Omnicanalità, tra una gdo che è cresciuta, un on line che è esploso e un horeca che ha sofferto ma che prova a ripartire; nuovi formati, con un occhio particolare al tema del vino in lattina, ancora poco esplorata in Italia ma sempre più di successo nel mondo, soprattutto tra i giovani; diversificazione e ampliamento della gamma di prodotto, con grande attenzione a tutto il mondo del vino bio, naturale e a basso contenuto di alcol, che va incontro ad una domanda dove il tema della salute e della salubrità è sempre più trasversale ed importante; sostenibilità, a 360 gradi, dalla vigna allo scaffale, passando per quella sociale ed economica; digitalizzazione, perchè è da qui che, in ogni ambito, passa il futuro: ecco i temi strategici da affrontare per la filiera del vino di oggi e di domani, come emerso dal focus sul vino del “Forum delle Economie”, firmato da UniCredit (in collaborazione con il Consorzio del vino Brunello di Montalcino), con i contributi di Andrea Burchi, Marco Wallner e Luigia Mirella Campagna di Unicredit, il presidente del Consorzio del Brunello Fabrizio Bindocci, e produttori e manager del territorio di Montalcino come Giampiero Bertolini, ceo di Biondi Santi, Gabriele Mazzi, Chief Finance Officer Castello Banfi, Giacomo Bartolommei, proprietario di Caprili, Stefano Cinelli Colombini, alla guida della Fattoria dei Barbi, Renzo Cotarella, Ceo della Marchesi Antinori, una delle cantine sinonimo del grande vino italiano nel mondo).
Il nodo centrale, ovviamente, sarà la ripresa vera, della ristorazione, del turismo e non solo: secondo Unicredit, il giro d’affari del vino, che già vedrà un rimbalzo in questo 2021, tornerà ai livelli pre-covid nel 2022. Ovvero a quei 13 miliardi di euro di valore alla produzione del 2019, ultimo anno “pulito” prima della pandemia, quando il comparto enoico ha contribuito con il 10% al fatturato totale del food & beverage italiano. Ed a far sperare in una nuova era di crescita, per il vino italiano, sono tanti fattori. Perchè se è vero che l’impatto del Covid è stato pesante (Unicredit stima un calo medio dei fatturati tra il -10% ed il -15%, seppur con differenze importanti da azienda azienda, con perdite molto maggiori per chi è focalizzato sulla ristorazione, a lungo ferma in Italia e nel mondo, ndr), il settore, come spesso accaduto nella storia, si è confermato più resistente di altri. E se le esportazioni sostanzialmente hanno tenuto (6,3 miliardi di euro, -2,2% nel 2020 sul 2019), a confortare è stata la tenuta dei consumi, almeno in volume, con la spesa delle famiglie cresciuta del 7% su base annua, contro un +1,2% nel 2019 sul 2018. Segno che gli italiani non hanno rinunciato ad un buon calice di vino, che anzi è tornato, gioco-forza, protagonista di una nuova quotidianità che inevitabilmente cambierà ancora, una volta superata la pandemia, ma che può costituire una base importante per ripartire.
D’altronde, l’Italia che fu Enotria, è il Paese del vino, con tanti primati: da quello (che vale quel che vale) della produzione, a 52 milioni di ettolitri nel 2020 secondo i dati Istat, a quello dei vini a denominazione, 526 tra le 408 Dop e le 118 Igp, contro i 436 della Francia o i 139 della Spagna. Un patrimonio, sottolinea ancora Unicredit, protetto e promosso da 122 consorzi di tutela. La grande sfida, però, è la costruzione, o meglio la ricostruzione, del valore. Perchè se in consumi interni hanno tenuto in volume, con la ristorazione chiusa lo hanno fatto a discapito del valore, e lo stesso discorso vale per l’export: si è interrotta, infatti, la tendenza all’aumento dei valori medi unitari alle esportazioni, e in molti Paesi europei le vendite, sottolinea Unicredit, si sono chiuse su prezzi più bassi. La buona notizia sui mercati esteri è che l’Italia ha retto meglio di alcuni competitor, mantenendo e in alcuni casi aumentando le quote di mercato, soprattutto in quei Paesi dove era già leader nell’importazione di vino in tempi pre-Covid19. E anche questo, se ben sfruttato da ora in avanti, è un elemento che fa guardare al futuro con rinnovata fiducia, dopo mesi davvero difficili, da cui buona parte del mondo è già uscita, e un’altra, più rapidamente, come Usa e Uk, o più lentamente, come l’Europa, sta uscendo. Con tanta voglia di brindare, con un buon calice di vino, alla ripartenza.
Focus - Il futuro del vino post pandemia secondo i produttori ed i consorzi
Per il settore del vino, che ha retto all’impatto della pandemia, è indubbio che qualcosa cambierà. Difficile dire cosa, con esattezza, eppure dei processi che erano già in atto e che sono stati fortemente accelerati, ci sono e come. Come hanno evidenziato, nel Forum delle Economie, firmato da Unicredit (in collaborazione con il Consorzio del Brunello di Montalcino), manager di cantine di assoluto prestigio seppur diverse tra loro per storia e dimensione.
“Se è vero che l’effetto della pandemia sul settore del vino è stata abbastanza impattante - ha sottolineato Renzo Cotarella, Ceo di Marchesi Antinori, la più importante realtà privata del vino italiano, guidata da 26 generazioni dalla famiglia Antinori - è altrettanto vero che lo stesso settore ha dimostrato una forte capacità di adattamento. L’emergenza ha contribuito ad accelerare un processo già in atto, come le vendite online, e nello stesso tempo ha contribuito a cambiare l’ossessione derivante dalla grande dicotomia tra grande distribuzione e ristoranti. Oggi, infatti, risulta evidente a tutti che è diventato facile reperire e sapere il prezzo del vino e quindi questa preoccupazione del passato è da ritenersi superata, In futuro la competizione sarà più ampia e farà leva su diversi elementi a partire dalla sostenibilità che ora necessariamente deve trovare una definizione. Sulle altre sfide che riguardano i modelli di consumo, come ad esempio, i vini in lattina, in espansione negli Usa, è evidente che servirà fare delle valutazioni strutturali perché non tutti i vini a denominazione possono andare in lattina. Lo stesso ragionamento investe anche il tema della gradazione alcolica”.
“Sono due i grandi stimoli che ci arrivano dalla pandemia. Il primo - ha aggiunto Giampiero Bertolini, ceo di Biondi Santi, la cantina “culla” del Brunello di Montalcino, dove il grande rosso italiano è nato nell’Ottocento e oggi del gruppo Epi della famiglia francese Descours - riguarda il consumatore con il quale dobbiamo riprendere il contatto diretto. Vendiamo ai ristoranti, ai buyer, ma abbiamo perso la relazione diretta con i nostri consumatori. Il secondo ci rileva che la pandemia ha evidenziato di più il valore della marca: un elemento fondamentale anche per gli stessi consumatori che hanno bisogno di essere rassicurati. La stessa digitalizzazione deve andare in queste due direzioni: ripristinare il contatto diretto con il consumatore e creare valore sulla marca”.
“Come manager di un’impresa vitivinicola (Tenuta Il Poggione, ndr) e come presidente del Consorzio del vino Brunello di Montalcino - ha detto, dal canto suo, Fabrizio Bindocci - mi sento di dire che ci sono alcune cose da salvare in quest’ultimo maledetto anno. La prima è la reazione sul mercato del vino di punta e dei nostri produttori, che sono riusciti a chiudere in modo molto positivo nonostante la congiuntura estremamente negativa. La seconda a mio avviso è stato proprio il rapporto con gli istituti bancari, che si sono dimostrati e si stanno dimostrando molto vicini a un settore in evidente tensione finanziaria. Gli strumenti finanziari, concepiti velocemente e in maniera più dinamica rispetto al passato, possono certamente rappresentare un sostegno importante. In particolare, a supporto di ciò che rappresenta la spina dorsale del tessuto produttivo italiano, quelle piccole aziende di qualità che hanno subito le chiusure al pari dei loro principali partner commerciali della ristorazione e del fuori casa. Montalcino, anche grazie alle ultime due super annate osannate dalla critica internazionale (la 2015 e la 2016, ndr), è riuscita a non abbassare la guardia, specie sul fronte della valorizzazione del prodotto, dei piani di crescita e della forza commerciale dei nostri imprenditori e del nostro brand. Ora all’Italia del vino serve prima di tutto riprendere il cammino e ripartire da dove ci si è fermati. Durante le crisi si mettono in dubbio antiche certezze, e così da più parti si alzano voci sulla necessità di riformare il modello di business del nostro settore. Ma non sono d’accordo: la realtà è che nel passato recente il vino tricolore ha viaggiato a ritmi molto più alti di tutti i principali competitor, con un export nazionale cresciuto nell’ultimo decennio del 60% e quello toscano di quasi il 70%. Il nostro settore non deve cambiare quanto piuttosto progredire sulla strada intrapresa, abbinando alla qualità produttiva un affinamento delle risorse commerciali e comunicative. Ed è quello che stiamo facendo a Montalcino, che è riuscito a reagire all’anno del Covid forte del suo brand globale e delle scelte dei suoi produttori. L’interesse di istituti bancari come Unicredit a fare partnership con il settore dimostra che le aziende italiane del vino sono sane e pronte a ripartire, come sta accadendo al nostro Brunello di Montalcino che, rispetto al pari periodo del 2020, nel primo trismetre 2021, ha registrato un +37% di contrassegni di Stato consegnati per le bottiglie pronte alla vendita”.
A fare il punto sulla situazione del Brunello di Montalcino anche Stefano Cinelli Colombini, alla guida della storica Fattoria dei Barbi della famiglia Colombini Cinelli. “Sul piano del mercato, per il Brunello di Montalcino gli ultimi 12 mesi sono stati molto positivi - ha detto - non solo nelle vendite ma anche sul fronte delle giacenze, calate considerevolmente. E se il nostro vino di punta sta vivendo un ottimo momento a partire dalla fascia più alta dei nostri prodotti, il complesso delle denominazioni toscane sta dando segnali di ripresa, con una crescita dell’imbottigliato dell’11,4% nei primi 4 mesi 2021, sul pari periodo 2020. Un quadro della nostra micro-situazione ben diverso da quello nazionale”.
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