“Dobbiamo considerare l’anfora non tanto un contenitore, ma come uno strumento di comunicazione importantissimo. Siamo di fronte a consumatori che bevono più con il cervello che non con la bocca e dobbiamo affrontare il tema drammatico del cambiamento dei gusti nei confronti delle bevande”. E’ la visione di Attilio Scienza, tra i massimi esperti di viticoltura ed enologia e direttore scientifico Amphora Revolution, la prima rassegna dedicata ai vini in anfora a Verona (Gallerie Mercatali) firmata Merano WineFestival e Vinitaly, di scena ieri ed oggi. “La storia della rivoluzione delle bevande - racconta Scienza, a Winenews - si ripete da centinaia di anni. Tra il Quattrocento e il Seicento è stata determinata da una serie di fenomeni simili a quelli che si stanno verificando oggi. Cambiamento climatico, guerre, cambiamenti sociali e così via. In questo contesto l’anfora è una metafora, un cavallo di troia per convincere i consumatori giovani, ma non solo, a ritornare al vino in un contesto in cui dell’alcol si ha paura e si evita per motivi salutistici. Per il vino, che ne contiene meno dei superalcolici peraltro bevuti dai giovani, possiamo esorcizzare questa paura soltanto con la cultura, facendo comprendere che migliaia di generazioni lo hanno bevuto senza conseguenze e che il vino è stato nella storia un grande stimolo culturale. In questo quadro, l’anfora permette di superare anche la prevenzione verso un’enologia percepita come interventista, perché dà un vino come si faceva 500 anni fa. L’anfora crea l’occasione per un discorso culturale legato alle origini, alla storia fino ad elementi di psicoanalisi che è difficile da fare circa i vini attuali”.
La grande potenzialità di questa tipologia, quella dei vini prodotti in anfora, anche se molto variegata, è dimostrata dalla crescita delle etichette e delle aziende che le propongono. In Italia si conterebbero oltre un migliaio di produttori di vini elaborati in giare di terracotta, con molte modalità di vinificazione, ma decisamente di più sono coloro che stanno valutando questo strumento/contenitore che spesso è presente in cantina come “osservato speciale” per esercitarsi a “vedere l’effetto che fa” sulle caratteristiche del vino.
Dopo che le anfore di provenienza georgiana sono state portate e utilizzate in Italia dal vignaiolo precursore di Oslavia, Josko Gravner, a fine Anni Novanta del Novecento, si è consolidato il binomio anfora-vini orange. A distanza di quasi 30 anni i contenitori declinati in diversi materiali e in differenti forme e la diversificazione delle tecniche di vinificazione hanno svincolato il vino da una tipologia specifica di profilo sensoriale, ma l’impressione è che ci sia, come accade all’inizio di una nuova epoca, una sorta di dicotomia. Da un lato, c’è chi li utilizza in virtù della loro “gentilezza” nei confronti delle uve, ritenendo di esaltare così il binomio varietà-territorio senza interferenze di sostanze rilasciate dal legno, ma con un calibrato scambio di ossigeno, che l’acciaio non consente, un buon isolamento termico come in cemento, oltre che una lunga durata che li rende sostenibili. Dall’altro, c’è chi li usa proprio per la “cifra” che conferiscono ai vini, una sorta di denominatore comune che dichiara organoletticamente il metodo di produzione quali che siano gli “ingredienti” di partenza. È chiaro che questa è una schematizzazione spinta, perché a determinare i risultati ci sono le caratteristiche anche molto differenti tra i materiali di costruzione - le argille e gli altri materiali di partenza sono diversissimi tra loro - e la conduzione della vinificazione. Peraltro quest’ultima viene declinata in modo assolutamente personale: vini prodotti integralmente in anfora e anche in modi diversi, per esempio in terra o fuori terra, e altri per cui l’utilizzo è riservato solo a una fase della elaborazione del vino. In questa “terra di mezzo” anche l’aspetto della comunicazione dei vini raccolti sotto la dicitura “in anfora” - che a questo punto risulta generica - rischia la dicotomia, ma trova un comune denominatore nella storia remota che li lega alla contemporaneità. “La comunicazione dei vin in anfora - prosegue Attilio Scienza - racconta che non si tratta di prodotti globalizzati frutto di un’enologia pesante e per questo definiti a torto “naturali”. Rispondono alla domanda di un vino il più possibile non inficiato dalla mano dell’uomo. La parola di riferimento è l’anfora, tant’è che sulle bottiglie non viene quasi mai indicato il vitigno, né di solito i territori di provenienza e molto raramente la denominazione di origine. Si tratta di prodotti in qualche modo “contingenti”, in evoluzione per capire come affinarne la produzione perché non ci sono le sapienze antiche a guidare la mano dei produttori. Ad “Amphora Revolution”, tra le altre cose, i produttori hanno occasione di assaggiare reciprocamente i loro vini e di confrontarsi sulle tecniche, quindi di avere un momento forte di confronto, presupposto per la crescita e per un grande salto di qualità dei vini. Inoltre la manifestazione - aggiunge il professor Scienza - sarà uno stimolo per tutti i produttori che usano già le anfore quasi in “clandestinità” per venire allo scoperto, oltre che, ovviamente, per far conoscere i vini in anfora ai consumatori”. Parlando con alcuni degli oltre 100 produttori presenti ad “Amphora Revolution”, con il loro vino nel bicchiere, il racconto, tuttavia, verte decisamente sui vitigni, quasi sempre autoctoni, e sulle peculiarità del territorio di produzione, a significare che una “fusione” delle due tendenze che fanno prevalere il contenitore sul contenuto, o viceversa, è in atto.
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