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GIANNI ZONIN RACCONTA LE SUE “PRIME” CINQUANTA VENDEMMIE: “COSÌ HO VISTO CAMBIARE IL VINO ITALIANO. IMPEGNO COSTANTE E OSTINATO, BASATO SUL LEGAME PROFONDO E INSCINDIBILE CON LA TERRA E CON LA VIGNA E SULL’INCESSANTE RICERCA DELLA QUALITÀ”

Gianni Zonin Vineyards
Gianni Zonin, uno dei più grandi e famosi imprenditori di vino italiano

Gianni Zonin compie quest’anno cinquanta anni di attività nell’azienda di famiglia. Cinquanta vendemmie che hanno cambiato il vino italiano. Verrebbe da citare al proposito il titolo di un libro di Enzo Biagi, Testimone del tempo. E, proprio per ripercorrere l’evoluzione della produzione vitivinicola nazionale, alla vigilia di un Vinitaly, dal 29 al 2 aprile a Verona, che si annuncia come sempre decisivo per comprendere sviluppo del mercato, gusti dei consumatori, azioni delle cantine che Winenews ha incontrato, oggi a Taormina, nel Forum internazionale di Confagricoltura, uno dei più grandi imprenditori dell’Italia del vino.
Cavalier Gianni Zonin, lei è davvero un testimone del tempo del vino. Compie cinquanta anni di attività nell’azienda che, fondata da suo zio Domenico, ha portato ad essere una delle protagonisti in Italia, in termini di produzione e di vigneto (oltre 1.800 ettari vitati). Ricorda gli esordi? E ci aiuta a comprendere com’è cambiato il vino italiano?
“I miei esordi sono quelli di un ragazzo che per i tempi a cui mi riferisco era fortunato. Dopo la maturità conseguita nell’Istituto Enologico di Conegliano cominciai già nell’estate ad entrare in azienda al fianco di mio zio Domenico. E ricordo che già prima del diploma mio padre, mi mandava a visitare i clienti per fare esperienza. Ho sempre respirato il profumo del vino. Era un’Italia ben diversa, si bevevano ancora oltre cento litri di vino a testa.
Ma il primo problema che c’era allora era di trovare operai che accettassero di lavorare la vigna. L’industria chiamava braccia e prometteva salari sicuri. In campagna non voleva stare nessuno. Ma certo il vino di allora era di qualità modesta. Si vendeva in damigiane o botti e ad imbottigliare erano pochissime aziende. Quello che contava maggiormente era la quantità.
Allora, la Zonin era un’importante azienda di commercializzazione. Avevamo un po’ di vigna, il nostro storico Podere il Giangio, ma compravamo il vino soprattutto da altri piccoli produttori. E avevamo una nostra specialità: eravamo i più importanti distributori di vino bianco in Italia. Anche perché il mercato chiedeva più rosso e gli altri concorrenti ci avevano lasciato campo libero. Forse anche per questo, anni più tardi mi venne naturale guardare al Friuli Venezia Giulia, che è la patria dei grandi bianchi italiani”.
Lei dice: si guardava più alla quantità. E quando è nata la percezione che si doveva puntare alla qualità?
“Forse è difficile individuare un momento preciso. Credo che sia stato un processo lento ma incessante, indotto anche dal mutamento dei consumi. Negli anni sessanta la Toscana era la terra promessa del vino. Poi cominciò ad emergere il Piemonte e successivamente il Veneto. Il vino in Italia si è sempre mosso un po’ per mode e per andamenti ciclici.
Pensiamo al Sud: allora era un giacimento di polifenoli e di grado alcolico. Serviva per tagliare i vini francesi e italiani, non badava a fare qualità. Del resto erano gli anni nei quali in trattoria al massimo ti chiedevano: bianco o rosso. Ed erano gli anni in cui i professori ti facevano piantare non le migliori selezioni clonali, ma le più produttive. E tuttavia dal punto di vista di tecnica enologica noi non eravamo secondi ai francesi. Era in campagna che eravamo arretrati.
Me ne accorsi in un primo viaggio in Francia. Io avevo l’abitudine di fare ogni anno un viaggio di studio: mi sono girato tutta l’Italia, sono stato tra i primi ad andare in America ed in Australia, poi in Francia, in Germania infine in Argentina e molto più tardi in Cile. E da ogni viaggio riportavo idee, soluzioni, spunti per migliorare la qualità. Fu proprio da un viaggio in Francia che mi accorsi che per dare sviluppo alla Zonin dovevamo cominciare a produrre in proprio il nostro vino. E cominciai a comprare terra vocata per la vigna. Come ho detto in Friuli, a Ca’ Bolani, poi venne Castello d’Albola nel Chianti Classico, che decisi di comperare appena la vidi. C’era stata la grande crisi del Chianti e forse fu proprio quella crisi a determinare la svolta da quantitativa a qualitativa”.
Quali sono state le esperienze che lei ha importato dai suoi viaggi e che hanno cambiato il vino italiano? “Ne cito quattro perché sono state quelle che hanno determinato il salto di qualità della Zonin, che ha contribuito anche a cambiare il vissuto del vino italiano. La prima esperienza l’ho già detta: comprendere che serviva avere la vigna per produrre bene e comprendere che il vino doveva essere migliorato, prima nel vigneto e poi in cantina. E’ del pari vero che da quel viaggio in Francia ricavai l’impressione che le nostre cantine erano disordinate, male organizzate. Che era necessario dare un criterio produttivo e logico a tutte le fasi di vinificazione.
La seconda esperienza decisiva l’ho fatta in America. Era il 1961. Mi accorsi che erano trenta anni indietro come tecniche di vinificazione e di cantina, ma avevano cominciato a fare marketing e vendere meglio. Tant’è che nel 1965 feci il nuovo marchio Zonin e la prima vera campagna pubblicitaria del nostro vino in Italia. Scoprii allora che se era importante produrre era fondamentale fare marketing e avere una precisa strategia commerciale per migliorare le posizioni sul mercato e creare le premesse per la futura espansione.
La terza esperienza fondamentale la feci in Australia. Anche lì mi accorsi che non facevano qualità, ma avevano inventato il primo sistema di controllo delle temperature in fermentazione. Era rudimentale ma efficace. Lo portai subito in Italia e feci costruire i primi fermentini a controllo di temperatura. E sempre dall’Australia portai un altro apparecchietto che serviva per misurare la quantità di ossigeno nel vino. L’ossidazione del vino era in Italia uno dei problemi più sentiti dai produttori. Ebbene quell’apparecchietto che mi fu tarato a San Michele all’Adige dal professor Giulio Margheri che, con il professor Franco De Francesco, avevano creato lì il più bel laboratorio d’analisi d’Italia e d’Europa, ci consentì di migliorare tantissimo la qualità e la serbevolezza del vino. Erano gli anni in cui spuntavano i primi gascromatografi, in cui la biochimica diventava fondamentale per comprendere i processi evolutivi e fermentativi del vino. Tutte cose che io avevo studiato e che però non erano ancora cultura comune tra i produttori.
La quarta grande esperienza la maturai dal viaggio in Argentina. Vedevo le loro immense estensioni e mi ponevo il problema di come l’Italia, con le proprietà tanto frazionate, avrebbe potuto resistere nella competizione con i costi estremamente più alti. E allora - come ho detto - non si trovavano neppure più operai agricoli. Così quando l’ingegner Benini, il fratello di Isi Benini che è stato un giornalista-poeta del vino, mise a punto per la Zanussi la prima vendemmiatrice meccanica io la comprai subito. Era un mezzo disastro eppure delineava già una soluzione per il futuro delle attività vendemmiali in Italia. Ho seguito costantemente, cercando di migliorarle, le evoluzioni delle vendemmiatrici meccaniche così come le forbici pneumatiche per la potatura che feci realizzare da un fabbro di Cervignano, in Friuli. Ci dettero un enorme vantaggio in campagna e migliorano tantissimo la qualità del lavoro - e aggiungo: della vita - dei nostri dipendenti. Ecco tutte queste tappe, secondo me, hanno segnato un’evoluzione produttiva fondamentale per il vino Italiano. E poi c’era sempre la mia idea di comprare aziende agricole vocate per la viticoltura per controllare tutte le fasi di produzione e tendere alla massima qualità”.
E poi venne lo scandalo del metanolo. Ha cambiato le cose?
“Assolutamente sì, ma devo dire che lo scandalo del metanolo costrinse i produttori a puntare decisamente alla qualità, ma più ancora li costrinse ad un nuovo approccio con il mercato. I consumi del resto già si stavano notevolmente restringendo ed era necessario ricostruire la cultura del vino. Furono quegli gli anni in cui l’Unione Italiana Vini ebbe un ruolo decisivo non solo nel difendere le aziende, ma nel promuovere un consumo più consapevole di vino e una produzione più attenta. Credo che oggi ci sarebbe bisogno di un eguale impulso per vincere però la sfida non più sul mercato interno, ma nel mercato globale.
Dal metanolo in poi iniziarono ad emergere nuove regioni del vino in Italia, si cominciò a prestare attenzione alle guide, alla sommellerie, iniziò una comunicazione più attenta e qualificata sul vino, il consumatore divenne più protagonista e consapevole. E soprattutto cominciammo ad essere più aggressivi nella commercializzazione all’estero. Ma basterebbe ripercorrere la storia del Vinitaly per vedere come vi fu un momento di passaggio.
Si dice che dalle crisi si esce comunque diversi: non ho paura a dire che dalla crisi del metanolo il vino italiano uscì migliore. Insomma lo scandalo del metanolo contribuì ad accelerare il passaggio all’epoca moderna della produzione e del consumo di vino in Italia. Ma le premesse erano state poste almeno un decennio prima. Come ho detto con le nuove tecniche colturali, con le nuove capacità di analisi, con il controllo delle temperature in fermentazione. E con l’emergere di nuove regioni viticole. Se mi riconosco un merito è quello di avere sempre comprato terra nei grandi terrori da vino, ma prima che diventassero “di moda” anticipando l’evoluzione dei gusti dei consumatori. Mi è successo con la Toscana prima, poi con il Piemonte, poi con la Sicilia e ancora con la Maremma”.
Cavalier Zonin davvero questa intervista è come un viaggio nella macchina del tempo delle vigne. Ma visti dalla Zonin questi cinquanta anni che cosa significano?
“Significano essenzialmente tre cose: impegno costante e ostinato, legame inscindibile con la terra e con la vigna, incessante ricerca della qualità totale. Ecco se devo fare un bilancio di questi cinquanta anni devo dire che la Zonin è sempre stata un po’ più avanti.
Lo è stata nella commercializzazione e nel marketing, lo è stata nella tecnologia, lo è stata soprattuto nella valorizzazione dei vitigni autoctoni e del rapporto vino-territorio, oltre che della civiltà rurale che è un bene culturale irrinunciabile per l’Italia. Ma sempre con un credo, far bere bene i consumatori, il che significa anche attenzione al livello dei prezzi e alla compatibilità del rapporto qualità-prezzo, puntando alla massima qualità.
Non spetta a me dire se abbiamo davvero raggiunto questi obbiettivi, ma il fatto che la Zonin e le tenute della nostra famiglia abbiano conosciuto questo sviluppo, forse qualcosa vuol pure dire”.

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