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DAL TALK SHOW DI MONTALCINO: “LA TOSCANA APRIPISTA DELL’ENOLOGIA ITALIANA … MA OGGI E’ INDISPENSABILE IL GIOCO DI SQUADRA DI TUTTO IL CENTRO-ITALIA”

Italia
Quando il vino fa spettacolo ... il talk show "Vino: viaggio al Centro Italia" a Montalcino

La Toscana ha il merito di aver fatto capire al mondo che l’Italia è un Paese di grandi qualità enologiche. Ma, adesso, è arrivato il momento di valorizzare meglio il mondo del vino: servono maggiori informazioni al cliente, si deve spiegare il terroir, la vigna, la filosofia del produttore. E questo “fil rouge” deve anche tenere legate le migliori regioni vitivinicole: “un gioco di squadra che deve interessare almeno i migliori dell’Italia centrale”. E’ un po’ questo lo “slogan” che esce dal talk show “Vino, viaggio al Centro dell’Italia”, organizzato oggi a Montalcino dalla Camera di Commercio di Siena, che ha visto la partecipazione di importanti protagonisti del mondo del vino (Donatella Cinelli Colombini, Guido Sodano della SaiAgricola, Jacopo Biondi Santi, Giancarlo Pacenti, Enrico Viglierchio della Castello Banfi, per il territorio di Montalcino; Marco Caprai, per l’Umbria; Massimo Bernetti della Umani Ronchi, per le Marche; Riccardo Cotarella della Falesco, nonché winemaker di livello mondiale, per il Lazio; Gianni Masciarelli e Dino Illuminati, per l’Abruzzo; i due famosi enologi Ezio Rivella e Carlo Ferrini). Ma al talk show, condotto da Carlo Cambi de “La Repubblica” e da Antonio Paolini de “Il Messaggero”, che ha interessato anche un folto numero di produttori, tecnici, enologi e giornalisti, molti altri sono stati gli spunti per una riflessione sul mondo del vino italiano, sempre più proiettato verso le alte vette del mercato mondiale.

Marco Caprai, viticoltore che ha rilanciato il Sagrantino di Montefalco, ha spiegato che “ci stiamo ponendo con ritardo al rinnovamento del vigneto Italia. Pochissime sono le aree che hanno intrapreso questa strada e poche anche le selezioni clonali. Si conosce ancora scarsamente la potenzialità vitivinicola dell’Italia. Le Istituzioni dovrebbero porsi come interlocutori più presenti e preparati per accompagnare concretamente il rinnovo del mondo del vino italiano”. Donatella Colombini Cinelli, imprenditrice di Montalcino nonché fondatrice del Movimento Turismo del Vino, oltre a ricordare la necessità di una nuova fondamentale comunicazione del vino, ha detto che “il successo del vino passa anche attraverso il turismo e che è più facile avere successo se c’è una rete di cantine in grado di ben gestire l’enoturismo”. Riccardo Cotarella, l’enologo “cult” negli Usa e produttore super-celebrato dal guru del vino nel mondo Robert Parker, ha, invece, spiegato che “non è il produttore ad essere fortunato a trovare un’area vocata, ma la zona a trovare un produttore vocato: io credo che alcuni produttori toscani avrebbero fatto la fortuna anche di altri territori enologici italiani. Nel Lazio, ci siamo svegliati tardi, questa la nostra grande colpa: per anni abbiamo continuato a piantare Malvasia, Trebbiano … perché sostanzialmente puntavano esclusivamente alla quantità. Dobbiamo essere coscienti e freddi nell’autocritica. Nel Lazio, come del resto in altre parti d’Italia, non siamo riusciti a sfruttare le grandi potenzialità dei vitigni autoctoni, abbandonati completamente per anni (Merlot di Aprilia, Nero d’Avola, Negroamaro, Primitivo, Aglianico …). Giancarlo Pacenti, uno dei più piccoli ma raffinati vignaioli di Montalcino, ha invece confermato la bontà “dell’intuizione di Biondi Santi di sviluppare il connubio Sangiovese e Montalcino. Oggi è però importante anche la libertà di tutti noi con disciplinari che non ci danno troppo spazio per sviluppare il Sangiovese nelle sue diverse espressioni: abbiamo imposto tipicità che non erano reali o peggio ancora nascondevano in realtà difetti. Bisogna, comunque, continuare a cercare di arrivare a fare grandissimi vini con la particolarità del Sangiovese (e non credo agli aiuti dei vitigni internazionali per Montalcino). Quale modello ideale per il vino ? Io tendo a guardare in avanti e questo mi ha spinto cercare la consulenza dell’Università di Bordeaux”.

Un altro aspetto importante, emerso dal “talk show” di Montalcino, è il fatto che nell’enologia italiana si deve introdurre una classificazione che consideri alcune etichette “indiscutibili” (come avviene per le grandi maison francesi): “la produzione media qualitativa italiana - ha detto il giornalista Carlo Cambi de “La Repubblica” - è più elevata di quella francese, ma i francesi costruiscono attorno alle loro cantine il mito. L’enologia italiana non ha avuto il coraggio di fare questa scelta e di creare una barriera di intoccabilità su alcune etichette o alcune denominazioni. E se ad un vino togli quella connotazione di cultura, storia, immaginario che gli conferisce un valore aggiunto fondamentale, allora diventa facile non trovare più differenze e rendere tutto omogeneo. Non siamo, insomma, riusciti a salvaguardare i miti del vino italiano”. L’abruzzese Stefano Illuminati, che ha riconosciuto la leadership del territorio di Gianni Masciarelli (“è grazie anche ai suoi consigli che è iniziata l’evoluzione graduale della qualità dell’Abruzzo”), pur riconoscendo la necessità di collaborazioni tra imprese ed istituzioni nel Centro Italia, ha tenuto però a precisare che “prima di fare sinergie fra regioni, c’è da migliorarci all’interno della regione”.

Ma, di sicuro, uno degli interventi più importanti e “decisi”, è stato quello dell’enologo Carlo Ferrini: “bisogna ragionare concretamente sulle mete ottenibili non impossibili. In Borgogna, si è fatta la scelta del monovitigno ma, con estremo rigore, sull’autorizzazione delle aree viticole. A Bordeaux, invece, giocano con diversi vitigni a seconda dei diversi territori. Io, personalmente, amo il territorio più del vitigno. La vera enologia italiana di qualità, diciamo la verità una volta per tutte, è nata negli anni ’90; in Francia ci sono studi sul suolo e sul clima di oltre 100 anni fa, e da noi ancora non ci sono studi completi. I progressi maggiori, per essere ottimisti, l'Italia li ha fatti negli ultimi 20 anni; progressi fatti però su vigneti già esistenti e solo dal ’90 si è iniziato ad investire su nuovi impianti. I risultati più importanti non li vedremo prima di 15 anni. E la crescita avverrà in Italia anche grazie l’utilizzo di vitigni internazionali. Oggi la doc e la docg lega le mani al produttore”. Il giornalista Andrea Gabbrielli ha spiegato che “all’Italia serve un maggiore orgoglio: la nostra enologia ha fatto in questi anni passi da gigante. Basta con questo senso di inferiorità nei confronti della Francia (a Bordeaux le colline più alte non arrivano a 200 metri slm) e tolte le 30 aziende di punta, il resto è decisamente inferiore alle nostre produzioni medie. Anzi, non ci sono paragoni. Oggi stiamo ad uno stadio differente rispetto a quanto gli stessi produttori italiani affermano e pensano”. Massimo Bernetti, il produttore del “Pelago (il vino, creato dal famoso enologo Giacomo Tachis, che ha rilanciato i rossi delle Marche), ha invece spiegato che “tre sono i fili conduttori della vitivinicoltura dell’Italia centrale: sviluppare il turismo del vino, con le diverse culture rappresentate, stimolare le Istituzioni nell’ottica della nuova Ocm vitivinicola e dare forza alla “zonazione” per conoscere meglio i nostri territori e scegliere così le aree dove investire”. Enrico Viglierchio, direttore generale della Castello Banfi, da parte sua, ha ricordato come l’investimento dell’azienda leader del Brunello “ha dimostrato che la qualità può non essere legata esclusivamente alla piccola dimensione. Castello Banfi è riuscita a fondersi nel territorio di Montalcino, con armonia e dimostrando che anche una grande azienda può fare qualità, ed avere potenzialità in più, su certi aspetti, per poter fare, ad esempio, studi di zonazione o selezioni clonali, ma anche marketing e comunicazione”. Tra i più accesi sostenitori dell’importanza del territorio su tutte le sue valenze, da quelle climatico-pedologiche a quelle culturali, è stato Jacopo Biondi Santi: "nella mia nuova avventura con il Morellino di Scansano in Maremma, ho messo come priorità l’analisi completa del territorio, in cui da tre anni sto investendo moltissimo. E anche qui sto scoprendo come già mi era capitato a Montalcino l’incredibile influenza del terroir nei confronti del vitigno, al punto tale che si può quasi affermare che il terroir determina mutazioni del vitigno. “La nostra vitinicoltura - ha continuato Jacopo Biondi Santi - ha bisogno di ulteriori supporti di ricerca e la zonazione deve diventare un must per tutte le aree vitivinicole del nostro Paese”. Sull’idea che possa esistere un filo comune nell’enologia dell’Italia Centrale è convinto anche Gianni Masciarelli, la bandiera dell’enologia abruzzese nel mondo: “si possono trovare sinergie - ha detto Masciarelli - ma ognuno è portatore della sua personalità. Nessuno, infatti, può accusare l’Abruzzo di copiare il carro dei vincenti: noi siamo convinti dei nostri mezzi e con questi vogliamo combattere la battaglia per crescere ulteriormente. Ciò non toglie che scambi di informazioni con altri produttori di altre regioni sono fondamentali per questa crescita”.
L’enologo-manager Ezio Rivella ha invece puntato la sua attenzione sul fatto che “per la crescita dell’enologia italiana servono sì strategie, ma anche notevoli disponibilità economiche” e sull’aspetto che “per fare funzionare la doc serve un progetto chiaro: in Italia abbiamo 200 doc che non servono a nulla e sono solo denominazioni “politiche” nate come doc di quantità e basta. Oggi bisogna fare vini per intenditori. Molti confondono la doc con la tipicità, con vini che devono essere tutti uguali e questo è assurdo e sbagliato. Nessun disciplinare francese impone le percentuali dei vitigni, ma il viticoltore è libero di scegliere su un gruppo di vitigni. Come pure assurde sono le imposizioni di cantina, quanti mesi in barrique o meno, ognuno deve esprimere la sua personalità. Sono i disciplinari più elastici quelli che danno maggiori interpretazioni. Inutile cambiare il mito del Brunello che va salvaguardato, ma se si vuole fare un vino più fruttato c’è la doc Sant’Antimo".

Alla fine del talk show, quindi, nessun messaggio concreto per la creazione di un progetto comune della vitivinicoltura dell’Italia centrale, ma la sensazione che la lingua dei grandi produttori di vino italiani sta diventando sempre più unica: senza squadra si perde tutti.

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