
Il vino dell’Elba - la cui qualità è molto aumentata negli anni - vive nella “gabbia dorata” del consumo turistico che, paradossalmente, rende incerto il suo futuro. Per questo, la sinergia attivata tra la albergatori e produttori vitivinicoli punta a far conoscere le etichette elbane anche fuori dall’Isola, per enfatizzare, viceversa, la sua forza propulsiva, culturale e come attrattore enoturistico, come raccontano le voci di tanti vignerons, che Winenews, interrogandoli su criticità e opportunità, ha raccolto nelle loro cantine, circondate dalla bellezza unica dei vigneti che si “tuffano” nel mare dell’Arcipelago Toscano.
Ma l’Elba non è solo mare cristallino e sentieri immersi nella natura: “la nostra Isola offre un’esperienza culturale a tutto tondo, che passa anche attraverso il vino, la cucina e i prodotti agricoli locali di altissima qualità e meritevoli di essere conosciuti in tutto il mondo”, sottolinea Massimo De Ferrari, che, recentemente, ha presentato un’iniziativa del Consorzio Servizi Albergatori Isola d’Elba, di cui è presidente, e dei suoi partner (Blu Navy, storica compagnia di navigazione dell’Isola d’Elba, e Small Fly Airlines, compagnia aerea che collega l’Isola ad alcuni aeroporti italiani, europei ed extraeuropei) centrata proprio sul vino elbano.
La storia della vitivinicoltura dell’Elba - la più grande dell’Arcipelago Toscano (224 kmq), terza per dimensione dopo Sicilia e Sardegna - è simile a quella di tutte le piccole isole. Nel periodo più florido, intorno agli anni 1880-1888, gli ettari a vigneto erano 5.000, per una produzione di circa 150.000 ettolitri di vino. Le cronache storiche raccontano che negli anni successivi (1890-1893) la fillossera decimò i vigneti provocando la diminuzione della popolazione per l’aumento della miseria e dell’emigrazione. Successivamente la produzione superò addirittura quei picchi per scendere sul finire degli Anni Cinquanta del Novecento (secondo Alberto Mori ed i suoi “Studi geografici sull’Isola d’Elba”, Pisa, 1960) a poco più di 3.000 ettari, pari al 14% del territorio totale. Tuttavia fino alla metà del secolo XX la vitivinicoltura è rimasta la principale attività economica della popolazione. Nel 1982 la superficie vitata era pari a 565 ettari (1/4 della superficie agraria utilizzata all’Elba). Secondo i dati della Camera di Commercio Maremma e Tirreno, nel 2018 la superficie a vite per la produzione di vino Doc era di 74,25 ettari, mentre quella per la produzione a Docg era di 13,30 ettari. Oggi - superata la crisi del turismo dovuta alla pandemia e ripresi i consumi di vino collegati alle presenze estive - gli ettari vitati sono circa 350, posti dal livello del mare fino a 450 metri di altitudine sulle colline (a Ovest c’è il Monte Capanne che supera i 1.000 metri). La produzione ammonta a circa 500.000 bottiglie - Elba Docg (Aleatico Passito), Elba Doc, Igt Toscana e Costa Toscana e da tavola - ad opera di 15 aziende che commercializzano le produzioni a denominazione e altrettante o poco più che, invece, conferiscono le uve.
Di pari passo, così come altrove, anche all’Elba l’offerta turistica - forte di un successo consolidato che però deve essere “nutrito” - ha bisogno di un rinnovamento e dell’iniezione di nuovi attrattori, e il vino è uno di questi. Il vino dell’Elba, tuttavia, è di fronte a una sorta di paradosso: il suo consumo concentrato quasi esclusivamente sull’Isola se da un lato è indice di una buona promozione da parte di ristoratori e albergatori, dall’altro ha fermato il flusso di “esportazione” verso l’Italia e ancor di più verso l’estero, cancellandolo dalla memoria di appassionati e consumatori che un tempo potevano trovarlo, seppur di rado vista l’esiguità della produzione, in enoteca e/o al ristorante. Il “successo turistico” ha spento lo slancio dei produttori verso la promozione all’estero, la partecipazione a fiere ed eventi - complice anche la pandemia - producendo una sorta di “effetto oblio” che, quindi, ha riguardato anche il notevole miglioramento qualitativo dei vini, rimasto senza termini di paragoni. Il tutto aggravato dall’assenza di attività del Consorzio che esiste al momento solo a livello formale. Per inciso, oltre all’Elba Aleatico Passito - il più noto dei vini elbani Docg dal 2011- la denominazione Elba - riconosciuta nel 1967 e arricchitasi di tipologie nel corso degli anni - è riferita a 8 vini fermi e 5 passiti ottenuti principalmente dai vitigni che si sono meglio adattati all’ambiente geografico dell’Isola nei secoli: i bianchi sono ottenuti prevalentemente da Procanico (Trebbiano toscano), Ansonica, Vermentino e Moscato, i rossi e il rosato da Sangiovese. Il canale di vendita privilegiato dei vini elbani è quindi l’horeca, ma una quota di produzione è destinata anche alla grande distribuzione, con linee specifiche, che in qualche caso si differenziano solo per l’etichetta, ma non per il contenuto della bottiglia. La produzione destinata alla gdo, raccontano i produttori, è funzionale a colmare eventuali esuberi produttivi legati ad annate abbondanti.
“L’aumento della qualità dei vini elbani è dovuta agli investimenti fatti dalle aziende, alla consapevolezza che sull’Isola c’è una domanda importante di vino di qualità e alla loro valorizzazione da parte di albergatori e ristoratori che hanno assecondato la richiesta di vino locale da parte di chi viene qui all’Elba”, spiega Lorenzo Signorini dell’azienda Cecilia, nata nel 1990 grazie alla passione dello zio Giuseppe Camerini, ingegnere e artista milanese, elbano d’adozione. Lorenzo e il fratello Renato, milanesi, dalle uve di quattro piccoli poderi (11 ettari) nella zona limitrofa a Marina di Campo, producono 75.000 bottiglie per 12 etichette, proseguendo letteralmente nel “segno” dello zio e di alcune sue intuizioni, come il Sangiovese in anfora “Altro”. Perseguono la vendita diretta e l’accoglienza in azienda anche con eventi culturali. “Abbiamo quindi già centrato l’obiettivo - sostiene Lorenzo Signorini - ora il miglioramento può avvenire sviluppando le attività del Consorzio dei Vini dell’Elba o comunque di altre forme associative che ci consentano di presentarci a fiere nazionali ed estere, ma anche a importanti eventi promossi da diversi soggetti per far percepire la realtà di una viticoltura e di vini molto migliorati. Dobbiamo tornare a mettere la testa fuori dall’Isola, ci siamo “elbanizzati”, ci siamo trovati a nostro agio nel tessuto locale che, però, non ci dà visibilità all’esterno. Io per primo, che quando sono arrivato all’Elba ho portato i nostri vini a Tokyo, a New York e a Chicago, ho tirato i remi in barca. Si è creata questa collaborazione talmente stretta con gli albergatori che ora sono loro stessi a chiederci di fare un po’ di immagine dell’Elba fuori perché la viticoltura e i vini sono uno dei modi per far conoscere un territorio, come insegnano le esperienze di Barolo, Montalcino, e non solo”. Tuttavia al momento il limite quantitativo della produzione è una criticità: “produciamo intorno al mezzo milione di bottiglie di qualità - risponde alla sollecitazione Signorini - non molte è vero, ma sta a noi investire per aumentarle nei limiti degli ettari disponibili e agli albergatori sta accettarne una riduzione a fronte delle vendite fuori dall’Isola per farli conoscere e avere un ritorno per tutti”.
In realtà l’espansione della viticoltura non è cosa facile, come argomenta Pietro Roveda dell’Acquabona, subentrato alla conduzione della storica azienda insieme a Federico Capitani e Riccardo Fioretti, figli dei precedenti titolari, e all’enologo Federico Ballati. Accanto alla produzione di vino - su 14 ettari vitati vicini al mare nei Comuni di Portoferraio e Capoliveri per 90.000 bottiglie e 12 etichette - molto importante è lo sviluppo enoturistico attraverso passeggiate e tour in vigna, degustazioni ed esperienze di “golf and wine” con il vicino Golf Club Acquabona. “Molti dei vigneti coltivati in passato erano in pendenza su terrazzamenti, oggi riconquistati dalla macchia mediterranea, difficili da ripristinare e, soprattutto, da coltivare - illustra Pietro Roveda - è stato il fuoco di incendi recenti a portare alla luce i muretti a secco e c’è un progetto di recupero dell’Università di Firenze, ma manca chi possa riportarli in vita. I costi di gestione di quella viticoltura sono elevati, le parcelle piccole e spesso lontane dalle sedi aziendali. E come se non bastasse c’è il problema dei cinghiali. Il mercato locale è remunerativo e se vogliamo portare altrove il nostro vino dobbiamo necessariamente crescere gradualmente in quantità fidelizzando piccoli viticoltori perché ci conferiscano le loro uve, conducendo in affitto altri vigneti e acquistandone se possibile”. Un orizzonte lontano al momento per l’Acquabona che sta investendo in modo deciso sulle strutture dedicate all’enoturismo.
La limitata potenzialità di crescita della produzione impone, per avere più margine economico, di posizionare i vini Elba Doc a prezzi più elevati attraverso l’apprezzamento della qualità raggiunta e quindi la crescita della loro reputazione in particolare al di fuori dell’Isola. A La Chiusa, che risale al 1590 quando Cosimo I de’ Medici inviò anche la famiglia Carpani a fondare Cosmopoli (l’attuale Portoferraio), oggi di proprietà della famiglia Bertozzi Corradi, non immaginano di espandere la produzione oltre i vigneti piantati all’interno della cinta muraria che delimita la proprietà, 12 ettari di vigneto, per il 70% a bacca bianca, per 100.000 bottiglie prodotte. L’azienda, in Magazzini, che si estende fino al mare, è in controtendenza anche per quanto riguarda la commercializzazione “perché - illustra l’agronomo della Tenuta Lorenzo Arguti - La Chiusa ha una struttura ricettiva importante che la proprietà vuole valorizzare ulteriormente attraverso degustazioni, eventi e soggiorni massimizzando la vendita diretta, più che pensare a un’espansione del mercato altrove: delle 20.000 bottiglie de La Chiusa affidate al nostro distributore per essere destinate “al continente” una parte riprende la strada dell’Elba. Dunque, nonostante il consistente numero di bottiglie prodotte, l’obiettivo è creare un mercato il più possibile circolare all’interno dell’Elba”. Obiettivo sicuramente facilitato dalla bellezza della Tenuta, la più antica dell’Isola, dimora storica che accoglie gli ospiti in due splendidi edifici: il Borgo, antica casa colonica, e la struttura fronte mare.
Poco ottimista circa l’incremento della produzione vitivinicola dell’Elba è Aldo Appiani che conduce Le Sughere di Monte Fico a Rio Marina. I 7 ettari vitati sul totale di 35, per 70-80.000 bottiglie di cui 7.000 di passiti, sono integrati dall’accoglienza in 9 camere, 2 appartamenti e piscina in un luogo appartato e suggestivo. Il focus dell’azienda - al motto “la cucina mangia la cantina” - è il connubio tra i propri vini, tutti da vitigni autoctoni, e i piatti locali della tradizione. La tonnina con pomodoro cipolla e friggitelli, la sburrita di baccalà, il riso al nero di seppia, i calamari alla cacciatora e la schiaccia briaca vengono sapientemente abbinati alle etichette aziendali. “Il ricambio generazionale nelle aziende esistenti è modesto ed è difficile che ne vengano fondate di nuove per le difficoltà intrinseche del territorio”, argomenta Appiani, che le conosce bene, visto che i vigneti de Le Sughere sono su colline terrazzate sul Monte Fico a ridosso delle sugherete che danno il nome all’azienda, dove attenzione al dissesto idrologico, niente meccanizzazione e molta manodopera si traducono in costi molto elevati. “L’estensione delle aziende è modesta - prosegue - c’è stato un progressivo abbandono della campagna e i giovani non sono interessati. Anche laddove ci sono terreni appetibili le difficoltà legate ai vincoli del Parco Naturale dell’Arcipelago Toscano scoraggiano: ogni intervento umano deve essere vagliato e autorizzato e quindi anche i nuovi vigneti”. Una situazione comune, anche questa, ad altre isole dove le attività agricole confliggono con alcune regole imposte dalla tutela dei parchi. “Circa una dozzina di anni fa - continua Appiani, che conserva un piglio lombardo (prima di diventare viticoltore a tempo pieno è stato primario in un ospedale milanese) - per contrastare la disoccupazione giovanile feci al Comune di Riva Marina una sorta di proposta per avvicinare i giovani alla viticoltura e nessuno si è presentato. La mia cantina è sovradimensionata e intendevo metterla a disposizione di piccoli viticoltori per vinificare le loro uve: anche questo progetto non è andato a buon fine. E ancora manca sull’Isola un’enoteca dedicata ai vini elbani. Insomma qui come altrove, purtroppo, manca la coesione: ognuno vuole fare per sé. Sono tra coloro che vendono alla grande distribuzione qui all’Elba e a qualche negozio sulla costa e a Firenze - continua Aldo Appiani a proposito dei canali distributivi - insegne come Coop e Conad non fanno la politica del prezzo, ma della valorizzazione del prodotto tipico e questo mi permette di posizionare bene i vini, operando uno sconto un poco più alto alla gdo che acquista grandi quantità, rispetto alla ristorazione”.
Concorda sulla necessità di aumentare la produzione enologica elbana Sergio Lauriola, che conduce La Faccenda tra Portoferraio e Porto Azzurro, ai piedi di Capoliveri, antico borgo medievale dell’Isola - azienda agricola storica di cui nel 2001 ha acquisito la proprietà - e si professa neofita del settore. Lauriola, anche lui lombardo, ascrive il successo dei suoi vini alla fortuna di essere in un posto turistico e al punto vendita lungo la strada, peraltro sui generis, molto visibile e attrattivo anche grazie alla sua informalità, con giochi anche per bambini. “L’Elba come brand ha sicuramente un potenziale notevole - afferma Lauriola, che conta su 14 ettari dedicati principalmente a vite e olivo e produce 60.000 bottiglie per dieci tipologie di vino, 5 secchi, una riserva e 3 passiti - ma per uscire dall’Isola servono numeri più sostenuti e ci sono poche possibilità per aumentarli: non c’è un gran mercato di uve e le poche in vendita, se di qualità, sono molto ricercate. Il futuro è legato innegabilmente al turismo in particolare per le aziende più piccole, mentre quelle di maggior dimensione, che hanno più forza e convenienza a vendere fuori, devono impegnarsi un po’ di più per non rimanere così legate al flusso turistico e fare fronte ad annate in cui dovesse ridursi. La realtà dice che avendo il mercato in casa non c’è l’esigenza di uscire se non per ambizioni personali. E penso che l’assenza di attività promozionali anche da parte del Consorzio sia lo specchio di questa situazione”.
Ad essere uscita da tempo dai confini elbani e ad avere l’ambizione di continuare a farlo è Fattoria delle Ripalte, all’estremità Sud-Est dell’Isola d’Elba. Fondata nel 1896 dal conte svizzero Tobler, più grande azienda agricola a tutto tondo dell’Elba, è divenuta con i successivi proprietari luogo di soggiorno di piacere e di caccia. Poi nel 1977 è stata acquisita dalla famiglia veronese Ederle che ha sviluppato la vocazione turistica del territorio e nel 2002 ha reintrodotto la viticoltura avvalendosi dell’esperienza di Piermario Meletti Cavallari, fondatore della cantina Grattamacco, con l’intento di rilanciare l’Aleatico. Il vino è solo una delle offerte, che comprendono accoglienza - un resort, fattorie e ville - impianti sportivi per numerosi sport, offerta gastronomica oltre che spiagge e mare. “La tecnologia - sottolinea Carlo Ederle, responsabile marketing - ha abbattuto molte barriere di mercato e ritengo che l’esportazione fuori Isola sia necessaria e doverosa perché stimola noi produttori a fare vini sempre migliori e ad essere più competitivi e sollecita la curiosità del mercato attirato dal fascino delle isole del Mediterraneo. Per quanto ci riguarda non possiamo espanderci sui terreni aziendali molto difficili, con rese ad ettaro bassissime e costi elevati: sarebbe un autogoal. L’unica possibilità per aumentare la produzione potrebbe essere trovare sull’Isola d’Elba altri terreni in zone un po’ più produttive”. “Circa le destinazioni dei vini - approfondisce Jacopo Nidini, project manager dell’azienda in bio dal 2024 - l’intenzione è quella di continuare a far crescere il mercato italiano, già sviluppato, e soprattutto quelli internazionali che ci interessano di più (ndr: ora tra il 10 e il 15%). Abbiamo il vantaggio di “essere Toscana”, ma siamo su un’isola e ciò non sempre viene recepito e quindi serve uno sforzo di comunicazione. Non a caso il nostro logo e le etichette, anche dell’Aleatico Passito, non evocano strettamente il territorio, ma hanno richiami internazionali”. A parte l’Aleatico Passito Docg, tutti i vini delle Ripalte escono come Igt Costa Toscana “perché - spiega Nidini - la Doc richiede uvaggi per nulla adatti all’area Sud-Est dell’Isola dove siamo, territorio molto minerario, roccioso e poverissimo di materiale organico. Dopo una serie di studi e anche di tentativi siamo arrivati alla scelta di coltivare, oltre all’Aleatico, Vermentino, Alicante e Carignano”. Ben 10 ettari sui 18 totali sono di Aleatico - declinato oltre che come passito anche come rosato e Metodo italiano - e la produzione è di 60.000 bottiglie. “Stiamo valutando - prosegue - di allargare il vigneto soprattutto nel versante del Monte Calamita, quello dei Pascoli Alti, per aumentare leggermente la produzione dei bianchi in linea con le richieste del mercato. Per quanto riguarda la cantina, invece, abbiamo già spazi di lavoro perché fin dal progetto è stata concepita per una produzione più elevata”. La cantina, ultimata nel 2010 - così come le etichette - è stata disegnata dall’architetto Tobia Scarpa, figlio del famoso Carlo, con criteri funzionali come la movimentazione per caduta, per evitare lo stress provocato dalle pompe, e settori modulabili. Certamente l’azione del Consorzio sarebbe importante per portare i vini dell’Elba “fuori”. “Siamo pochi produttori, ma le divisioni sono profonde - spiega Ederle - recentemente sono entrati nelle aziende diversi giovani che potrebbero riuscire a sbloccare la situazione”. “Da parte nostra - aggiunge Nidini - c’è una spinta perché si lavori alla rivalutazione in particolare dell’Aleatico Passito Docg, ma non c’è ancora un ragionamento unitario. Quindi diamo tempo al tempo”.
Il progetto Nesos dell’azienda Arrighi, posta sulle colline alle spalle della baia di Porto Azzurro nella parte orientale dell’Elba, raccontato dai media di tutto il mondo, ha dato un grande ritorno di notorietà al vino dell’Isola. Il Nesos, da uve Ansonica - asciugate per 2 giorni su cannicciato, poi immerse per 5 in mare a 10 metri di profondità e vinificate in anfora - è frutto della sperimentazione (solo l’ultima delle tante con istituti di ricerca e università in vigneto e in cantina) che Antonio Arrighi ha avviato nel 2018, complice Attilio Scienza, tra i massimi esperti di viticoltura al mondo, in collaborazione con l’Università di Pisa. Tutte le attività di Antonio Arrighi sono distintive, come le prove circa l’adattabilità ambientale di vitigni e cloni, l’uso di anfore di Impruneta e di coccio pesto, fino al progetto “trasform_azioni - artisti in vigna” che usano materiali di riciclo legati alla viticoltura per fare opere fruibili liberamente passeggiando nell’anfiteatro dei vigneti aziendali. “Ho sempre fatto attività di comunicazione dei miei vini personalmente sulle navi da crociera, in ristoranti e wine club: farsi conoscere fuori è importante perché limitare la vendita all’Elba è rischioso in caso di flessione dei consumi sull’Isola - racconta Arrighi, che su 22 ettari totali ne coltiva 9 a vite in biologico per 45.000 bottiglie e 10 etichette - e il Nesos, che non immaginavo scatenasse tutto questo interesse che ha portato sotto i riflettori l’Elba, ha ben assolto a questo compito. Tuttavia, anche se ha fatto tanta pubblicità all’Isola, qualcuno “rosica”, non c’è compattezza tra di noi”.
A mettere sul tavolo altri temi importanti è Italo Sapere, proprietario pacato e preparato a tutto tondo della Sapereta, azienda agricola nata nel 1927, a un passo dai 100 anni, che prende il nome dalla famiglia. Al vino si affiancano un buon ristorante - nato nel 2006 e portato avanti da Danae, figlia di Italo, e da suo marito Sante Vaiti, chef - e un’attività di agriturismo iniziata nei primi Anni Settanta, che oggi conta su 17 appartamenti. “La quantità attuale di vino elbano comincia ad essere bastante per il mercato dell’Isola che si può saturare facilmente - sottolinea Italo Sapere, che si occupa dei 15 ettari a vigneto in bio per una produzione che oscilla tra le 50 e le 70.000 bottiglie - al contempo non ce n’è abbastanza per farlo conoscere fuori, ma si può scegliere dove vendere. Per aumentare la produzione c’è la difficoltà di acquistare uve, e l’impossibilità di trovarle bio come servirebbero a noi, a cui si aggiunge l’oscillazione quantitativa tra le annate. Inoltre c’è un’altra difficoltà insormontabile: abbiamo a che fare con un forte concorrente, il turismo, che se per un verso è il nostro “consumatore” fondamentale, dall’altro impone prezzi della terra che spesso non hanno niente a che vedere con un mercato agricolo. Ritengo che vendere fuori dall’Isola sia un’opportunità anche per avere margini più alti rispetto a quelli che otteniamo dalla ristorazione locale che, peraltro, ricarica il prezzo enormemente. Potremmo avere una potenzialità buona perché i nostri vini non hanno niente da invidiare a quelli toscani e nazionali con cui ci raffrontiamo spesso, specialmente con i bianchi. Speravamo che il cambio generazionale in qualche azienda portasse insieme allo spirito imprenditoriale una spinta a far funzionare il Consorzio. La questione è che ognuno vende abbastanza bene. Se avessimo giacenze probabilmente attiveremmo il Consorzio. Sta di fatto che tutti arriviamo a fine stagione con la cantine vuote. Una fortuna che annulla lo stimolo a fare promozione”.
Eppure visto il numero esiguo di aziende - una ventina in totale: una quindicina strutturate a cui le restanti più piccole, si appoggiano per alcune fasi di produzione - sarebbe davvero facile mettersi intorno a un tavolo per tracciare il futuro del vino dell’Elba.
Clementina Palese
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