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L’Italia, in Usa, ha soppiantato la Francia, ed i wine lover d’Oltreoceano conoscono le sottozone di Piemonte e Toscana meglio degli italiani. Ma attenti alle mode: spesso sono passeggere. Da Wine2Wine il “vino italiano nel mercato americano di oggi”

Il presupposto, quando si parla del vino in Usa, è sempre lo stesso: per l’Italia è lo sbocco privilegiato, ma dietro ai numeri, ci sono tendenze in continuo mutamento, che disegnano un panorama particolarmente vivace. Ciò che salta subito all’occhio, o meglio al palato, è il cambio di paradigma, nel rapporto tra Italia ed Usa: se fino a qualche anno fa i produttori del Belpaese facevano di tutto per creare vini capaci di soddisfare i palati americani, adesso, al contrario, sono i wine maker di California a guardare all’Italia, ma anche alla Francia, ed all’Europa in generale, come esempio di uno stile produttivo che punta su caratteristiche diverse, a partire da una maggiore freschezza ed un minore tenore alcolico, specie con Chardonnay e Pinot Nero. In questi termini, la forza del vino italiano, come raccontano dal workshop “Il vino italiano nel mercato americano di oggi”, di scena a Wine2Wine (oggi e domani, a Verona, www.wine2wine.net), Levi Dalton, un passato da sommelier nei più importanti ristoranti di New York ed oggi voce del podcast sul vino più ascoltato in Usa, “I’ll Drink to That!”, e gli importatori Andrea Fassone (Enotria Wine Imports), Mark Middlebrook (PortoVino) e Derrick Mize (New York Vintners), sta, principalmente, nell’appeal dell’“autenticità” e della “tradizione” di cui il vino italiano è diventato alfiere: specie in una città come New York, in cui vige un senso di continua transizione, la gente ama sentirsi legata ad una tradizione, ad una storia. E chi, meglio dei produttori italiani, ha storie da raccontare?
Non che i wine lover statunitensi siano culturalmente e storicamente digiuni in termini di conoscenza del variegato panorama enologico italiano, ma oggi il livello di conoscenza è paragonabile, se non superiore, a quello degli eno appassionati del Belpaese, e l’attenzione maggiore, ormai, si è spostata, negli ultimi 15 anni, dai super tuscan, prodotti da vitigni internazionali, ai vini prodotti da varietà autoctone un tempo semi sconosciute, a partire dal Sagiovese toscano e dal Nebbiolo piemontese, in tutte le loro declinazioni, nella piena consapevolezza anche delle diverse espressioni produttive in cru e sottozone spesso sconosciute persino agli italiani. L’Italia, oggi, ha la stessa popolarità della Francia di qualche anno fa, e Piemonte e Toscana, oggi, hanno preso il posto di Bordeaux e Borgogna, mentre il Prosecco insidia lo Champagne. Il merito, in questo, è anche della circolarità della comunicazione e delle informazioni, che dai produttori vanno agli importatori, e dai ristoratori, e quindi dai sommelier, ai consumatori finali. Proprio i sommelier, oggi, hanno guadagnato un peso eccezionale: sono 8.000 gli iscritti in tutti gli Usa, con un’età media bassissima (25-30 anni), capaci di godere di un-enorme credibilità.
Autenticità e tradizione, ovviamente, riguardano la stragrande maggioranza della produzione del Belpaese, storicamente frammentata, ma in questo, a differenza da quanto si possa pensare, non è un limite sul mercato Usa: al contrario, è la prima scrematura, in termini di offerta, sullo scaffale ed al ristorante. Il fatto che esistano tante varietà e tante regioni produttive, infatti, non fa che aiutare la costruzione della carta dei ristoranti: è più semplice suddividere l’offerta di vini italiani, naturalmente stratificata, che quella, ad esempio, di vini dallo stesso vitigno, tipo lo Shiraz, prodotto ovunque ed in tanti stili e prezzi. Insomma, il Verdicchio, per citare un esempio, o anche la Falanghina ed il Fiano, restando nel mondo dei bianchi, nel loro nome includono la zona produttiva e la fascia di prezzo in cui stanno, e così un’ipotetica debolezza diventa un segno di forza.
Merito della curiosità, che muove i wine lover Usa, e che i Consorzi devono accompagnare, per dare maggiori informazioni possibili a chi sul suolo americano lavora. Se c’è un limite, perché non può essere tutto rose e fiori, è nell’influenzabilità del consumatore Usa: il boom del Prosecco insegna che l’amore per un vino può nascere dal nulla, ma non si può mai sapere quanto durerà, e allora è importante che i produttori restino coerenti con la propria storia, con il proprio stile produttivo e con il rapporto tra vino e territorio: sarebbe avventato espiantare varietà che oggi sono in difficoltà per impiantarne altre popolari, oggi, con il rischio, tra 3 o 4 anni non solo di arrivare tardi e su un mercato saturo, ma anche di ritrovarsi con un patrimonio storico e vinicolo totalmente devastato. Ci sarà, prima o poi, spazio per tutti, via via che la conoscenza del vino italiano cresce, nella consapevolezza che se un macro trend produttivo esiste è nella richiesta di vini meno alcolici e più freschi, capaci di accompagnare pietanze diverse, perché una delle peculiarità della ristorazione Usa (dove i ristoranti italiani godono di sempre maggior successo, cavalcando anche l’onda del declino della ristorazione francese) è nella grande varietà dell’offerta, che spazia quasi sempre dalla carne al pesce: ovvio abbinare i vini bianchi alla cucina giapponese, o i Cabernet Sauvignon alle steak house, meno semplice trovare e proporre, per i sommelier, il vino giusto per portate distanti a livello culinario.

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