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Il mondo del vino italiano e non solo perde un protagonista assoluto: è morto Giacomo Tachis, l’artefice tecnico del “Rinascimento” enologico tricolore. L’Italia enoica deve molto all’enologo piemontese che resterà per sempre nella sua storia

Italia
L’Italia enoica perde un protagonista assoluto: è morto Giacomo Tachis, il suo enologo più grande

Se ne è andato oggi in punta di piedi ad 82 anni, come allo stesso modo ha condotto la sua professione, che tanto ha dato al vino tricolore. È morto Giacomo Tachis, uno dei “padri fondatori” dell’enologia italiana e tra gli uomini che hanno cambiato il corso del vino del Belpaese, sprovincializzandolo e consegnandolo al successo mondiale (i funerali a San Casciano Val di Pesa, lunedì 8 febbraio, ore 15, nella Chiesa di Santa Maria ad Argiano, Località Bardella).
Tra gli artefici del cosidetto “Rinascimento” enologico italiano, con alcune delle etichette più importanti del Bel Paese e non solo, le sue scelte, a distanza di anni, restano fra i contributi più preziosi al successo dei nostri vini, metodologie ormai “codificate” come la selezione clonale, gli impianti ad alta densità, l’abbassamento delle rese, la fermentazione malolattica, l’invecchiamento in rovere piccolo, tutti elementi capaci di far dialogare la tradizione italiana con quella francese, come lui dialogava con il suo mentore Emile Peynaud.
Giacomo Tachis, ritiratosi definitivamente dall’attività professionale nella primavera 2010, è stato l’amico del vino italiano, colui che con professionalità, umiltà e cultura ha saputo accompagnare e indicare la strada della rinascita dei vini italiani a partire dalla seconda metà del XX sec.
Enologo, ma questa etichetta gli è sempre andata stretta, Tachis è stato senz’altro qualcosa di più. Un umanista, che sapeva citare Archestrato di Gela, poeta della Magna Grecia, come fondatore della gastronomia. Il suo studio era un universo di libri. Un po’ alchimista e un po’ scienziato era un grande conoscitore della chimica e un curioso viaggiatore attraverso i sentieri della storia e della letteratura.
Giacomo Tachis, forte di una cultura, di una conoscenza e di una sensibilità straordinarie, nel labirinto dell’insuccesso in cui l’Italia vitivinicola sembrava intrappolata, ha saputo cambiare. Ipotesi, concetti e tesi innovative, nate dalla conoscenza del passato, hanno descritto il suo cammino. Un cammino in cui l’enologo piemontese è sempre rimasto con i piedi ben piazzati a terra, nella consapevolezza della forza della natura, tanto da poter sintetizzare il tutto in un’affermazione che resta immortale: “il vino è l’interpretazione umana dell’uva”.

Il dono più prezioso che Tachis ha lasciato all’enologia non è uno strumento tecnico, un’innovativa formula chimica, ma un nuovo sguardo, figlio di occhi diversi, arricchiti da una cultura classica unica, che ha illuminato nuove strade da percorrere per raggiungere l’obbiettivo della qualità e del successo nei mercati. Per questo Giacomo Tachis è e sarà riconosciuto dentro e fuori dal nostro Paese come uno dei più grandi enologi contemporanei. Non ha mai pensato di essere il più bravo e questa è una delle certezze su cui ha costruito la propria carriera. Ma non ha mai avuto paura di cambiare opinione. Questo perché era un uomo di scienza e come tale la sua sfida era sempre la scoperta del nuovo, anche rivalutando ciò che erano state le conquiste del passato. Ha sempre voluto conoscere altro, senza cercare consensi di maniera ma lasciando il giudizio finale ai fatti.
L’obiettivo non è mai cambiato: la conoscenza e, quindi, l’eccellenza. Per raggiungerla ha saputo essere umile e tante volte ha bussato alla porta di chi credeva potesse insegnarli qualcosa dinuovo. Non importava chi fosse al di là di quella porta: persone, fatti, libri o natura, avendo orecchi per ascoltare tutti e tutto. O meglio quasi tutto: ogni qualvolta abbia voluto introdurre delle novità in vigna o in cantina non si è fatto intimorire da coloro che lo indicavano come un pazzo. Questa è stata la sua forza, il coraggio che gli ha permesso di percorrere sentieri fino ad allora sconosciuti, rendendolo artefice letteralmente di una vera e propria rivoluzione professionale.
Ripercorrere le tappe professionali di Giacomo Tachis significa analizzare l’evoluzione dell’enologia italiana. Tachis, infatti, è stato uno dei principali artefici di quella rivoluzione enologica che ha permesso di esportare, insieme alle bottiglie di vino, un’immagine innovativa dell’Italia evocatrice di qualità. Un percorso professionale ricco di esperienze significative, la principale delle quali si svolse negli anni Sessanta con il suo approdo presso una delle più importanti aziende vinicole toscane. Lavorando per gli Antinori, Tachis arrivò a produrre viniinnovativi e impensabili per quei tempi in Italia, come il Sassicaia, il Tignanello e il Solaia. Una “scorpacciata” di Toscana anche se poi è riuscito nel sogno di far rinascere anche il vino del Mediterraneo, interpretando alla perfezione le potenzialità delle isole maggiori d’Italia. La seconda regione italiana che ha conosciuto le cure di Tachis è stata infatti la Sardegna, l’isola della natura, dove l’enologo piemontese ha posto le basi perun’evoluzione fino al suo arrivo impensabile. Da “enologo corsaro”, come Tachis stesso si definiva, ha poi accettato una nuova sfida insulare: la Sicilia. Anche in quell’isola, Tachis è riuscito a far scoprire il percorso enologico più adeguato.
Un uomo, prima che un enologo, che ha saputo valorizzare territori tanto diversi tra loro, attraverso un’innovativa interpretazione della vitivinicoltura. Cultura, sensibilità e capacitàtecniche sono stati gli strumenti attraverso cui il principe degli enologi italiani ha individuato la nuova strada da percorrere: seguire l’intera filiera produttiva dall’inizio alla fine. Ha insegnato che l’enologo, come garante della qualità del vino prodotto, non può non intervenire in ogni fase del processo produttivo: territorio, vigna, cantina e mercato.
Giacomo Tachis, arrivato sulle colline toscane, ha iniziato a vestire i panni dell’enologo per l’azienda Antinori e con questo gesto così semplice, ha, simbolicamente, fatto vestire quei panni a tutta la generazione successiva degli enologi italiani, che, direttamente o indirettamente, appaiono come suoi “figli”.
Proprio Giacomo Tachis, che non perdeva mai l’occasione per sottolineare sempre e comunque che non faceva altro che “mescolare vini”, è stato uno degli artefici della rivoluzione di una professione prima troppo legata al camice bianco del chimico. Ha saputo interpretare il fare l’enologo secondo una logica integrale, ovvero partendo dalla terra per arrivare alla cantina e al mercato. Ha insegnato che l’enologia non è la professione della cantina, ma è la professione del vino. L’enologo, come interprete del gusto, deve saper vestire non solo il camice bianco da laboratorio: nel proprio guardaroba quotidiano devono essere presenti anche le calosce, le forbici per potare, e deve saper leggere tanto nel presente quanto nel passato e nel futuro.
L’intuito e la volontà di mettersi in gioco sono stati due strumenti fondamentali del suo viaggio, allo stesso pari della conoscenza e dell’amore per il mondo classico e per la tradizione. Ma non solo. Ha saputo e voluto vedere il vino come gioia, piacere, godimento,a patto di cercare sempre e comunque l’eccellenza. Sulla perfezione di una macchina incidono soltanto il gusto, la soddisfazione o il guadagno del mondo dei produttori e dei consumatori. L’eccellenza di un vino tocca la serenità e la salubrità dell’uomo. Chi coltiva la vite, più che svolgere un lavoro, coltiva una missione nel campo del buon vivere e dell’etica.
Così Tachis ha vissuto il privilegio di lavorare alla realizzazione di un veicolo di piacere, ma, da insaziabile studioso, non ha mai smesso di guardarsi attorno e ha sempre mantenuto contatti stretti con quei paesi che potevano insegnargli qualcosa di nuovo. In Francia un nome su tutti: Emile Peynaud. Grazie a lui ha imparato tanto: ha approfondito le sue conoscenze nel campo della microbiologia, la gestione dei tannini e dei polifenoli attraverso un saggio utilizzo delle barrique, il ruolo della fermentazione malolattica, l’importanza delle mescolanze e dei tagli per realizzare equilibrio e complessità nei grandi vini, l’affinamento in vetro. In California ha trovato alcune delle più autorevoli fonti per approfondire e comprendere al meglio la fermentazione malolattica. Come le ricerche sviluppate da Ralph Kunkee, professore alla scuola di enologia di Davis in California.
Giacomo Tachis ha saputo far dialogare anche le due regioni più importanti dell’Italia enoica: la Toscana e il Piemonte. Tachis le rappresenta entrambe: toscano d’adozione e piemontese d’origine. Nasce nel 1933 a Poirino, un piccolo paese della provincia di Torino, in una famiglia modesta (padre operaio e madre casalinga) e fin da piccolo sviluppa una curiosità estrema per i libri e per lo studio. Una vocazione che ha sempre condiviso con il fratello Antonio Mario, che si laurea prima in chimica e poi in fisica nucleare, diventando uno scienziato conosciuto a livello mondiale. Tachis, invece, si iscrisse all’Istituto Agrario di Alba. Lo scelseperché tra i suoi parenti c’era il direttore generale della Martini e Rossi in Francia, e questo gli avrebbe consentito di trovare subito lavoro alla fine degli studi. La sua passione principale era la chimica e gli studi di un Professore dell’università di Bordeaux catturarono la sua attenzione a tal punto che gli scrisse la prima di una lunga serie di lettere. Si trattava di Emile Peynaud, il padre dell’enologia moderna di Bordeaux, colui che ha contribuito in maniera determinante a migliorare la qualità dei vini a livello mondiale. Negli studi ad Alba cominciò, quindi, un fitto carteggio con il professore francese che poi, successivamente, fu coronato da una vera e propria collaborazione professionale.
Concluso il ciclo di studi ad Alba, Giacomo Tachis voleva sfruttare il titolo che aveva conseguito. Il primo impiego fu in una distilleria, dove facevano i liquori Ballor. Un laboratorio enorme e la possibilità di approfondire la sua passione per la chimica. Finita quell’esperienza, ha lavorato in una Cantina sociale del Piemonte, ma ciò che lo appassionava di più era la chimica dell’alcol, cosìnon appena gli fu offerto un lavoro alla distilleria di Imola, Alberti Tommaso, non ci pensò su due volte. Alla Alberti, Tachis credeva di aver trovato la sua strada, la sua professione del presente e del futuro. Faceva il liquorista, un lavoro che gli permetteva di studiare ciò che lo appassionava: la distillazione, l’alchimia del vino.
Poi un giorno arrivò una lettera datata 29 marzo 1961 del professore Giuseppe Dell’Olio, preside dell’Istituto di Alba. Gli scriveva di aver pensato a lui per un’azienda di grande prestigio in Toscana che cercava un enologo. Aveva fatto il suo nome e garantiva per la sua professionalità. Si trattava della Ricasoli, una delle più grandi e rinomate case vinicole toscane. Il giovane Tachis, decise di accettare, ma anche Antinori stava cercando un enologo. Così il giovane Tachis a soli 28 anni aveva la possibilitàdi scegliere in quale delle due migliori aziende vinicole della Toscana andare a lavorare. Scelse Antinori. L’8 maggio 1961 viene assunto e vi lavora con passione come direttore tecnico per trent’anni, fino al 1992, anno in cui va in pensione. Quello tra Giacomo Tachis e la famiglia Antinori si rivelò un sodalizio perfetto. Se è vero che dobbiamo principalmente agli Antinori la Rinascita della Toscana enoica, è anche vero che gli Antinori hanno potuto realizzarla avendo un enologo come Giacomo Tachis. Così come è vero che Giacomo Tachis è diventato l’enologo più importante d’Italia, e la sua fama si è estesa in campo internazionale, grazie alle possibilità che gli sono state offerte dagli Antinori e alla loro politica innovatrice. Come dire: gli Antinori trovarono l’enologo ad hoc assumendo il giovane Tachis, e il giovane Tachis, piemontese diplomato all’istituto Enologico di Alba, trovò il produttore ad hoc scendendo in Toscana e accettando di vivere nel Chianti la sua carriera. Tachis fu ingaggiato da Niccolò Antinori. Era ancora l’epoca del romantico fiasco, ma il Chianti godeva di una reputazione vicino allo zero. Il mondo del vino attraversava una profonda crisi economica. Quando Tachis arrivò nella campagna toscana, non era il solo a muovere i primi passi della professione. In quegli stessi anni Niccolò Antinori cominciò a introdurre nell’azienda il figlio Piero, fresco di laurea in economia e commercio, che presto avrebbe preso il suo posto. Così, durante gli anni ‘60, tutti e tre cominciarono a lavorare in sincronia per cercare di trasformare il vino in un prodotto di qualità capace di sfondare i confini nazionali. Gli Antinori volevano produrre un vino di nuovo concetto ed erano consapevoli che il difficile passo da compiere era quello di costruire una nuova cultura enologica. La carta vincente di questo trio formato fu il sapersi mettere in gioco, esplorando sentieri sconosciuti all’Italia vitivinicola. Tachis poteva svolgere una professione che gli permetteva di studiare la chimica e la microbiologia e spesso gli consentiva di viaggiare, alla scoperta di nuovi luoghi e nuovi approcci all’enologia. Tachispensò allora che per raggiungere gli obiettivi aziendali avrebbe avuto bisogno di un consulente, ma non uno qualsiasi. L’enologo piemontese, infatti, non si è mai ritenuto un fuori classe e ha sempre avuto coscienza dei propri limiti. Fin da subito sapeva dove orientare la sua ricerca: Bordeaux, per ingaggiare Ribereau-Goyon, il cui Trattato di enologia la bibbia di ogni enologo. La cosa non si concretizzò, ma a Bordeaux Tachis incontrò Peynaud, con il quale intratteneva un rapporto epistolare fin dai suoi studi giovanili ad Alba. La sintonia fra i due fu immediata e cos iniziòla loro collaborazione: Tachis andava una volta ogni due o tre mesi in Francia, mentre Peynaud scendeva nel Chianti almeno una volta l’anno. A questo punto ai tre pionieri italiani del Rinascimento del vino si aggiungeva la nota francese di Peynaud.
Poi arriva il decisivo anno 1968. Dopo l’invito degli Antinori, il giovane enologo si presenta alla porta del marchese Mario Incisa della Rocchetta, per dare vita al Sassicaia, il primo grande vino italiano in grado di competere con gli Chateaux d’oltralpe. I cugini Antinori, da imprenditori lungimiranti, seppero cogliere la palla al balzo e decisero di investire proprio su quell’outsider prendendo in mano la parte commerciale e prestando il loro enologo all’azienda. Tachis non ne ha mai lasciato la consulenza, neanche quando Antinori uscì dal progetto Sassicaia. Fin dalla sua prima uscita nel 1968 conobbe i favori del pubblico e nel corso degli anni la collaborazione Incisa-Tachis introdussemiglioramenti che hanno permesso la creazione di un vero mito dell’enologia. Un vino che più di altri sa raccontare la propria leggenda, tra certezze e misteri, e sa essere portavoce dell’eccellenza italiana nel campo della vitivinicoltura. Un vino che nonostante nasca da uve internazionali, Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, è capace di sussurrare l’essenza toscana della terra da cui proviene. Un vino, inoltre, che ha fatto scoprire un territorio fino ad allora sconosciuto: Bolgheri. Forti del successo riscosso dal Sassicaia, i Marchesi Antinori decisero di seguire quella strada anche nel Chianti. Insieme a Tachis intrapresero unpercorso che impose un totale cambio di rotta rispetto al prodotto tipico di quella zona. Dopo una prima uscita nel 1971 come Chianti Classico fecero la scelta coraggiosa di eliminare completamente dall’uvaggio (previsto dal disciplinare) le uve bianche. Fu eliminato anche il cosiddetto “governo” e Tachis introdusse la fermentazione malolattica. Fecero riposare il vino in piccole botti di rovere francese poi affinato in bottiglia. Nel 1971 esce: il Tignanello, una miscela di Sangiovese e Cabernet. Un nome sufficiente ad evocarne il successo. Il vino che come pochi altri suoi contemporanei ha saputo tracciare la strada del rinascimento enologico. Oltre oceano riscosse fin da subito un gran successo. In Italia invece non tutti applaudirono a quella creazione, in parte non compresa e accusata di offuscare la tradizione toscana. Poi con il tempo divenne una vera e propria ispirazione per un numero sempre maggiore di vini che ne hanno seguito la scia. A questo punto era il momento per una nuova avventura. L’idea era di creare un Super Tignanello. Così nel 1978 fece la sua prima apparizione il Solaia, con proporzioni opposte alla bottiglia ispiratrice, il 20% per cento di Sangiovese e il resto di Cabernet, ma con metodi di vinificazione molto simili. Nel 1982 esce con la composizione che ancora oggi conosciamo: 75% Cabernet Sauvignon, 5% Cabernet Franc e 20% Sangiovese. Ad una rilettura superficiale la presenza di uve internazionali (Cabernet) in questi vini, l’utilizzo di metodi in cantina come la fermentazione malolattica e l’invecchiamento in barrique al posto del governo e delle grandi botti di Slavonia potrebbero essere facili bersagli di critiche. Ma proprio grazie a quelle novità in vigna e in cantina, Sassicaia, Tignanello e Solaia sono vini che hanno saputo e sanno raccontare la Toscana. Portano con lorol’immagine di una regione un po’ diversa da quella del Chianti anni ‘60: hanno fatto conoscere una Toscana innovativa, a passo con i tempi, multiforme e con peculiarità tanto forti da rendersi riconoscibile attraverso vitigni nuovi.
Questo Tachis lo ha insegnato.
Ogni suo vino è stato concepito prima di tutto da una attenta rilettura del territorio nel passato e nel presente e con la consapevolezza che la tradizione non debba essere sinonimo di immobilismo, ma riletta in chiave moderna. Solo così la tradizione stessa diventa il vero strumento dell’innovazione.
Giacomo Tachis poi con la tradizione non ha mai smesso di dialogare. Al Vin Santo, prodotto toscano per eccellenza di antichissima tradizione, per esempio, ha riservato infinite attenzioni. Un vino a cui ha dedicato un testo appassionante, romantico e tecnico allo stesso tempo. Non ha saputo resistere al fascino delle leggende che lo circonda. Non esiste infatti bevanda che più del Vin Santo sappia rappresentare la Toscana e le sue identità plurali, sociali e territoriali. Un vino misterioso e affascinante come la terra stessa che rappresenta, difficile da definire una volta per tutte.
A partire dagli anni ’70, Giacomo Tachis individua anche una destinazione alternativa per le uve bianche, Trebbiano e Malvasia, presenti in abbondanza nei vigneti del Chianti ed eliminatedall’uvaggio dei vini rossi di nuova generazione. E così dalla scelta drastica di Tachis di abbandonare la ricetta del Barone Ricasoli nasce un’altra novità: il Galestro. Un bianco che prende il nome dal tipico terreno roccioso della Toscana, leggero e neutro. Un vino che ha conosciuto maggior fortuna in Italia che fuori dai confini nazionali. Così, grazie a quella scelta in favore di vini rossi più corposi, anche l’uva bianca ha acquistato una precisa personalità e ha individuato un suo esclusivo e nuovo processo evolutivo.
Sempre in quegli anni frenetici, Tachis è stato l’artefice di un’altra innovazione nel panorama dei prodotti enologici toscani: il Novello. Di ritorno da un viaggio in Francia alla scoperta del Beaujolais noveau nel 1975, Tachis propose e decise con Antinori di affrontare una nuova sfida. Dopo i successi planetari dei grandi vini rossi invecchiati volevano offrire una giusta alternativa agli amanti del nettare degli dei. Una tipologia di vino “carpe diem”, che genera emozioni subitanee, che piace al consumatore e che va bene al produttore. E così arrivò il San Giocondo di Antinori. E poi le bollicine. Tachis e Antinori introdussero nelle cantine toscane, un’altra novità: il metodo classico per produrre spumanti.
Durante il suo rapporto con gli Antinori, Tachis ovviamente non poteva fare consulenza ad aziende in competizione diretta con la famiglia. Ma nell’ampio circuito Antinori tra parenti impegnati sempre nella produzione del vino e aziende che indirettamente appartenevano alla grande firma, si aprirono ulteriori spazi per l’enolo piemontese. Altre volte gli Antinori hanno saputo chiudere un occhio, lasciando che il loro enologo potesse aiutare altri produttori quando si fosse dimostrato sinceramente interessato a nuove esperienze. Il primo caso è stato quello del Sassicaia. Poi, nel 1979 inizia a collaborare con Alceo di Napoli, cugino degli Antinori, nelle sue tenute del Castello dei Rampolla, a Panzano in Chianti, creando il blasonato Sammarco. Poi ha collaborato con Castell’in Villa, della Principessa Coralia Pignatelli della Leonessa (e successivamente, sempre, nel Chianti Classico con Qurciabella della famiglia Cossia Castiglioni). Poi con la tenuta di Argiano della Contessa Noemi Marone Cinzano a Montalcino. Ma c’è stata anche la collaborazione con l’azienda vinicola Falchini di San Gimignano.
Quando lasciò Antinori nel 1992, Giacomo Tachis ebbe offerte importanti dalla Cinzano, da Fontanafredda, dalle Generali, ma non accettò. Preferì vestire completamente i panni del consulente esterno muovendosi tra cantine toscane e non. Proprio in Toscana ha cominciato a dedicarsi con anima e corpo a quei luoghi che già da tempo studiava e osservava: la Maremma prima di tutto. Qui ha collaborato con l’azienda agricola Alberese e con Le Pupille.
E poi finalmente il Mediterraneo e le sue isole. All’inizio degli anni ’80, Antonello Pilloni, il presidente della cantina Santadi, lo cerca e Piero Antinori, accontenta l’entusiasmo di Tachis per la Sardegna, a patto che questo impegno non avesse interferito con il suo lavoro in Toscana. Piero Antinori conosceva bene il passionale Tachis e sapeva che sarebbe stato impossibile oltre che ingiusto impedirgli di fare ciò che desiderava. Da acuto imprenditore, era consapevole anche che se il suo enologo avesse avuto successo in Sardegna avrebbe acquisito un ulteriore riconoscimento, cosa di cui avrebbe inevitabilmente tratto giovamento anche l’azienda Antinori. In Sardegna, Tachis ha portato la scienza in cantina, e ha saputo nuovamente andare contro la moda del tempo. Negli anni novanta eravamo, infatti, nel pieno del boom dei Supertuscan, e come conseguenza era diventato impopolare parlare di vitigni di antica coltivazione; maTachis spiazzò tutti e puntò per il rilancio della Sardegna enoica proprio su quelli: Carignano, Cannonau, Bovale, Vermentino e Nasco, ottenendo grandi risultati. La battaglia portata avanti da Tachis per far elevare a dignità la viticoltura sarda attraverso quelle viti che ne rappresentano appieno la regione è testimone di come abbia saputo interpretare ogni territorio, a partire dalle peculiarità storiche, culturali, geografiche e climatiche. A Santadi da uve Carignano e Bovaleddu, magistralmente addomesticate in barrique nasce il Terre Brune. Un vino pioniere che ha fatto riscoprire una vocazione alla qualità e ha fatto conoscere una Sardegna enoica capace di fare concorrenza a regioni italiane con una storia tecnica e culturale meno recente come Toscana e Piemonte. In Sardegna, Tachis lavora anche con gli Argiolas. Anche in questo caso, Tachis ripartì dai vitigni di antica coltivazione locali. E da questa ennesima intuizione vincente nacque, nel 1988, il Turriga. Ottenuto da un uvaggio di Cannonau, Carignano, Bovaleddu e Malvasia nera. Ma non finì il suo rapporto con la Sardegna.
Nel 2002 nasce una nuova realtà produttive tra i vigneti dell’isola dei Nuraghi. Antonello Pilloni, il Marchese Niccol Incisa della Rocchetta, Sebastiano Rosa (manager della tenuta San Guido) e Giacomo Tachis dando vita al progetto enologico Agricola Punica. E non a caso il vino bandiera dell’azienda, il Barrua, è un blend di Cabernet e Carignano, come a simboleggiare l’incontro fra il Sassicaia e la Sardegna.
Nel 1992, intano, Tachis era sbarcato anche in Sicilia, dove ha collaborato con la Regione come consulente dell’Istituto regionale della Vite e del Vino, è stato consigliere d’amministrazione delle Case Vinicole di Sicilia (Duca di Salaparuta e Florio) ed è stato ispiratore per tanti produttori emergenti. Tachis poté contare sull’appoggio di uomini come Diego Planeta, Leonardo Agueci, Vincenzo Melia e Elio Marzullo. Nelle vigne di Donnafugata, fu Tachis ad introdurre la vendemmia notturna. Un’idea solo apparentemente romantica, ma in realtà nasceva da una lettura attenta e razionale dell’isola. Valutando che durante il giorno si verificavano enormi escursioni termiche, l’enologo piemontese pensò che fosse la notte il momento migliore per raccogliere l’uva a una temperatura fresca e costante necessaria per non disperderne profumi e aromi.
Anche in Sicilia la scommessa, poi rivelatasi vincente, prese le mosse dia vitigni indigeni. Nero dAvola, Frappato, per i rossi, Inzolia, Grillo, Cataratto e Caricante. Con l’eccezione del Pinot Nero dell’Etna, che comunque ai giorni nostri si è rivelato come uno dei terroir più affascinanti dell’isola.
Da sud a nord in un percorso sempre vincente. L’enologo piemontese si spinge anche in Trentino Alto Adige, dove crea insieme a Carlo Guerrieri Gonzaga il San Leonardo (60% Cabernet Sauvignon, 30% Cabernet Franc, 10% Merlot). Poi ancora un’altra regione, Le Marche. Dal 1992 al 2001 Tachis è stato consulente per l’azienda Umani Ronchi. Giusto il tempo necessario per creare, insieme alla famiglia Bernetti, un ennesimo vino che ormai fa parte a pieno titolo dei grandi: il Pelago. Nel nome si racchiude l’essenza della bottiglia perché nasce da viti di Cabernet, Merlot e Montepulciano d’Abruzzo, che conoscono bene il salmastro. Ancora nelle Marche per il progetto enologico del petroliere Aldo Brachetti. E nel 1996 inizia questa nuova avventura marcata Il Pollenza. Sotto il controllo di Tachis, prende il via la costruzione di una cantina, l’impianto di nuovi vigneti di Cabernet, Merlot, Pinot Noir, Syrah, Gewürztraminer e Sauvignon, il recupero qualitativo di vitigni tradizionali come Trebbiano e Sangiovese.

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