02-Planeta_manchette_175x100
Consorzio Collio 2024 (175x100)

Addio Pinot Nero e Chardonnay di Borgogna? Il riscaldamento globale sconvolge la geografia ampleografica, come raccontano gli studi del Centro Goddard della Nasa e di Harvard. E in Italia, per difendere la tipicità, si punta su soluzioni agronomiche

In un futuro non troppo lontano, chi vorrà continuare a bere un Pinot Nero o uno Chardonnay, dovrà accontentarsi di quelli cresciuti tra i filari tedeschi, e non più della Borgogna o di Bordeaux. Il riscaldamento provocato dall’uomo negli ultimi 30 anni, infatti, ha già fatto anticipare di 2 settimane la vendemmia dal 1980, e minaccia di stravolgere la geografia enoica come la conosciamo oggi. Bisognerà puntare su varietà di uva adatte a climi più caldi, e spostare altrove le varietà più celebri, in zone finora considerate troppo fredde. L’analisi, neanche troppo allarmistica, arriva dallo studio pubblicato sulla rivista “Nature Climate Change” (www.nature.com), coordinato dal professor Benjamin Cook, del Centro Goddard della Nasa, che ha passato in rassegna i dati dei vitigni di Francia e Svizzera dal 1600 al 2007, mostrando, appunto, che dal 1980 in poi le vendemmie d’Oltralpe iniziano due settimane prima rispetto a 400 anni fa.

Finora le annate migliori per un vino di qualità erano considerate quelle con estati calde e piogge sopra la media all’inizio della stagione di crescita, e siccità alla fine. Ma i ricercatori hanno visto che mentre le temperature calde portano ad un anticipo delle vendemmie e vini di maggiore qualità, dal 1980 l’impatto della siccità è praticamente scomparso per via del cambiamento climatico, tanto da renderla sostanzialmente inutile ai fini della maturazione dell’uva per la vendemmia. Specie nelle regioni più rinomate, come Alsazia, Champagne, Borgogna, e Languedoc, dove vengono prodotti Pinot Nero, Chardonnay e altre varietà adatte a climi più freddi. Le ondate di calore estremo sono diventate più frequenti a causa del riscaldamento indotto dai gas serra, tanto che la Francia si è “riscaldata” di 1,5 gradi nel corso dell’ultimo secolo. “Finora un’annata buona coincideva spesso con un’annata calda - aggiunge la ricercatrice di Harvard Elizabeth Wolkovich, che ha collaborato allo studio - ma il 2003, l’anno con l’anticipo record di un mese della vendemmia, non ha prodotto vini particolarmente eccezionali. Ciò significa che se il calore continua a salire, i vigneti non potranno resistere per sempre”. Sarà quindi necessario puntare su varietà di uve differenti, sconvolgendo così la geografia delle zone di origine e dei vitigni.

Proiettando questo effetto nel 2050, un altro studio ha previsto che i due terzi delle attuali regioni del vino potrebbero non avere più il clima adatto ai vitigni attuali, ma altre regioni potrebbero esserlo. Le uve non più adatte alla Napa Valley californiana potrebbero trovare rifugio a Washington o nella British Columbia, mentre le vigne australiane potrebbero doversi spostare in Tasmania. E l’Italia? I cambiamenti climatici pesano anche da noi, con un anticipo medio della fioritura di 8-10 giorni, e il rischio diffuso di vini sempre più alcolici. Tuttavia, la tipicità è salva, grazie a interventi agronomici tra i filari e a un maggior ricorso all’irrigazione, come racconta all’Ansa Diego Tomasi, alla guida del centro di ricerca e della Scuola di Viticoltura ed Enologia di Conegliano. “Il rischio di produrre vini più alcolici - spiega Tomasi - non risponderebbe a quel che chiede il mercato oggi. Rischiamo la scomparsa nei bianchi di sentori floreali per una prevalenza di aromi tropicali, o di frutta matura”.

Da noi, “possiamo datare l’inizio dell’impronta dei cambiamenti climatici dal 1998 - continua Tomasi - quando ha iniziato ad accorciarsi il periodo della fioritura, portando un anticipo dell’invaiatura cui seguono, mediamente, vini più alcolici. E in un momento in cui a livello mondiale c’è forte attenzione sugli spumanti, diventa purtroppo più difficile mantenere l’acidità delle uve destinate alla produzione di spumanti, Champagne e Prosecco. In Italia, comunque - sottolinea il direttore del Centro di ricerca di Conegliano - la tipicità dei nostri vini non è stata messa in discussione. Per mantenere la freschezza e l’acidità la viticoltura trentina, ad esempio, ha spinto lo Chardonnay e il Pinot Nero destinati a base spumante fino a quota 600 metri in Valle di Cembra. In generale, sono state trovate soluzioni agronomiche, cambiando l’orientamento dei filari, rivalutando la pergola, spingendo in altezza la viticoltura, prolungando lo sviluppo vegetativo. Ma ora occorre ragionare sulla regimentazione delle acque per far fronte alle sempre più frequenti precipitazioni, le cosiddette bombe d’acqua. L’irrigazione - continua Tomasi - diventa importante non più per conservare la quantità della raccolta, ma per preservare la qualità”. In prospettiva, conclude il ricercatore del Crea, “per far fronte al cambiamento climatico servirà una genetica di soccorso, e da parte dei Consorzi un ripensamento dei disciplinari di produzione con un rialzo delle rese del 10%-15%”.

Copyright © 2000/2024


Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit


Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2024

Altri articoli