altro per dire al mondo, e a tutti quelli che non ci sono andati e che non è importante se non l’hanno vista, ma che ne abbiamo sentito parlare, che l’Expo sull’alimentazione sia in Italia. Potrebbe anche non esserci stata o esser stata virtuale: quello che conta è che a Shanghai o a Beijing, in Australia o in Sudamerica, si sappia che l’Expo sull’alimentazione è una roba italiana. E questo per noi è già un risultato fantastico”.

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