Anche se al momento sembra essere uscito dal dibattito pubblico, il problema del caporalato, una piaga che interessa uno dei settori più forti ed iconici dell’economia italiana, quello dell’agricoltura, continua ad esistere. Un fenomeno che ha interessato anche il mondo del vino nel recente passato e che si manifesta in vari modi: al contrario dell’opinione diffusa, ha una dimensione capillare, e quindi non solo al Sud ma anche al Nord, in regioni in cui l’agricoltura si differenzia per maggiori profitti e investimenti. A confermarlo è il nuovo report “Gli ingredienti del caporalato - Il caso del Nord Italia” di Terra!, associazione ambientalista particolarmente sensibile al tema dello sfruttamento sul lavoro, che è andata ad analizzare gli “ingredienti del caporalato” in zone come Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Veneto e Lombardia, regioni che sono tra i motori dell’economia italiana, anche in ambito agricolo.
Nella prefazione del rapporto (che presenta anche focus approfonditi sulle filiere del vino nelle tre regioni ed in territori di grande rilievo, dalle Langhe in Piemonte al mondo Prosecco, tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, in particolare), Terra! ha ricordato “come non sia possibile comprendere lo sfruttamento del lavoro in agricoltura se non si guardano le relazioni tra tutti gli attori dei sistemi agroalimentari, dagli agricoltori alle industrie di trasformazione, dai commercianti alla logistica, fino alle catene di supermercati”. C’è un luogo comune da sfatare, “ossia che lo sfruttamento in agricoltura riguardi solo le campagne del Mezzogiorno” tanto che la ricca agricoltura settentrionale, è “attraversata da dinamiche di sfruttamento, sebbene con forme ed intensità diverse da quelle più note delle regioni del Sud. Pur registrando meno spesso casi di caporalato “classico”, altre forme di reclutamento - dalle cooperative cosiddette “senza terra” alle partite Iva - rischiano di riproporre condizioni di lavoro pesanti per chi lavora nei campi e negli stabilimenti di trasformazione”. Quindi “se nel Sud si registra la maggioranza delle ore di lavoro agricolo non regolare, al Centro-Nord il tasso di irregolarità oscilla tra il 20 e il 30%. Ad oggi, il numero dei procedimenti giudiziari per sfruttamento del lavoro aperti nelle regioni del Nord e del Centro è pari rispettivamente al 28% e al 27% del totale. Nel 2023, su 124 casi di sfruttamento rilevati dal Laboratorio sullo sfruttamento lavorativo e la protezione delle sue vittime, curato da Adir - L’altro diritto e Flai-Cgil, le regioni del Centro e del Nord totalizzano 69 casi di sfruttamento, superando i 55 casi del Sud”. E le anomalie, si riscontrano anche al momento di mettere la merce nel carrello della spesa. Terra! spiega che “quando acquistiamo qualcosa al supermercato, il prezzo che paghiamo dovrebbe remunerare tutti gli anelli della filiera: dovrebbe, cioè, pagare il salario (adeguato) del bracciante che raccoglie la materia prima, quello dell’agricoltore che conduce la sua azienda. Dovrebbe coprire i costi di trasformazione dell’industria alimentare e poi, ancora, il trasporto, la logistica e, infine, la distribuzione. E a questi dovrebbero anche aggiungersi i costi ambientali (emissioni di CO2, inquinamento, consumo di suolo, solo per fare qualche esempio) e sanitari che spesso, anzi quasi sempre, restano fuori dal calcolo e si trasformano in costi per la collettività”. Eppure, spiega l’associazione nell’introduzione al proprio report, “secondo Ismea, l’ente pubblico che analizza i mercati agro-alimentari, per cento euro di spesa che ognuno di noi fa al supermercato, all’agricoltura vanno le briciole, ovvero 1,5 euro (che arrivano a sette se si parla di cibo fresco). Al netto dei costi vivi, la parte prevalente va alla logistica e alla distribuzione. Questo vuol dire che molto del prezzo che stiamo pagando non va a chi lavora la terra. E, a proposito di briciole, è dentro questo squilibrio nella ripartizione del valore lungo la filiera che si rintracciano le cause profonde dello sfruttamento e del caporalato”.
A livello geografico, gli stranieri comunitari che lavorano nelle campagne appaiono in calo al contrario di quelli provenienti soprattutto “dai Paesi dell’Africa sub sahariana e dall’Asia meridionale. La ragione è data dalle migliori condizioni lavorative e dalla maggiore attrattività economica di altri paesi, in cui si in travedono migliori prospettive di crescita”. Ciò “ha determinato l’inserimento di nuovi flussi di lavoratori, soprattutto dall’Africa sub sahariana e dall’Asia (in particolare Bangladesh e Pakistan), con una serie di criticità annesse. A differenza dei lavoratori dell’Est, si tratta di persone che spesso non dispongono di una rete sociale consolidata né di un’abitazione. Per questi motivi spesso ricadono in situazioni di grave sfruttamento da cui faticano ad uscire, anche solo per scarsa consapevolezza e per mancanza di alternativa”. L’alloggio resta un problema fondamentale, soprattutto per i braccianti non comunitari.
C’è poi la questione, anche questa molto delicata, del reclutamento. “Molti lavoratori - si legge nel report - oggi vengono reclutati attraverso le cosiddette cooperative “spurie”, “opache” o “senza terra”, definite così perché forniscono servizi agricoli e manodopera ma sono prive di appezzamenti. In Piemonte esistono da anni”. In concreto, “lo sfruttamento, generalmente, avviene in due modi: l’azienda agricola versa alla cooperativa il corrispettivo previsto dal contratto provinciale di categoria; la cooperativa, però, elargisce uno stipendio ai lavoratori. Alcuni imprenditori intervistati considerano le cooperative senza terra un servizio”. Ma è il cosiddetto “lavoro grigio” ad essere “la piaga che sembra maggiormente in espansione. Si basa su un tacito - e spesso obbligato - accordo tra il lavoratore e l’imprenditore agricolo: l’imprenditore si assicura un lavoro continuativo tutto l’anno, ma non registra mai più di 180 giornate, il numero necessario ad accedere alla disoccupazione agricola. In questo modo, paga meno tasse e costringe il lavoratore in una condizione di subalternità. Quest’ultimo, dal canto suo, potrà godere degli ammortizzatori sociali previsti grazie a un numero di giornate registrate che però, spesso, è di molto inferiore a quelle effettivamente svolte. Per le giornate che eccedono, sarà retribuito in modo informale (in nero). Così a fine anno - continua Terra! - il salario complessivo del bracciante è il risultato della somma di tre voci: quella delle giornate segnate in busta paga, la quota data in nero dal datore di lavoro e la disoccupazione agricola. Ma soprattutto questo è il modo con cui l’imprenditore formalmente ha le carte in regola perché il lavoratore ha un contratto. Così è più difficile, in caso di controlli, accertare l’illecito”.
Come cercare di risolvere il problema? Terra! elenca alcune idee, che vanno dal mettere in piedi, per fare prevenzione, “un approccio “multi agenzia” che coinvolga tutti gli attori: istituzioni, aziende e lavoratori. L’esempio di Saluzzo (Piemonte, ndr), analizzato nel report, ci ricorda che solo questo metodo può migliorare le condizioni abitative, efficientare i servizi pubblici, offrire un servizio alle aziende e contrastare il fenomeno dello sfruttamento”. Necessario è ritenuto anche “riequilibrare la catena del valore”, “ad esempio rafforzando ulteriormente la Direttiva europea sulle pratiche commerciali sleali” per “aumentare il margine di guadagno della parte agricola, che in questo momento è troppo basso”. Inoltre Terra! chiede “la cancellazione della legge Bossi-Fini”, e la semplificazione delle regole di ingresso dei lavoratori stranieri: “sarebbe necessario invece raccogliere dati sull’effettivo fabbisogno aziendale e incentivare ad esempio i contratti di rete, che permettono la condivisione della manodopera tra le imprese”. Tra le richieste c’è anche quella di “programmare un’attività ispettiva regolare, che si rafforzi nei periodi di picco stagionale, che veda il coordinamento di ispettori del lavoro, mediatori culturali e operatori anti-tratta. Le ispezioni sono ancora troppo poche ma quando ci sono, rilevano le criticità del comparto. Su 3.529 controlli in agricoltura nel 2023, 2.090 hanno fatto emergere irregolarità (il 59.2% dei casi). Alla fine del mese di luglio 2024, il servizio di vigilanza straordinaria ha fatto controlli in 109 aziende: ben 62 presentavano irregolarità (56,9%), e su 505 lavoratori controllati, 236 sono risultati irregolari (46,7%). Chiediamo al Governo e alle Regioni di aumentare le ispezioni anche perché la Politica agricola comune (Pac) in vigore (2023-2027), che finanzia l’agricoltura dell’Unione, ha introdotto la “condizionalità sociale”. Si tratta di una clausola che vincola la concessione dei pagamenti diretti al rispetto di alcuni standard etici, che riguardano la qualità del lavoro”. Inoltre, “ci auguriamo che la Banca Dati degli appalti in agricoltura, introdotta nel Decreto Agricoltura (luglio 2024) al fine di rafforzare i controlli in materia di lavoro e di legislazione sociale nel settore agricolo, restituirà una reale mappatura delle aziende agricole e dei loro specifici bisogni in termini di manodopera. E che serva soprattutto a scoperchiare la fitta trama di cooperative “senza terra” o “opache”, srl o partite Iva, che sempre più spesso svolgono una intermediazione illecita tra lavoratori e aziende”. Riguardo alle abitazioni, la “ricetta” che servirebbe, per l’associazione Terra!, è di “rafforzare le strutture di accoglienza diffusa sui territori, favorendo l’ingresso dei lavoratori nel mercato immobiliare. Bisogna attivare politiche pubbliche territoriali che affrontino in maniera strutturale il tema dell’abitare temporaneo con specifico riferimento ai lavoratori stagionali”. E, sul tema della “trasparenza”, agire attraverso “un’etichetta chiara, con tutte le informazioni sulla filiera” che “può aiutare a fare scelte consapevoli e a premiare le aziende che rispettano i diritti dei lavoratori”.
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