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Dossier WineNews, “50 anni e non sentirli”: cronistoria di mezzo secolo di vino italiano, a 50 anni dal riconoscimento delle Doc e dalla nascita di Vinitaly. Aspettando l’edizione n. 50 (Verona, 10-13 aprile), ecco le tappe salienti del vino italiano

Italia
Paolo Desana primo firmatario della legge sulle Doc nel 1963. Nel 1966 arrivarono poi le prime Denominazioni di Origine del vino italiano

Negli ultimi 50 anni il comparto vitivinicolo del Bel Paese non solo ha fatto emergere un graduale e costante miglioramento qualitativo del prodotto vino, con conseguente scalata dei mercati internazionali, ma anche un’evidente crescita del contesto culturale in cui questo comparto si è mosso. Un processo, quest’ultimo, capace di generarne uno nuovo, ulteriore e decisivo, tutto all’interno di un fenomeno di rimodellamento della domanda stessa. Basti pensare all’effetto che ebbe negli anni Sessanta dello scorso secolo, il fenomeno del “boom” economico legato all’industrializzazione e al crescente benessere della popolazione, al fine della creazione di un nuovo tipo di domanda. Non serviva più un vino con delle caratteristiche di alimento povero sia dal punto di vista delle caratteristiche organolettiche che del prezzo, ci voleva un “nuovo” vino, di qualità più elevata e in grado di rispondere alle mutate esigenze dei consumatori, italiani e stranieri. Il passaggio epocale, da una società prevalentemente agricola ad una industriale, mise a dura prova il settore vitivinicolo, che entrò in crisi, con i prezzi dei vini in flessione e, all’orizzonte, i consumi pro-capite cominciarono a flettere. Solo una progressiva modernizzazione, se pur non omogenea, dette una spinta alla viticoltura specializzata contro quella promiscua, mentre le tecniche agronomiche ed enologiche si raffinarono in misura non trascurabile, insieme alla comparsa di nuove realtà produttive. Nella cronistoria di mezzo secolo di vino italiano, siamo solo all’inizio: a ripercorrerla, è un Dossier WineNews, uno dei siti più cliccati dagli amanti del buon bere, a 50 anni dal riconoscimento delle Denominazioni di Origine e dalla nascita di Vinitaly, aspettando l’edizione n. 50 della rassegna internazionale di riferimento del settore (Verona, 10-13 aprile; www.vinitaly.com).
È proprio in questo inizio, negli anni Sessanta del Novecento, che si pongono le basi per il “Rinascimento” del vino italiano. Le superfici vitate dell’Italia crebbero in modo significativo, grazie ai piani Feoga (Fondo Europeo di Orientamento e di Garanzia Agricola), pensati per un aumento quantitativo della produzione viticola ma, ancora, non qualitativo. In quegli stessi anni, se molto si stava muovendo dal lato produttivo, molto si mosse anche dal lato legislativo, a conferma di un fermento capace di estendersi anche fuori dalla mera produzione. Nel 1963 venne introdotta la prima legge (n. 930) sulle Denominazioni di origine, che aveva come primo firmatario il Senatore Paolo Desana che, di fatto, rimise in moto un processo e un settore che ormai sembrava ben poco competitivo (un nuovo riconoscimento veniva assegnato a vini prodotti in zone limitate secondo disciplinari ben precisi, che riportano il rispettivo nome geografico e talvolta anche quello del vitigno). Un percorso legislativo a cui senatori e deputati del Centro e del Sud Italia erano contrari, convinti di non fare gli interessi delle loro Regioni conosciute come produttrici soprattutto di uve e vini da taglio, senza immaginarsi che proprio la politica della qualità avrebbe rappresentato per meravigliose Regioni, quali la Sicilia, la Puglia e la Campania, il biglietto da visita per ipotecare un futuro di successo internazionale. Il 1 novembre 1966 entrarono in vigore i disciplinari delle prime quattro Doc italiane, riconosciute da un decreto del Presidente della Repubblica del 3 marzo 1966: la Vernaccia di San Gimignano, l’Est! Est! Est! di Montefiascone, l’Ischia bianco, l’Ischia e il Frascati a cui seguirono, nello stesso anno, Brunello di Montalcino, Barolo, Barbaresco e Vino Nobile di Montepulciano, e, di lì ad un paio d’anni, l’istituzione di tutte le altre maggiori Denominazioni italiane (l’introduzione delle Docg, invece, arrivò agli inizi degli anni Ottanta).
Si innescava in questo modo un ripensamento complessivo del ruolo del vino a partire dai modi di produzione (nel vigneto e in cantina), del riferimento ad un nuovo target di consumatori e di un primo, seppur limitato, utilizzo della pubblicità e della promozione. Anche se in modo contraddittorio e in qualche misura nascosto, una pattuglia, benché sparuta, di produttori già in quell’epoca aveva intrapreso un percorso virtuoso. Insomma, il cosiddetto “Rinascimento” del vino italiano, attribuibile ai successi ottenuti nella seconda parte degli anni Ottanta, era già in atto, in modo forse sotterraneo, ma comunque effettivo, muovendosi in parallelo alla nascita e al successo di quei prodotti che comprendiamo normalmente nella categoria di “made in Italy”. È il caso, solo per citare gli esempi più clamorosi, dei vini di Angelo Gaja, del Tignanello di Antinori (prima annata 1971) e del Sassicaia della Tenuta San Guido (prima annata 1968), quest’ultimi protagonisti del successivo fenomeno dei Supertuscan. Sarà però negli anni Settanta che cominceranno una graduale e generalizzata diminuzione dei vini di basso livello qualitativo e una modifica delle principali caratteristiche organolettiche, per adeguare i prodotti del Belpaese all’evoluzione delle esigenze dei mercati nazionali ed esteri. La prima edizione del Vinitaly del 1967 si svolse dentro il Palazzo della Gran Guardia a Verona. È però nel 1971 che la grande rassegna prende il nome con la quale è conosciuto in tutto il mondo e sette anni dopo, nel 1978, si apre anche alle aziende estere. Durante gli anni successivi la storia del Vinitaly, una delle più grandi fiere del mondo del vino, si arricchisce sempre di più di eventi che la rendono oggi un appuntamento immancabile per tutte le cantine italiane.
Con gli anni Ottanta, anche la comunicazione del mondo del vino subì una decisa rivoluzione. Un percorso accompagnato anche da personaggi, come Mario Soldati, protagonista assoluto dal Dopoguerra a tutti gli anni Settanta, e, soprattutto, Luigi Veronelli, che già avevano accettato la scommessa che al di là del prodotto c’era un mondo culturale tutto da scoprire e diffondere. Ma l’Italia enoica incontrò anche il suo “annus horribilis”, il 1986, dove sembrò interrompersi tutto. La tragedia del metanolo segnò indelebilmente le vicende del vino italiano, tracciando un vero e proprio spartiacque tra il prima e il dopo. Il dopo metanolo è stata una delle più straordinarie riscosse dell’economia italiana, portata avanti da una classe imprenditoriale decisa non solo a cancellare gli effetti di quella tragedia, ma a portare il vino italiano nel gotha dell’eccellenza qualitativa mondiale. Una riscossa che ha avuto tra i suoi protagonisti anche chi produttore di vino non era. Iniziano, infatti, proprio in quegli anni, altre straordinarie storie, nel contesto culturale in cui il vino italiano si stava muovendo e si sarebbe mosso nel futuro. Proprio nel 1986, il primo nucleo di Slow Food prendeva forma con il nome di lega Arcigola e nello stesso anno usciva il primo numero di “Gambero Rosso”, supplemento di otto pagine all’interno del quotidiano “il manifesto”, mantenendo proprio con l’organizzazione di Bra un rapporto privilegiato e testimoniato dalla nascita della guida “Vini d’Italia” (prima uscita nel 1988), probabilmente una delle pubblicazioni, forse la più importante, per l’educazione al bere degli italiani. Una rivoluzione silenziosa nel mondo stesso di consumare e nella stessa percezione del consumo. La nascita cioè dei consumi cosiddetti “postmoderni”, stimolati da modelli culturali nuovi, direttamente collegati all’estetica e ad una rinnovata attenzione sensoriale, nonché ad un recupero di quella “cultura materiale” che il boom economico degli anni Sessanta aveva in parte cancellato. In poco meno di trent’anni dunque il mondo del vino italiano compie una “traversata nel deserto” senza precedenti, un balzo clamoroso sia dal punto di vista dell’immagine sia da quello qualitativo, competitivo e culturale raggiungendo e, talvolta, superando gli standard del modello per eccellenza: quello francese. Produrre vino diventò più facile grazie ad avanzamenti tecnologici e conoscenze enologiche in continuo divenire. L’Italia enoica accanto al rilievo sempre più riconosciuto internazionalmente, prendeva, e siamo agli anni Novanta, coscienza anche dell’enorme patrimonio rappresentato dai suoi vitigni di antica coltivazione e iniziava a contrapporre al modello francese, dove si puntava ad un numero limitato di vitigni, rischiando però di massificare i gusti, un processo di diversificazione varietale, capace di innescare una domanda più articolata e che avrebbe, successivamente, dato l’avvio ad una domanda più complessa e ad una territorializzazione del prodotto, capace di produrre nuovi significati per il vino stesso, sempre più legato ad una ricerca continua della novità. Si sviluppano vini di territorio e di vitigno, in diversi areali italiani, vengono avviate indagini volte al recupero di vitigni di antica coltivazione. Si approfondivano e si consolidavano conoscenze e competenze estremamente specifiche, relative ai nuovi processi di vinificazione calibrati ad hoc per i “nuovi” vitigni. Si riconoscevano, finalmente, le eccellenze e le particolarità dei territori, dalle Langhe a Montalcino, passando per la Valpolicella, solo per fare gli esempi più celebri. Il marketing entrava a pieno titolo nel mondo della produzione vitivinicola e le sue tecniche venivano applicate al prodotto, al packaging, ai punti vendita, fino ad arrivare ai luoghi della produzione del vino, le cantine. Si tratta di quella spinta propulsiva che portò alla ribalta mondiale l’Italia della moda, del design, dell’agroalimentare e, appunto, del vino. Con scelte segmentate e differenziate dei consumi non più solo operate in funzione dei bisogni, ma anche sollecitate da nuovi desideri, da ragioni estetiche, dal gusto, dalla curiosità, dall’esperienza sensoriale e così via. Ed è così che il bello e il buono diventano i fattori fondamentali di una scelta, del consumo e il made in Italy, anche un nuovo modello di lifestyle.
Un complesso e inedito paradigma esistenziale cominciava a farsi strada e il comparto vitivinicolo del Bel Paese lo seppe, proprio a partire dalla metà degli anni Ottanta, tradurre in un aspetto non secondario del proprio successo, grazie anche al suo contesto culturale, in grado, a sua volta, di trasmetterlo ai consumatori finali, chiamati anch’essi a compiere un salto di qualità, creando così una sorta di circolo virtuoso tra domanda e offerta. Quest’ultima, “obbligata” a compiere un altrettanto importante salto qualitativo, evidentemente, in prima battuta a livello di prodotto e, successivamente, anche su tutta una serie di altri ambiti. Il vino non svolge più la funzione di un tempo, cioè di essere un alimento indispensabile, o quasi, sulle tavole. Oggi, occupa una dimensione molto più raffinata, rarefatta e culturale, un nuovo ed importante ruolo che ricopre nell’economia e nell’immagine del nostro Paese.

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