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Il vino nel Cristianesimo, nell’Ebraismo e nell’Islam secondo un sacerdote, un rabbino e un Imam. Alla vigilia della visita del mondo del vino a Papa Francesco con i protagonisti del Belpaese riuniti da Fondazione Italiana Sommelier di Franco Ricci

Qual è il vero significato del vino nelle religioni cattolica, ebraica e musulmana? La visita del mondo del vino a Papa Francesco, il 21 gennaio a Roma, con Fondazione Italiana Sommelier, e tanto più in un momento storico come quello che stiamo vivendo, può essere il momento giusto per una riflessione sul tema, e per comprendere il rapporto che esiste tra religione e vino. WineNews ne ha parlato, in tempi non sospetti con Yoseph Levi, Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Firenze, Padre Don Filippo Belli, biblista e docente di Sacre Scritture alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, e Mohamed Nasimi, vice presidente della Comunità Islamica di Colle Val d’Elsa e Siena.
Il vino, seppur in forme e maniere diverse, riguarda o lambisce i percorsi di tutte e tre le principali religioni monoteiste. Per la religione ebraica il vino è elemento santificatore e portatore di letizia, la vite stessa, ritenuta sacra nell’antica Cananea, fu dagli Ebrei considerata albero messianico. La tradizione ebraica fu poi adottata dal Cristianesimo, che attribuì al vino un significato completamente nuovo, indissolubilmente legato al sangue di Cristo versato sulla croce, e segno tangibile della sua presenza nella Chiesa, mediante l’Eucarestia. Anche l’Islam si occupa del vino, che nella cultura araba - fino all’avvento di Maometto - era prodotto e consumato, specie in Palestina, per poi diventare una sostanza il cui uso viene chiaramente vietato.
“Il vino è il simbolo della vita e della gioia, la Bibbia stessa non pone problemi al consumo di vino, finché avviene nella giusta misura - esordisce Yoseph Levi - Basti pensare a Noè, che sceso dall’arca pianta la vite, ma, inesperto com’è, beve fino ad ubriacarsi (Gn 9, 20-25), e quello è peccato, mentre quando viene “mescolato bene”, reso quindi più leggero, è un vero e proprio dono, del Divino, ma anche dell’uomo, perché sappiamo bene che senza l’intervento umano non ci sarebbe il vino: c’è quindi una collaborazione tra il divino e l’umano nelle produzione della delizia della vita”. D’altra parte, nel Cantico dei Cantici, il vino diviene il suggello dell’unione d’amore tra l’amato e l’amata, tanto che la prima parola del Cantico descrive un bacio inebriante, accompagnato da “tenerezze più dolci del vino”, perché “il vino rallegra il cuore dell’uomo - dice il Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Firenze, ricordando uno dei proverbi più noti - ma per la nostra religione è molto importante anche che il vino non contenga sostanze di origine animale proibite, ma a parte questo qualsiasi vino va bene”. Troviamo centinaia di citazioni della vite e del vino nell’Antico Testamento: la parola “yayin”, con la quale viene indicato il succo di uva fermentato, vi compare oltre 140 volte, ma, come sottolinea Yoseph Levi, guai ad esagerare. Numerosi sono infatti i moniti in cui ci si imbatte nella Bibbia, uno per tutti l’episodio in cui Lot, ubriacato dalla figlie, venne indotto all’unione incestuosa da cui nacquero Noab e Ben-Ammi, capostipiti delle tribù dei Noabiti e degli Ammoniti (Gn 19, 1-11).
Anche per la religione cattolica l’importanza del vino - ed il suo valore positivo - prende le mosse dall’Antico Testamento: “L’importanza del vino nella nostra religione - esordisce Padre Don Filippo Belli, biblista e docente di Sacre Scritture presso l’Università di Firenze - è indissolubilmente legata alle gesta di Gesù Cristo. Ma c’è un precedente, la storia narrata nell’Antico Testamento: Israele è infatti una terra di vigneti e di vino, dove la vite, la vigna ed il vino sono espressione dell’abbondanza e della prosperità, quindi di una vita buona. Quando ad esempio le tribù di Israele si insediano sulle terre appena conquistate - continua Padre Don Filippo Belli - una delle prime cose che fanno è piantare la vigna, una pianta che necessita di anni per essere produttiva, simbolo di una volontà di stabilirsi. Inoltre l’immagine della vigna nell’Antico Testamento viene usata anche da Dio stesso per raccontare quanto si prenda cura del proprio Popolo, come avviene nei Salmi”. Il vino quindi come fonte e simbolo di gioia per l’uomo, ma anche per Dio, tanto che nella tradizione ebraica - ma non in quella cattolica - si praticano sacrifici in cui si offre del vino a Dio. “Ed è proprio in questa tradizione che si inserisce il Nuovo Testamento e la storia quindi di Gesù Cristo - racconta Padre Don Filippo - Il primo segno di Gesù narrato nel Vangelo di Giovanni è legato alle Nozze di Caana, in cui Gesù, per mostrare la propria presenza alla gente, trasforma l’acqua in vino, in vino addirittura eccellente, più buono di quello che gli astanti avevano bevuto fino a quel momento”. Ma il vino, insieme al pane, nel Cattolicesimo diventa simbolo stesso della presenza di Cristo: “Il vino è scelto in quanto elemento essenziale per la gioia della vita di una persona, così come lo è Gesù. Nell’Eucaristia, quindi, si trasforma nel sangue stesso di Gesù, speso fino all’ultima goccia per il proprio popolo” conclude Padre Don Filippo Belli.
Il discorso cambia radicalmente una volta che andiamo a confrontarci con una religione a noi sempre più vicina, ma che siamo ancora ben lontani dal conoscere, anche in ciò che concerne la proibizione di consumare vino. “La proibizione rivolta dal profeta Maometto trasmettendo il Corano agli Arabi, grandi intenditori di vini, ha un basamento scientifico - spiega Mohamed Nasimi, vice presidente della Comunità Islamica di Colle Val d’Elsa e Siena - Allah dice infatti di non consumare vino prima della preghiera, per non compromettere le capacità cognitive di chi si appresta a raccogliersi tra le mani di Dio. C’è poi una seconda frase sul vino pronunciata da Allah a Maometto - prosegue Mohamed Nasimi: “Ti chiederanno cosa c’è di buono e cosa di cattivo nel vino. Dì che di buono c’è il commercio, di cattivo le conseguenze del berlo”. Si fa quindi riferimento ai danni sociali che derivano dall’assunzione di vino. Successivamente fu considerata sostanza non lecita ed impura, al pari del gioco d’azzardo e del mangiare animali morti non per mano dell’uomo”. Siamo nell’arco di tempo che va dal 630 al 635 d.C., e il rapporto con il vino viene spiegato nella prima parte del Corano, tutta dedicata al credo. “Il vino inoltre nella nostra religione non assume particolari simbolismi, ma solo una sostanza chiaramente proibita, tanto che negli anni la Sciari’a – l’insieme degli studi religiosi - dice che qualsiasi quantità d’alcol è da considerarsi proibita. La stessa proibizione che riguarda il vino si può quindi estendere ad ogni bevanda alcolica, dalla birra al whisky, ed è un precetto fondamentale per un buon musulmano, da cui non si può prescindere”. Tanto che nei Paesi islamici l’uva prodotta viene esportata o destinata a produzioni diverse da quella vinicola, specie l’aceto, perché dopo il quarantesimo giorno di fermentazione il mosto dealcolizzato: il gruppo “OH” dell’alcol lascia spazio al gruppo “CO OH” dell’aceto, e la sostanza proibita diventa pura. “È molto importante ribadire che il divieto di bere alcol nasce comunque da constatazioni scientifiche: oggi, infatti, un gran numero di incidenti stradali avviene per colpa dell’alcol, senza contare i costi che paga la società per i malati di cirrosi epatica: l’alcol, in conclusione, non porta alcun beneficio, se non il commercio”. Religioni diverse, punti di vista diversi, che a volte appaiono inconciliabili, ma che in realtà, nel rispetto delle religioni, delle culture e delle tradizioni degli “altri”, si rivelano assolutamente in grado di convivere: “Solo il rispetto, rivelandoci il “sacro”, quanto cioè non può essere per nessun motivo oltraggiato, ci preserverà dal profanare il presente, incuranti del futuro” (Cristoph Schönborn).

Focus - Il vino italiano da Papa Francesco con Fondazione Italiana Sommelier
Marilisa Allegrini, Roberto Anselmi, Piero Antinori, Jacopo Biondi Santi, Antonio Capaldo, Marco Caprai, Alessandro Ceci, Riccardo Cotarella, Piernicola De Castris, Enzo Ercolino, Angelo Gaja, Carlo Guerrieri Gonzaga, Nicolò Incisa della Rocchetta, Chiara Lungarotti, Marina Masciarelli Cvetic, Giancarlo Moretti Polegato, Marco Pallanti, Francesca Planeta, Luciano Sandrone, Lucio Tasca d’Almerita, Vincenzo Tassinari (Unipol-Sai), Francesco Valentini, Ornella Venica, Maurizio Zanella, Nadia Zenato: ecco, in ordine alfabetico, alcuni dei produttori, tra i 150 protagonisti del mondo del vino italiano che, il 21 gennaio, grazie alla Fondazione Italiana Sommelier di Franco Ricci, saranno ricevuti in udienza da Papa Francesco a Roma. Insieme a loro enologi di fama come Donato Lanati, Franco Bernabei e Barbara Tamburini, il mondo dell’università, rappresentato da Attilio Scienza, giornalisti del vino di tv e quotidiani, siti internet (ci sarà, tra gli altri, anche Alessandro Regoli, direttore WineNews) e stampa di settore, Vinitaly, con il dg Giovanni Mantovani, Gambero Rosso, con il presidente Paolo Cuccia, Slow Food, con la vice presidente Francesca Rocchi, l’Onav, con il neo presidente Vito Intini e Fisar, con il presidente Mario del Debbio, l’Associazione Italiana Sommelier (anche i Sommelier dell’Olio), la Worldwide Sommelier Association e molti Sommelier che, nella loro divisa, saluteranno il Santo Padre.
“Un momento che ho voluto fortemente - spiega Ricci a WineNews.tv - incuriosito dal fatto che più volte ho sentito il Papa riferirsi al vino non solo pensando al sacrificio di Cristo o alla simbologia cristiana, ma anche al suo aspetto edonistico. Ed è un momento importante di quel percorso che come Fondazione vogliamo portare avanti, per far cambiare, in meglio, il rapporto tra istituzioni di vario genere e livello e il vino stesso”. E chissà che, con l’occasione, la sommellerie mondiale non possa fregiarsi di un sommelier “ad honorem” importante come non mai. D’altronde, lo stesso Bergoglio ha detto: “senza vino non c’è festa”. E allora che festa sia.

Focus - Dal pane al vino la “lingua” comune dei popoli del Mediterraneo è il cibo più semplice. “Differenza finisce di fronte a immagini che evoca” dice lo scrittore Camilleri. Padre Pizzaballa custode Terrasanta a WineNews: “le religioni forse non lo sanno”
L’olio, il pane, il vino, persino l’anice e, ovviamente il pesce, a pensarci bene, sono i cibi più semplici ed elementari, la “lingua” comune dei popoli del Mediterraneo. “Sono le colonne portanti del nostro cibo. E sono comuni, questo è il bello. Ibn Hamdis, il più grande tra i poeti nati in Sicilia durante la dominazione araba, costretto all’esilio in Spagna, è pronto a barattare i giardini dell’Andalusia pur di ritrovare l’odore del basilico che c’era attorno alla sua casa di Noto. È un’immagine strepitosa: quanto queste immagini sono comuni, come ogni differenza di razza, di nazionalità finisce di fronte a queste assolute realtà di un sapore, di un odore”. È così per lo scrittore Andrea Camilleri, intervenuto, nei mesi scorsi, con una video intervista all’evento “Expo Medit il cibo. Milano porta del Mediterraneo e piattaforma per l’Europa”, promosso a Milano dal Cipmo-Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente, con il Patrocinio di Expo2015, per capire quali siano le potenzialità e le occasioni di scambio tra i Paesi all’Expo.
“Se si pensa al pane, alla pita araba che diventa la pizza napoletana, all’anice che si usa nell’aperitivo in Francia, in Grecia, nell’Arak arabo, il cibo unisce e accomuna le diverse civiltà e comunità, anche nelle religioni”, sottolinea a WineNews Janiki Cingoli, direttore del Cipmo. “Nelle religioni però è anche elemento di divisioni - dice Padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terrasanta a Gerusalemme, intervistato da WineNews - le relazioni con il cibo nel Cristianesimo, Ebraismo ed Islamismo sono diverse. Ma il cibo può diventare metafora delle relazioni tra le persone e delle opportunità che ci sono. Con il cibo si fanno gli accordi migliori. Queste religioni hanno tutte origini mediorientali, stessa cultura e stesse tradizioni alimentari. Solo che, forse, non lo sanno”.
Il riconoscimento della Dieta Mediterranea a Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità Unesco, modello nutrizionale e culturale al tempo stesso, espressione della comune identità mediterranea, “non è casuale - sottolinea Cingoli - è una dieta che consente la sanità della vita rispetto alla deformazione della cultura industriale contemporanea”. Dove il cibo come fonte di vita è anche simbolo del dialogo con la divinità e della divinità stessa. “Il pane, l’olio, il vino, il bestiame - sottolinea Padre Pizzaballa - sono elementi base della Dieta Mediterranea e metafore religiose molto potenti, segni della relazione con Dio. Con il vino l’Islam non va molto daccordo, ma nell’Ebraismo e nel Cristianesimo il vino è segno di gioia, non si fanno celebrazioni senza”. Nei romanzi dello scrittore Andrea Camilleri, l’amore per il cibo è una forza primigenia, a volte più forte dell’amore stesso.
“Certe volte è un bellissimo, meraviglioso companatico dell’amore. Ho vissuto la mia infanzia dentro foreste di olivi saraceni - racconta lo scrittore - che, invece, di andarsene in verticale, si estendono soprattutto in orizzontale con rami drammaticamente contorti, che nel loro dipanarsi, hanno una manifestazione di vitalità strepitosa. Ora sono scomparsi per fare largo al cemento. C’è stato un signore al mio paese, che è un paese di mare, Porto Empedocle, che invece è riuscito con dei Tir a prendersi un enorme olivo saraceno e a portarselo dalle sue parti. E tutti lì ad aspettarsi il miracolo che fiorisse: è fiorito. È fiorito, una commozione, come un essere che torna alla vita. E hanno scoperto che ha un minimo di 1600 anni, ha visto passare tutta la storia e sta lì. Mi hanno telefonato dicendomi: “sta cominciando a produrre olive”, è eterno”.
“Noi - riflette Camilleri - siamo stati capaci di prendere queste cose elementari della sopravvivenza dell’uomo e spostarle veramente in un altro significato. L’olio è anche il viatico, l’olio santo che si dà in punto di morte. E il vino è il miracolo della transustanziazione, per i credenti si tramuta nel sangue di Cristo. E poi c’è il pane nell’Ultima cena: li abbiamo elevato a simbolo non solo della nostra vita materiale, terrena, quotidiana, ma anche di ben altro”. E il divieto di bere di certi popoli è un elemento sovrapposto agli elementi originari, aggiunge lo scrittore: “per esempio i poeti arabi bevevano a livelli mostruosi, mentre poi è proibito l’uso in seguito. Bisogna distinguere tra quello che è stato l’istinto dell’uomo verso certi nutrimenti, da quelle che sono le regole che successivamente sono state imposte”.

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