
Il vino, “bevanda culturale” che accompagna l’uomo da sempre, elemento centrale della nostra identità e del nostro patrimonio culturale, simbolo di condivisione e convivialità, passato, controcorrente ad altri beni, dall’essere un bisogno a rappresentare un desiderio, ci ricorda, in ogni epoca, che stare insieme è “un lusso”. E ancora di più in un presente, e in un futuro, che vedono il settore alle prese con un calo dei consumi a livello mondiale, uno scenario geopolitico complesso, e con la necessità di ribadire che il suo consumo è “diverso”, nella fruizione, da quello di altre bevande alcoliche, legato alla tavola e ad un concetto di benessere che non è solo fisico ma anche mentale, da ridimensionare. Ascoltando le storie di chi lo produce, dei territori in cui nasce e delle comunità che hanno scelto di coltivare la vite in un determinato luogo, e sempre più in modo sostenibile, da parte di chi, come i sommelier, educa alla bellezza, ma anche di chi, chiaramente, lo deve vendere. Anche grazie al vino, cioè, dobbiamo tornare a prenderci del tempo per stare insieme e dialogare: questo è il suo vero valore culturale. Se ne è parlato, ieri a Roma, nei 45 anni del “Forum della Cultura del Vino” della Fondazione Italiana Sommelier (Fis), che, guidata da Franco Maria Ricci, da 60 anni è uno dei più grandi centri di cultura del vino del mondo (come testimoniato dalla presenza alla Fis del Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella, lo scorso marzo, ndr). E dove i sommelier, la cui mission è diffondere la conoscenza del vino tra le persone, hanno scelto di celebrare la ricorrenza con Vinitaly, il più importante evento del vino italiano nel mondo, perché insieme, e insieme a quanti hanno raccontato come si è arrivati al successo di oggi del settore, sono stati fondamentali per promuovere il vino come cultura in Italia e sempre di più anche nel mondo.
“Gli attuali scenari internazionali confermano che, oggi più che mai, vivere la gioia delle relazioni e della fraternità è davvero un lusso - ha detto Don Paolo Morocutti, docente di Teologia alla Pontificia Università Gregoriana di Roma - ciò che dovrebbe essere la normalità, lo stare insieme, il condividere, il fare festa, la ricerca del bello e del buono che caratterizzano da sempre l’animo umano, sono sempre più un lusso raro e poco raggiungibile. Sono particolarmente grato di intervenire perché come “toscano-senese” il tema del vino non mi è per nulla indifferente. Parlare del vino come “canto della terra verso il cielo” (come diceva il maestro del giornalismo enogastronomico italiano Luigi Veronelli, ndr), che richiama alla “Bibbia” e alla cultura cristiana significa affrontare un viaggio affascinante tra storia, simbolismo, antropologia e spiritualità. Il vino lungi dall’essere una semplice bevanda, rappresenta un vero e proprio filo rosso che attraversa le Scritture e la storia della Chiesa, legando la dimensione terrena a quella divina. E diciamolo subito, se c’è un elemento che mette d’accordo patriarchi, profeti, apostoli e anche qualche santo un po’ troppo austere, è proprio il vino”, ha proseguito, “perché la fede, come il vino buono, va gustata con gioia e soprattutto insieme”. Il vino, in questo senso, ha spiegato, “è segno tangibile della presenza di Dio nella vita quotidiana: dove si brinda, Dio c’è. Dal punto di vista antropologico, il vino è un elemento che unisce” e che “accompagna i momenti cruciali della vita: nascite, matrimoni, lutti. Anche nella “Bibbia”, il vino è il compagno delle feste, dei banchetti, dei momenti di incontro. Dove c’è vino, c’è comunità”. Vino che, ha concluso, “è una metafora potente della vita”, e “come la vita va gustato con lentezza, senza fretta, assaporando ogni sfumatura”, e “va condiviso: da soli non ha lo stesso sapore”.
“Tutti sappiamo quanto il vino sia un valore economico e sociale per il nostro Paese: stiamo parlando di 45 miliardi di euro tra impatto diretto e indiretto, l’1,1% del Pil italiano, con 8,1 miliardi di euro di export, e quasi 1 milione di occupati in oltre 200.000 aziende - ha ricordato Federico Bricolo, presidente Veronafiere - ma fa anche parte della nostra storia e della nostra cultura, ha accompagnato la storia dell’uomo, collegandosi alle relazioni e alla socialità, dalla “Bibbia” ai giorni nostri, nei quali, tra l’esser presi dal lavoro e dai telefonini, forse il vero lusso sono proprio le relazioni di qualità. E non esiste un momento importante nella nostra vita che non sia festeggiato con un bicchiere di vino, e che ci fa apprezzare al massimo anche lo stare a tavola insieme che il mondo ci riconosce come eccellenza. E questo anche grazie ai 3 milioni di persone che nei 60 anni della Fis sono diventati sommelier diffondendo la cultura del vino italiano nel mondo, e che è fondamentale in questo momento di consumi in crisi. Dall’altra parte, guardando allo scenario dei dazi, sono convinto che l’ingegno italiano, grazie alla capacità di fare bene e di innovare delle nostre aziende, troverà il modo migliore per affrontare anche questa sfida meglio di altri Paesi come abbiamo fatto in passato. Abbiamo davanti un futuro molto provante, ma anche sfidante, e se il mondo del vino lo affronterà unito nella visione e nella promozione, avremo dei risultati”. Nel futuro, ha aggiunto Adolfo Rebughini, dg Veronafiere, “l’obbiettivo è trasformare il rapporto cliente-fornitore verso la partnership, che vuol dire attivare tutti quei meccanismi di ascolto, ed essere una piattaforma di contenuti, tendenze, tecnologia e prodotti, e che si forma, che studia, che analizza il mercato e che ha anche la responsabilità di fare formazione. Che è fondamentale per aprire nuovi mercati, dove non basta semplicemente spedire una cassa di vino, e guardarli solo dal punto di vista commerciale, ma per conquistare i quali è necessaria una policy basata sulla responsabilità che è quella di far conoscere il nostro incredibile patrimonio di diversità, con il supporto anche della tecnologia e dei dati, che sono sempre più alla base della credibilità e dell’autorevolezza delle grandi fiere come Vinitaly”.
Se parliamo di vino e della sua civiltà, ha esordito Carlo Cambi, giornalista e scrittore, “dobbiamo partire dalla Georgia o dall’Armenia, quella mezzaluna di montagne di straordinaria bellezza, purtroppo oggi confinate ai margini del mondo dalla guerra. Si parla tanto della guerra in Ucraina e a Gaza, ma non si parla per niente del genocidio armeno, che è stato il primo della storia e tuttora si perpetua. Sotto i morti dell’Armenia, vive l’origine della vite. Quel vitigno Areni, che è il più celebre tra i vitigni rossi armeni, che noi conosciamo appena, ma che è stato il progenitore di tutti i vitigni, come lo sono tutti i vitigni georgiani. In Italia abbiamo oltre 750 vitigni iscritti all’albo, in Georgia ce ne sono 560, vuol dire che probabilmente la prima mutazione della Silvestris in Vinifera avviene all’ombra dei Monti Sacri e da lì ripartono alcuni pezzi del germoplasma che si incontrano con le altre regioni del mondo e con le altre civiltà”. Il vino è, del resto, “la manifestazione più evidente del carattere degli uomini, perché la Madre Terra lo genera e il contadino ne fa il carattere” e se ci avventurassimo a leggere il percorso che la vite ha fatto nella Penisola italica e nelle isole, come ha fatto il professor Attilio Scienza, tra i massimi esperti di viticoltura, chi ci dice che non avessimo già un patrimonio viticolo e che la migrazione della vite non fosse iniziata prima del suo arrivo con i fenici nella Magna Grecia e nelle colonie siracusane quando l’Italia aveva un’altra conformazione. Ma c’è una grande diversità questo sì, mi lascia più perplesso la definizione di autoctono e capire da quando un vitigno lo è diventato, meglio parlare di vitigni che risiedono in un certo areale e si sono sviluppati ottenendo i massimi tipi. A determinare la biodiversità e la ricchezza del nostro patrimonio vitivinicolo è in larga misura la diversità enorme del territorio del nostro Paese e la diversità enorme di abitudini di coltivazione della vite che nel corso dei millenni sono state realizzate. E se questo ci spiega dal punto di vista fenomenologico il perché della diversità, alla ragione profonda che ha condotto gli uomini a sperimentare vigneti e vitigni diversi, come in Italia ed in Georgia laddove il vino assume il massimo valore culturale e la massima diversità, la risposta me l’ha data lo stilista Gianfranco Ferrè, rispondendo alla mia domanda che cosa è il lusso: disporre del proprio tempo. Allora mi sono chiesto, ma non è che questi contadini arcaici avevano un enorme problema, e cioè che dopo un po’ di tempo il vino che avevano prodotto non era più buono, ed è quindi qui che entra in gioco il lavoro tecnologico, ha detto, citando il concetto di tempo di Dioniso, il cui segreto con i riti dionisiaci era liberare l’uomo dalla dimensione corporale e dall’ossessione del tempo, e di Sant’Agostino, attuale più che mail visto che Papa Leone XIV è agostiniano, e il cui problema principale nelle “Confessioni” è proprio il tempo, la cui dimensione è una sola, l’eternità che è solo Dio, mentre esiste il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Ecco, voi prendete una bottiglia: ci troverete dentro il presente del passato, e cioè la passione, il presente del presente, e cioè la soddisfazione, e il presente del futuro, e cioè la proiezione verso la gioia perché domani ci sarà un’altra bottiglia. Infine, ha aggiunto, citando anche Aristofane, “gli uomini quando bevono vino, preservano gli amici, vincono le cause, fanno buoni affari e sono felici”, e Marsilio Ficino, “l’anima non esiste in natura, ma è necessario che la materia incontri l’anima, e quando questo avviene il risultato è la bellezza, ovvero, il grado di qualità”.
In cantina, e prima ancora nel vigneto, e, quindi nella diffusione della cultura del vino da parte dei sommelier, “la formazione è un aspetto fondamentale che arricchisce, crea essa stessa cultura, posti di lavoro ed economia”, ha sottolineato l’agronomo dei “Preaparatori d’Uva” Marco Simonit, mostrando un albero di vite di cui è difficile dire se sia Silvestris o Vinifera e l’età, essendo in mezzo ad una foresta. “Osservandola possiamo dedurre che non ha avuto rapporti con l’uomo per molti anni. Un uomo che come Noè, il primo uomo a coltivare la vite sul Monte Ararat e a produrre vino, ha deciso di scegliere nemmeno un territorio, ma un luogo dove piantarla e produrre un “vino di luogo”, che fa la differenza perché per fare un luogo ci vogliono tempo, un uomo, una comunità che nel tempo vive in quel luogo, e quel luogo decide la genetica, una varietà o la mescolanza di varietà. Ma anche una forma, un’architettura della vite, specifica ed adatta a quel luogo, alla sua morfologia, al suo microclima, al suo ecosistema, e che è il risultato di un approccio artigianale frutto della creatività dell’uomo, e che nel tempo diventa resiliente grazie alla connessione con l’ambiente. Ho la fortuna di lavorare in molti distretti del vino del mondo, dove si fanno vini anche di valore molto alto, e vi posso assicurare che uno degli aspetti che i produttori hanno a cuore è la durata delle loro piante, perché nel tempo i caratteri unici dell’uva si riversano nel vino e si producono vini dal “carattere di luogo”. Quindi il tempo perché le vigne possano invecchiare, è uno degli elementi più importanti per fare vino di qualità. E il fatto è che la vite in natura, non fa vino, ma c’è bisogno dell’uomo, il cui rapporto con la vigna si è evoluto, e soprattutto negli ultimi 40-50 anni è diventato più difficile per la pianta della vite, per cui c’è bisogno dell’approccio anche industriale che può convivere benissimo con quello artigianale. Il mio mestiere è proprio quello di aiutare gli uomini ad aver un buon rapporto con le piante di vite, ed aiutare la vite a sopportare gli uomini, e far sì che la loro resilienza non si vanifichi. O non fai più un vino di luogo, ma di stile”, come lo “stile maison”, che, dalla Champagne alla Borgogna e Bordeaux, ci sta e può unirsi al fare vini di luogo. “Noi abbiamo bisogno di conservare il nostro patrimonio viticolo - ha concluso - e per fare questo abbiamo bisogno di formazione e di trasmettere sapere, investendovi, perché questo vuol dire prendersi cura di qualcosa che ha caratteristiche uniche e che, con il tempo e il saper fare artigianale, assume valore”.
“Ho il lusso di fare la professione di enologo, che è la cantina, che accoglie e raccoglie il frutto non di un anno di lavoro, ma di anni di lavoro di interventi che si fanno in vigna e il cui risultato si vede poi in cantina, con il tempo - ha spiegato l’enologa Barbara Tamburini, Oscar del Vino come “Miglior enologo” 2019 - in cantina si ha il compito di trasformare, quindi si deve avere ben chiaro tutto il progetto per arrivare a ottenere un risultato qualitativo importante, fino ad arrivare all’imbottigliamento. E, quindi, la cantina è conoscenza, e implica la necessità di conoscere un territorio ed i suoi vitigni, che sono un patrimonio unico da valorizzare in ogni singolo territorio, in ogni singola azienda. Le tecniche di cantina sono molto importanti, e nel tempo si sono volute, fino a poter parlare, oggi, di conoscenza e scienza che ci hanno permesso raggiungere livelli di eccellenza, per ottenere il miglior risultato in ogni singola annata. Ma senza dare mai niente per scontato, e qui entra in gioco l’arte del sapere per dare vita ad una creatura, che è il vino, capace di essere la migliore espressione di un’annata, di un territorio, di ogni singola cantina, sintesi della vocazione di un luogo e della tradizione aziendale, ma che va valutata sempre guardando al futuro. Che vuol dire anche seguire l’evoluzione del gusto del consumatore, che non significa andare a modificare l’identità aziendale, ma essere una situazione che ci dà la possibilità di modificare i dettagli. Il vino è come un’opera d’arte e le cantine sono “templi dell’enologia”, architetture belle e futuriste, dove la forma diventa sostanza, e dove l’estetica si fonde con la funzionalità. Ma dove per produrre un grande vino bisogna avere ben chiaro un concetto, e avere il lusso di non dare mai niente per scontato di fronte ad ogni nuova annata, come se fosse la prima volta, e far sì che ogni nuova annata arricchisca il proprio bagaglio di esperienze e conoscenze, che ci permette di curare ogni dettaglio che è ciò che fa la differenza nella ricerca di quell’eccellenza del vino italiano che portiamo sulle tavole del mondo”.
Per definire il concetto di lusso, anche Oscar Farinetti, patron di Eataly, imprenditore, produttore e scrittore, ricorre all’Antica Grecia, “a Platone ed Aristotele, che Raffaello mette al centro della sua “Scuola di Atene”, il primo con il dito rivolto verso il cielo e l’altro con il braccio verso la terra. Platone dice che il lusso è l’ostentazione della ricchezza che può corrompere l’anima portando alla perdita delle virtù civiche. Aristotele ha una visione più ottimista, e ci dice che è espressione di eccellenza e magnificenza, ma in modo misurato, e che è giusto se finalizzato al bene comune. La certezza è che il lusso è un desiderio e non è un bisogno. Al centro del modello sociale in cui noi viviamo che è la società dei consumi c’è il prodotto, e il suo percorso che lo ha visto passare dall’area dei desideri a quella dei bisogni, nel minor tempo possibile, diventando una commodity. Il vino, invece, è tra quei pochissimi prodotti che hanno fatto il percorso inverso, passando dall’area dei bisogni a quella dei desideri, se si pensa a quanto in passato era inimmaginabile sedersi a tavola senza vino, a quanto si beveva, di più bassa qualità e a poco prezzo. Attraverso tutta una serie di mosse siamo riusciti a fare del vino un desiderio, e oggi possiamo dire che è entrato nella sfera del lusso, ma solo se la sua immagine è quella aristotelica. E perché la sua produzione sia finalizzata al bene comune, dobbiamo lavorare, prima di tutto, nell’ottica della salute delle persone e della terra in cui facciamo nascere il nostro vino, e io sono tra quelle persone che pensano che tutta l’agricoltura italiana debba essere biologica. Seconda cosa è l’equa distribuzione della ricchezza tra tutti gli attori che concorrono a creare e a promuovere il vino, dal proprietario ai collaboratori in campagna, dai fornitori ai divulgatori, dai consulenti al consumatore finale al quale dobbiamo offrire un prodotto sano ed eccellente ad un prezzo sostenibile, che non vuol dire basso perché tecnicamente non può esserlo, ma magari rinunciando ad altri beni di altri settori a cui siamo appassionati”, ha concluso leggendo passi del suo ultimo libro “Hai mangiato” per Slow Food Editore, e mostrando “Il Terzo Paradiso” di Michelangelo Pistoletto, ovvero “il segno dell’infinito con l’aggiunta al centro di un cerchio più grande, con il quale il grande artista vuol dirci che se riusciamo a mettere insieme due paradisi, ne possiamo creare un terzo che sia il più importante di tutti, come il vino, frutto della natura e della tecnologia”.
Del resto, oggi, “si comunica il vino con atteggiamenti che con il vino non hanno nulla a che fare, soprattutto se si vuole avvicinare i giovani al vino, ed è assurdo se penso a quanti giovani frequentano i nostri corsi nella nostra Scuola in cui si fa uso della parola - ha detto Daniela Scrobogna, presidente Comitato scientifico Scuola Alta Formazione Fis - oggi anche la parola è un lusso, perché siamo in un’epoca dominata dalla comunicazione rapida, superficiale, spesso ridotta a frammenti di messaggi mediati, l’uso consapevole della parola si rivela l’antitesi della banalità. Parlare bene, oggi, non è solo competenza, è un bene prezioso e un atto culturale, un vero e proprio lusso non nel senso effimero del termine, ma come risultato di un percorso formativo in ambienti stimolanti e a continuo contatto con strumenti culturali. Significa esprimere noi stessi e ciò che pensiamo. La parola diventa, così, strumento di autentica comunicazione, di persuasione, di fascinazione. Il sociologo Pierre Bourdieu diceva che il linguaggio ha anche un potere simbolico, chi parla bene non solo comunica ma domina. Parlare bene, aggiungeva, non è solo un’abilità, ma una forma di capitale culturale per indicare quell’insieme di conoscenze, competenze e stili di comunicazione che contribuiscono a una forma di ricchezza non materiale, ma profondamente influente sui livelli della società. In questo contesto si inserisce il lavoro della nostra Scuola che si propone non solo come luogo di formazione tecnica, ma soprattutto come vera fucina culturale. Qui, saper parlare di vino non significa semplicemente descrivere un profumo o un sapore, ma raccontare storie, evocare territori, educare alla bellezza, offrendo l’opportunità di sviluppare le proprie passioni e aspirazioni, trasformandole in occasioni professionali, dando quegli strumenti indispensabili per competere nel mercato del lavoro, un passaggio obbligato anche per diventare veri e seri professionisti nella comunicazione enogastronomica. Significa, sviluppare il pensiero critico e la capacità di analizzare profondamente i prodotti della terra. Ma la parola deve essere semplice nei concetti, ma dire come significarli, capace di farsi comprendere, ma senza mai rinunciare alla profondità. Perché parlare bene significa pensare bene, significa trasmettere cultura, creare bellezza, dare dignità a ciò che diciamo. E nel mondo del vino, come in ogni ambito della vita, il lusso della parola può fare la differenza”.
E questo vale anche, e specialmente, nell’atto della vendita del vino “che è un atto di grandissima responsabilità in cui è racchiuso tutto ciò che è stato detto - ha sottolineato Giovanni Lai, docente di Marketing del Vino nella Scuola di Alta Formazione Fis - e che, non è solo marketing, ma ha tre diverse dimensioni: la responsabilità sociale, economica e anche filosofica. Con i primi siamo chiamati a trasferire il valore del vino che non è solo economico, ma anche sociale e culturale, in quanto strumento di socialità e dello stare insieme. L’aspetto filosofico lo lego al racconto delle sue caratteristiche e della bellezza dei territori in cui nasce come “opera d’arte liquida” che ognuno di noi fa a suo modo, ma con metodo appreso grazie alla formazione, e che va comunicato al consumatore finale facendoli ben comprendere cosa c’è dietro ad una bottiglia di vino e perché questo prodotto ha un certo prezzo, il cui valore va oltre il costo di mercato. E facendo in modo anche che l’acquisto non sia un semplice impulso o uno status symbol, ma un’esperienza legata anche al valore del tempo di un prodotto che può competere con il tempo, rappresentando magari anche un investimento. Per me questo vuol dire saperlo comunicare, ma anche saper “distribuire” il valore del vino, che è legato anche alle emozioni che può regalare alle persone”.
Altro tema che oggi, in un trend di salutismo crescente, entra in gioco ed influisce nei consumi e nelle vendite del vino è la salubrità, come ha spiegato Sara Farnetti, medico specialista in Medicina Interna PhD Fisiopatologia del Metabolismo: “io che sono un medico devo difendere la salute delle persone, ma, a volte, anche noi medici che siamo più indipendenti, facciamo fatica a pensare ma il vino perché fa male? È l’alcol, che è tossico e cancerogeno, e in eccesso fa male, ma il vino non è come il resto degli alcolici, ma l’alcol nel vino c’è. Nella storia del vino abbiamo, però, imparato a gestire il suo grado alcolico, per far in modo di poterlo bere, sempre con moderazione ovviamente. Ma non possiamo nemmeno per una minoranza che esagera con l’alcol compromettere un prodotto che è la storia del nostro Paese e non solo, e qui entra in campo la cultura perché saper comunicare bene il consumo consapevole di un prodotto di qualità è fondamentale, del vino come di tutti gli altri alimenti che lo accompagnano. E spiegando che, oggi, abbiamo il lusso di poterlo bere in modo consapevole e di poter scegliere quanto berlo, a differenza di altre sostanze dalle quali non possiamo, invece, difenderci, perché sono dappertutto. Di fronte alle “accuse” rivolte in tal senso al vino, dovreste dire che il suo modo di berlo permette di diffondere proprio il consumo consapevole, moderato ed intelligente, e noi italiani nel fare questo siamo i più bravi al mondo. Questo per ribadire che la protezione della salute nasce dalla cultura e dalla scienza, che - ha spiegato ancora la dottoressa - ci permettono di conoscere anche i benefici di sostanze come per esempio, i polifenoli, che sono presenti nel vino. E di eliminare la distanza tra i concetti di salute e di benessere, che dobbiamo, invece, combinare, perché la “longevità sana”, oltre al fatto di essere vivo e senza malattie, è legata anche alla felicità e quindi al piacere”.
“Oggi più che mai il vero lusso è la lungimiranza, cioè la capacità di fare scelte che rispettino il termine della natura, le risorse della terra, il diritto dei nostri figli e delle generazioni future a vivere in un ambiente sano - ha detto Stefano La Porta, presidente Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale - secondo il “Rapporto sul Clima del Sistema Nazionale per la Produzione Ambientale” 2024 che abbiamo presentato in questi giorni, l’anno scorso è stato ancora una volta l’anno più caldo in assoluto degli ultimi 30 anni, più 1,33 gradi centigradi in media di aumento della temperatura. È in gioco il futuro del nostro pianeta? La terra in qualche modo sopravviverà, è sopravvissuta alle glaciazioni e a tante altre cose. Quello che non siamo certi che sopravviverà è l’essere umano, è la natura, sono le specie animali. Come Istituto siamo impegnati ogni giorno a raccogliere i dati, ad analizzare i fenomeni, a orientare le politiche pubbliche perché mettano l’ambiente al centro. Il settore vitivinicolo è uno dei campi in cui questa sfida si manifesta con maggiore evidenza, parliamo di un comparto strategico per l’Italia e per l’Europa. Tra il 2020 e il 2025 l’Unione Europea ha prodotto una media di oltre 157 milioni di ettolitri di vino all’anno, oltre il 60% della produzione mondiale, e l’Italia è il primo produttore dell’Unione davanti a Francia e Spagna. I nostri vini sono ambasciatori dell’eccellenza italiana nel mondo grazie ad un progresso straordinario in termini di qualità, di innovazione e di internazionalizzazione. Mi viene in mente una frase del poeta e diplomatico francese, Paul Trudel: “il vino è la risposta della terra al sole”. Un’immagine poetica, un po’ romantica, ma che racchiude ciò che dobbiamo riconquistare, e cioè il legame profondo tra natura, clima, suolo e prodotti finali. Il vino non è soltanto una merce o una bevanda, è patrimonio culturale, è l’identità delle comunità, fattore di coesione dell’economia dei territori, è anche un vettore di base, se lo vogliamo considerare anche in questa eccezione. È cultura materiale e simbolica insieme, è spettro della nostra storia e anche della nostra biodiversità. E qui devo darvi altri dei nostri dati più recenti, secondo i quali, però, nel corso degli ultimi anni, registriamo una riduzione della disponibilità all’anno d’acqua del 18,4% sulla media storica. Il consumo di suolo procede a un ritmo ancora troppo elevato, 20 ettari al giorno. Gli incendi boschivi nel 2024 hanno colpito più di 500 kmq di superficie del nostro Paese. E gli insetti impollinatori sono oggi più che mai in pericolo e la loro scomparsa rappresenta una minaccia non solo ecologica, ma anche economica, se si pensa che il servizio di impollinazione animale alle colture agricole ha un valore stimato di 2,5 miliardi di euro in Italia e 22 miliardi in Europa. La sicurezza climatica è una priorità e osserviamo anche una forte capacità di reazione. L’Italia sta cambiando. Lo vediamo ogni giorno nelle aziende che scelgono le tecniche agronomiche a basso impatto, che investono nell’efficienza idrica, che digitalizzano il monitoraggio del sole e del microclima. E allora cos’è che vediamo davvero con l’uso della sostenibilità? Dal mio punto di vista significa soprattutto un passaggio naturale, e cioè vedere la sostenibilità non più come un costo, ma come un valore, una cultura condivisa. Significa scegliere la qualità che nasce dal rispetto, trasformare ogni gesto, dalla vigna alla bottiglia, in un atto di tutela verso il paesaggio, le risorse e le nostre comunità. E considerare ogni ettaro salvato dal cemento e ogni goccia d’acqua risparmiata un investimento per il nostro futuro. A livello europeo la recente proposta della Commissione Ue per sostenere il settore di vitivinicolo è un segnale importante, ma va guidata, migliorata, orientata, in coerenza con l’interesse nazionale e con i valori della potenza ambientale. E l’Italia, come primo produttore di vino, ha il diritto e il dovere di essere protagonista. Alcune azioni che possano essere decisive sono investire nell’adattamento climatico, nella ricerca di varietà resistenti, nell’agricoltura di precisione. E poi sostenere le comunità rurali, i giovani agricoltori e le aziende familiari. Proteggere la biodiversità. Utilizzare i vitigni autoctoni e i saperi locali. Integrare l’agricoltura nelle strategie per la transizione ecologica e per la sicurezza alimentare. I vigneti italiani non sono solo superfici produttive, lasciatevi dire che sono monumenti culturali diversi. E preservarli significa costruire il nostro futuro, la nostra economia, la nostra identità. Ogni prodotto della terra, soprattutto nel nostro Paese, racconta una storia. E quella storia, queste storie che sono le nostre, devono essere anche le storie di un’Italia che ha scelto di essere giusta, consapevole e sostenibile”.
“Soltanto l’aspetto culturale, la deontologia e la serietà dell’impegno possono trasmettere la fiducia e la sicurezza di poter formare una Nazione ricca della sua stessa ricchezza - ha concluso Franco Maria Ricci, presidente Fis e Worldwide Sommelier Association - è davvero arrivato il momento di parlare a scuola con i giovani, lo affermiamo da tempo. Di tentativi ne abbiamo fatti: Odg approvati alla Camera, Progetti di Legge, ma non sono mai arrivati al traguardo. Oggi, proviamo ancora una vota a sensibilizzare quanti, come noi, credono ancora nella possibilità di riuscire a realizzare questi sogni. Vinitaly e Fis hanno reso possibile chiamarla cultura, la storia del vino in Italia. Questo concetto lo abbiamo ben evidenziato, perché il percorso che hanno fatto insieme Vinitaly e l’Associazione - poi Fondazione - nei nostri 60 anni è stato fondamentale per la storia e la cultura del vino d’Italia. È quasi una celebrazione poter rileggere il cambiamento di questi lunghi anni nel magnifico successo di oggi di Vinitaly e Fis nelle regioni italiane e nei Paesi del mondo. È solo di pochi giorni fa la richiesta della nostra Presidenza di Thailandia di svolgere il prossimo ottobre un corso di 24 lezioni esclusivamente sul vino italiano nella città di Bangkok. A questo percorso abbiamo dedicato il Forum n. 45. Oggi, e da molti anni, il vino ha superato le barriere della qualità raggiungendo valori eccezionali. Non ce lo aspettavamo perché non avevamo ancora capito quale potesse essere il confine della piacevolezza, forse non se lo aspettava neppure chi questa qualità la produceva. Il vino è salute, è brindisi, è cultura da gustare. Il vino si beve col cuore. Il verde delle vigne copre il nostro Paese e trasmette serenità anche al Paese che oggi viene funestato da un tempo di venti di guerra. Una protezione che voi produttori avete costruito con un lusso meraviglioso, un dono incancellabile. La vigna e la cantina hanno permesso di amplificare l’amore per la Terra del Vino. I dazi, l’alcol test, il vino dealcolato, incontriamo ostacoli che ci preoccupano per la vendita nazionale e internazionale, ma ne incontrammo diversi nel passato come quello molto grave del metanolo nel 1986. Non so quanto i dazi porteranno veramente a rallentare le nostre attuali vendite, quali saranno le misure e quali di queste saranno sopportabili. Il mondo chiede il vino italiano, lo ama, lo desidera: potrà essere questo il toccasana per queste angherie. Parte delle problematiche del vino in atto negli anni le abbiamo risolte con il sapere, attraverso i corsi di qualificazione professionale per sommelier, insegnando “chi conoscere il vino sa quale è il limite” anche se, di fatto, personalmente lo ritengo in parte un falso problema, perché tutti noi abbiamo a disposizione il tempo necessario per annullare la presenza dell’alcol all’uscita del ristorante. Il vino dealcolato dobbiamo attrarlo a noi, farlo nostro, considerandolo un argomento non da aggredire ma da trattare, perché dovrà essere materia di lavoro per i produttori di qualità, facendo attenzione a non farcelo scippare dalle bibite e dai succhi di frutta. C’è poi un turismo del vino che ha donato alla gente il piacere di conoscere ed apprezzare i produttori, permettendo loro di raccontare il proprio lavoro e infondere sicurezza, e far sentire con una stretta di mano il vino più buono, mostrando il valore del loro lavoro. Il vino vale il viaggio e diventa il lusso del lusso del vino. Il vino è il resort delle “Camere su Vigna” per un altro abitare, un condominio di lusso per uno spazio del piacere. Una guida che cambia l’Italia. Un’Italia che non c’era. Il turismo del vino con i suoi 18 miliardi di euro di fatturato ha sbalordito gli amanti del Pil che lo controllano per sapere dell’Italia che cresce. Una cosa è certa: il vino ci darà ancora la possibilità di farci parlare di lui e continuerà ad essere sempre la compagnia garbata della nostra vita”.
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