Questa la prolusione di Gianni Zonin nella seduta di all’Accademia Italiana della Vite e del Vino (il presidente dell’Accademia è il professor Antonio Calò) su “I produttori vitivinicoli italiani di fronte alla sfida del Nuovo Mondo”.
“… Nel corso di questo intervento cercherò di toccare alcuni argomenti che giudico di cruciale importanza per il futuro della viti-vinicoltura italiana e delle sue prospettive concrete di sviluppo.Ritengo però che essa vada vista in un contesto europeo e quindi preferisco presentare prima una visione di più ampio respiro e globale.
Articolazione del mercato del vino e strategie di sostegno sono temi al centro della mia attenzione potrei dire da una vita. Proprio il prossimo anno cade il cinquantesimo anno di mia personale attività nel settore vitivinicolo. Sono infatti entrato nell’azienda di famiglia nel 1957. E posso dire che in questi dieci lustri molto è cambiato nel mondo del vino: in Italia come in tutto il resto d’Europa, ma soprattutto sono cambiati gli scenari di domanda, si sono alzati i livelli di qualità, sono mutati i competitors.
Non ho nessun timore nell’affermare che oggi il mondo del vino è spaccato in due segmenti: da una parte sta l’Europa, la culla tradizionale del vino, dall’altra sta quello che ormai noi chiamiamo il “Nuovo mondo del vino” rappresentato dai paesi emergenti nel nostro settore.
Ma ci sono altre due linee di demarcazione che tuttavia costituiscono lo stesso fronte: da una parte stanno i paesi a clima temperato freddo, dall’altra stanno i paesi a clima temperato caldo e arido. E ancora da una parte stanno i “vini di territorio”, dall’altra stanno i “vini varietali”.
Cercherò nel corso del mio intervento di articolare queste differenze per far comprendere come si è evoluto il mercato mondiale del vino, ma anche e soprattutto per esporre qual’ è la sfida che si presenta per i prossimi anni e di come oggi non sia più possibile sostenerla “da soli”, nel ridotto dei nostri mercati nazionali, ma come invece si debba articolare la risposta in termini di “sistema europeo” che pur salvaguardando le diversità e le necessarie peculiarità, tuttavia dia luogo ad un’azione comune di tutti i produttori della “Vecchia Europa”.
Se mi volgo indietro di alcuni decenni trovo uno scenario completamente diverso da quello che oggi si presenta agli operatori del settore vitivinicolo. Ricordo un aneddoto che si sentiva raccontare agli inizi degli anni 70 - lo riferisco per come era accreditato non essendone stato testimone diretto - secondo il quale la baronessa Philippine de Rothschild degustando un Cabernet della Napa Valley a chi le faceva notare la potenziale concorrenza dei produttori californiani rispose: “me ne preoccuperò tra duemila anni”. A significare che il vino è storia, che il vino è contenuto antropico-culturale e che non basta la tecnica a produrre un grande vino.
Confessiamolo: lo abbiamo pensato tutti e per molti decenni. Questo aneddoto mi è tornato in mente quando alla fine di gennaio a New York ho assistito al “Wine Star Award Dinner” di “Wine Enthusiast”.
Su 6 premi conferiti, ben 4 dei più prestigiosi sono andati a uomini o cantine o aree viticole del Nuovo Mondo:
Winemaker of the year: Peter Pago (Penfolds - Australia)
Wine region of the year : Colchagua Valley (Chile)
New World Winery of the year: Don Sebastiani & Son (California)
American Winery of the year: Vergelegen (South Africa)
I 2 premi andati agli europei sono:
Man of the year: Patrick Ricard (France)
Europian Winery of the year: Champagne Luis Roderer (France)
Basta questo a dire che lo scenario del vino nel mondo è radicalmente cambiato. Ma è del tutto ovvio che non possiamo limitarci a prenderne atto. Occorre una reazione che implica azioni almeno su tre diversi livelli di responsabilità: il primo è l’ambito aziendale, il secondo è a livello di singoli paesi, ma il terzo è sicuramente allocato in sede europea intesa sia come area geografica che come istanza istituzionale.
I problemi che l’Europa ha di fronte e sui quali dobbiamo agire sono di questi:
Il primo è il rinnovamento del vigneto europeo per il quale occorre una sforzo finanziario che da soli i produttori non possono sostenere.
Il secondo è di adeguamento della normativa. Siamo di fronte ad una sfida decisiva perchè delle due l’una: o i paesi del nuovo mondo vitivinicolo si adeguano alle normative europee, oppure noi europei dobbiamo essere liberati da un eccesso di vincoli normativi. In questo ambito ricade anche la necessaria tutela dei nostri marchi di origine. In sede di Wto l’Europa ancora una volta non è riuscita a far passare la logica delle denominazioni e ci troviamo perciò esposti gravemente al rischio di essere come un pugile che chiamato a battersi per il titolo mondiale si trova a dover affrontare l’avversario con una mano legata dietro la schiena. Non stiamo insomma combattendo la battaglia della concorrenza ad armi pari.
Il terzo ordine di problemi che dobbiamo affrontare è la razionalizzazione del sistema vino. C’è un problema di dimensioni aziendali, di calo dei consumi, di adeguamento delle strategie per essere presenti sui nuovi mercati mondiali. E vi è una debolezza dell’Europa come istituzione nel difendere le nostre produzioni e nel diffonderle.
Il quarto ordine di problemi riguarda il marketing del vino. Non c’è una strategia europea di difesa dell’immagine dei vini territoriali e vi è sostanzialmente una carenza di rappresentazione dei nostri prodotti. Ci siamo fatti imporre stili di comunicazione, che si sono poi tradotti in stili del vino, dai paesi che sono diventati nostri concorrenti e non abbiamo oggi strumenti adatti per reagire a questo stato di cose.
Credo che a questo punto occorra uno scatto in avanti del sistema vino europeo che sottolinei le diversità positive delle nostre produzioni, che consenta alle aziende di stare efficacemente sui mercati, che ridia all’Europa il primato in termini di produzione e di consumo. Se lasceremo spazio agli altri ci troveremo rapidamente in minoranza, avremo una massa critica di produzione insufficiente a contrastare i nuovi concorrenti.
Se per un attimo guardo all’Italia trovo aziende troppo piccole, trovo vigneti troppo vecchi e al contempo una contrazione della superficie vitata, trovo una sempre minore quantità consumata pro-capite, trovo un eccesso di normazione e un’insufficiente tutela della produzione, trovo una competizione sempre più agguerrita che le singole aziende devono sostenere sul mercato globale e una inefficienza del sistema paese che non è in grado di far penetrare il vino italiano sui mercati emergenti. Ecco, ciò che io vedo in Italia, non mi pare, fatte le debite proporzioni, che sia molto diverso da quanto accade nel resto d’Europa.
Anzi guardando all’Europa allargata ci si pone il problema dell’armonizzazione delle viticolture dei paesi che sono entrati recentemente nell’Unione. Questi paesi, ma non solo loro, hanno un problema legato all’obsolescenza dei vigneti e avranno un problema di adeguamento alle normative comunitarie. Rinnovare i vigneti, adeguare la qualità, implementare anche in queste viticolture il sistema dei disciplinari e il corredo normativo che aggancia i vini alla territorialità è una strada obbligata per l’Europa e sicuramente segna un momento di impasse del “Vigneto Europa”.
Tutto questo accade mentre i cosiddetti paesi del Nuovo Mondo enologico hanno compiuto passi da gigante.
Ricordo che il mio primo viaggio negli Stati Uniti per conoscere la loro vitivinicoltura risale al 1961. Allora la Napa Valley come sistema complessivo non esisteva, era un piccolo distretto viticolo. Pochi anni più tardi, e precisamente nel 1973, sono andato ad esplorare in lungo e in largo l’Australia per capire le potenzialità di questa nazione-continente. Strinsi anche una joint venture nel distretto di Melbourne, ma le condizioni operative e qualitative di allora non erano affatto favorevoli e decisi di non continuare questa attività australiana.
Parlo di meno di quaranta anni fa, la vita media di un vigneto! Ebbene allora l’Australia faceva fatica a produrre 700.000 ettolitri, il Cile arrivava a meno di 2 milioni di hl, l’America non oltrepassava la soglia dei 12, il Sud Africa riusciva, nonostante una tradizione più radicata, appena ad avvicinarsi ai 7 milioni di ettolitri. Tutto il cosiddetto Nuovo Mondo produceva meno della sola Italia.
Se oggi provassimo a disegnare una sorta di mappamondo del vino vedremmo che le cose sono radicalmente mutate. Territori che non avevano mai conosciuto la viticoltura, se non residuale e importata dagli emigranti, oggi stanno producendo grandi quantità di vino e soprattutto si stanno piantando ogni anno migliaia e migliaia di ettari. Potrei dire della Nuova Zelanda, della Tasmania, perfino territori piccoli come Kangaroo Island diventano “patrie del nuovo vino”. E i più radicati tra i paesi del Nuovo Mondo del vino come Stati Uniti ed Argentina stanno arrivando a volumi produttivi direttamente concorrenziali con Italia, Francia e Spagna. Se non ci rendiamo conto di questa nuova geografia vitivinicola e se non capiamo che i rapporti di forza stanno radicalmente cambiando non potremo mettere in atto nessuna azione di contrasto all’espansione sia produttiva sia commerciale del Nuovo Mondo.
Ma prima di indagare gli effetti di questo mutamento dei rapporti di forza converrà indagarne le cause. Dobbiamo capire che cosa ha reso possibile l’espansione del vigneto nel mondo e la nascita di nuove potenze vitivinicole.
Le ragioni sono di tre ordini: tecnologiche, normative e di marketing.
Le ragioni tecnologiche sono quelle che hanno consentito di piantare vigna anche là dove non sembrava possibile farlo, sono quelle che hanno consentito di fare vino anche la dove non vi erano le condizioni per produrre. Bastano pochi esempi per capirci: l’irrigazione goccia a goccia ha “sconfitto” la sete della vigna nelle regioni a clima caldo, il controllo delle temperature delle fermentazioni ha consentito di produrre vino anche la dove non vi erano le condizioni di base per avere un prodotto di qualità.
Questi accorgimenti - come altri che potrei enumerare - hanno dato luogo ad una nuova vitivinicoltura nelle zone del mondo dove tradizionalmente non vi è mai stata coltivazione perché vi erano delle barriere naturali costituite dal clima.
Ma non dimentico che queste frontiere tecnologiche, che sono appannaggio anche e soprattutto delle cantine europee, hanno avuto anche l’effetto di far nascere una sorta di “sudditanza psicologica” verso il nuovo mondo vitivinicolo. Non sfuggirà che molti enologi australiani e nordamericani sono stati chiamati dalle cantine europee a svolgere consulenze con ciò cambiando i connotati del nostro vino che in alcune recenti epoche ha teso ad assomigliare per gusto e per tecnica di produzione a quelli del nuovo mondo.
Le ragioni normative le conosciamo tutti. In Australia, ma anche negli Usa e in tutto il Sud America sono consentite pratiche di cantina da noi severamente vietate, non ci sono vincoli alla messa a dimora dei nuovi vigneti e le quantità di vino prodotte e per conseguenza gli ettari di vigna in produzione sono soltanto regolati dal mercato. Il costo dei terreni è di gran lunga inferiore e soprattutto consente a queste cantine di lavorare “secondo mercato”. Inoltre questi produttori hanno scelto di puntare sui cosiddetti vini varietali. Hanno piantato Cabernet Sauvignon, Merlot, Syrah, Chardonnay, Sauvignon e con questi vitigni omnibus, facendo vini di grande carica gustolfativa, sono andati alla conquista del mondo. Basti pensare a un caso per tutti: il marchio australiano Yellow Tail che in soli 5 anni ha raggiunto in Usa un record di vendite pari a circa 10 milioni di casse.
Oggi il vigneto mondiale è esteso all’incirca su 7,8 milioni di ettari di cui appena il 57% per cento, si trovano in Europa. Tutto il resto, pari a 3.400.000 ettari, è nel Nuovo Mondo e l’Europa ha perso negli ultimi 30 anni quasi un milione di ettari vitati (dati Fao 2005).
Non servirà che io vi ricordi che il regime delle quote della Vecchia Europa non ha consentito la stessa flessibilità alle nostre Aziende. Noi abbiamo avuto il blocco degli impianti, la compravendita dei diritti di reimpianto con l’obbligatorietà di fatto della messa a dimora delle viti nelle singole regioni, per cui chi vuole piantare non può acquistare se non da chi estirpa in quella regione stessa.
Se guardo all’Italia vedo la contrazione del vigneto sempre più marcata: siamo passati nel volgere di un trentennio da oltre un milione e centocinquantamila a circa 750 mila ettari! E per inciso a Bruxelles stanno pensando nuovamente ad un premio per l’abbandono dei vigneti.
Ma non è tutto. Le cantine del nuovo mondo dal punto di vista fiscale, dal punto di vista del taglio dei vini e dal punto di vista dei coadiuvanti enologici hanno la massima libertà: si pensi alle tecnologie che vanno oltre le pratiche normali e che possono modificare le caratteristiche del vino come la nanofiltrazione, l’ultrafiltrazione, le membrane bipolari, l’utilizzo dello spinning cone (aroma managment). E’ chiaro che così operando hanno avuto enormi vantaggi competitivi. Mentre l’Europa vincolava sempre di più le produzioni, i nostri competitors ci aggredivano con vini sempre pronti, sempre uguali, con grande flessibilità nel poter soddisfare la domanda e con un dumping sui prezzi favorito anche dai minori costi di gestione delle loro aziende. Si pensi alle potature e alle vendemmie meccaniche, si pensi alla minore incidenza dell’investimento fondiario, si pensi alle pratiche enologiche che consentono di “modellare” i vini e quindi di avere non tanto vini di territorio ma piuttosto vini-bevanda.
Le ragioni di marketing sono ben presto riassunte: questi vini, avendo costanza di gusto e profittando di un prezzo competitivo, sono stati esportati con il preciso intento di penetrare, talvolta sottocosto, nei mercati nuovi e in quelli dove la Vecchia Europa era protagonista. Poi si è dato alle cantine del nuovo mondo un look aggressivo, si sono imposti modelli di consumo, si sono profusi grandi investimenti sia in comunicazione sia nella creazione delle reti vendite e di distribuzione. Su questo versante i nostri competitors che peraltro (è il caso dell’Australia) ci copiano i vini producendo Sangiovese di Barossa e Lambrusco di Kangaroo, hanno avuto un forte sostegno dai loro governi che hanno condotti accordi bilaterali con la Cina (è il caso di Australia e Cile) con il Giappone (è il caso dell’Australia) con tutto il Sud Est asiatico (è il caos della Nuova Zelanda). Questi produttori del nuovo mondo hanno colonizzato i loro mercati di prossimità, che sono grandi mercati potenziali per il consumo del vino, e contemporaneamente hanno lanciato l’offensiva sui nostri mercati tradizionali.
Il risultato è che oggi il fatturato mondiale del vino, che è pari a circa 115 miliardi di euro, vede i paesi del nuovo mondo detenere una quota che oscilla attorno al 35 % di questo fatturato, ma con incrementi che viaggiano a percentuali a due cifre. Basti dire che sui 290 milioni di ettolitri prodotti in tutto il mondo ci sono all’incirca 60 milioni di ettolitri (circa il 120% della produzione italiana) di eccedenze. E queste eccedenze praticamente sono tutte in Europa, dove tra l’altro c’è una contrazione di consumi (e l’allarme ancora una volta suona per noi europei: qui da noi si beve meno, mentre nel resto del mondo il consumo di vino si incrementa con il piccolo particolare che quel resto del mondo è servito in prevalenza dai nostri competitors).
Bene, questa offensiva come ho già sottolineato ha delineato una nuova geografia del vino nel mondo, ma ha anche messo a nudo le nostre debolezze come sistema Europa. Di alcune ho già detto, di altre mi limiterò qui a fare cenno perché le conosciamo tutti. Ma sono questi i ritardi strutturali che abbiamo accumulato e ai quali occorre porre rimedio se non vogliamo che tra una ventina d’anni, là dove pascolavano le pecore di Tasmania, ci sia il vigneto mondiale e qua, dove crescono le vigne della storia, pascolino le pecore!
E ora parliamo della nostra Italia. A mio avviso i nostri limiti sono questi:
1) Abbiamo un vigneto obsoleto, dobbiamo fare un grande sforzo finanziario per ripiantarlo. Da un calcolo approssimativo, in Italia si richiederebbe un investimento pari a 25 miliardi di euro. Infatti dei 750.000 ettari in produzione, solo 250.000 sono stati rinnovati. Per i restanti 500.000 ha., (calcolando un costo medio di 50.000 euro tutto compreso per il rinnovo di un ettaro), si arriva ai 25 miliardi di euro totali pari a 50.000 miliardi di vecchie lire. E’ ovvio che le nostre aziende vinicole da sole non ce la possono fare, serve che l’Ue si attivi con finanziamenti ad hoc per ricostituire i nostri “beni strumentali”. Sarebbe auspicabile che l’Ue mettesse a disposizione almeno il 50% del costo per consentire ai produttori di aggiornare i propri vigneti in termini di varietà, per renderle più aderenti alle richieste del mercato anche dal punto di vista qualitativo, aumentando il numero di ceppi per ettaro e rendendo meccanizzabili le operazioni colturali.
2) Soffriamo di nanismo. Le nostre aziende sono troppo piccole per stare sul mercato globalizzato. Basti dire che l’unità media in Italia è di 1,2 ettari, in Francia di 4, in Spagna di 8, in Portogallo di 5, in Germania non arriva a 3 ettari a fronte di aziende che in Australia sono di 300 ettari, in Cile di 150 ettari. E in più noi italiani, avendo proprietà così parcellizzate, non abbiamo massa critica finanziaria. Oggi la sfida del vino non è fatta più soltanto di fattore umano (indispensabile peraltro) di terroir e di qualità, è fatta anche di investimenti, di capacità commerciali, di marketing, di accordi con i grandi distributori. Adesso in Cina 4 grandi catene controllano il mercato (immenso) della Cina, ma gli accordi commerciali di questo nuovo paese consumatore (che si avvia anche a diventare produttore e con regole totalmente diverse dalle nostre, basti dire che in Cina sotto la dizione vino va qualsiasi bevanda sia estratta dalla frutta e abbia una parte alcolica) si fanno ora e si fanno sulla base di milioni di casse. Basti dire che cinque aziende australiane concentrano nelle loro mani il 75% della produzione di quel paese, una produzione che quest’anno supererà i 25 milioni di ettolitri. Stiamo perdendo importanti appuntamenti commerciali. E a causa delle nostre mancate sinergie non siamo in grado né di fare indagini di mercato né di fare un lavoro diplomatico-commerciale che ci consenta di penetrare sui nuovi mercati e di difendere le nostre tradizionali presenze.
3) Abbiamo un certo ritardo di fronte al cambiamento di gusto del consumatore e di fronte al modo in cui si articola il mercato mondiale del vino. I nostri competitors penetrano su questi mercati sulla base di vini sempre uguali, di gusto piacevole, senza storia, ma di facile bevibilità, a prezzi competitivi e con packaging riconoscibile, semplice, accattivante che non crea barriere psicologiche all’acquisto. E’ vero che sulle produzioni di alta gamma anche Australia, America e Sud Africa stanno inserendo elementi di territorialità ed è del pari vero che sull’alta gamma l’Italia mantiene un suo primato, ma è anche vero che se i nostri competitors conquistano definitivamente le fasce basse e medie del consumo noi finiremo con difendere soltanto delle nicchie e avremo però perso molto del nostro comparto vitivinicolo. Con gravissime conseguenze economiche ed occupazionali. Teniamo ben presente che il settore del vino, degli alcolici e degli aceti coinvolge in Italia nel complesso circa 700 mila persone tra addetti esclusivi (vigneto e cantina 560.00) e persone che “gravitano” attorno alla filiera produttiva (trasformazione e distribuzione 140.000). Esso concorre al sistema economico con un fatturato complessivo stimato in oltre 20 miliardi di euro (di cui 9 riconducibili esclusivamente al vino), con un indotto in termini di consumi del settore - dal vigneto alla trasformazione - di più di 2 miliardi (tra cui 680 milioni per l’energia, quasi 600 milioni per le bottiglie, più di 100 milioni per i tappi, 160 milioni per le etichette, 240 milioni per il cartone). (Rapporto Ministero Attività produttive).
Da quanto ho fin qui esposto emerge che la situazione per il settore vitivinicolo italiano è piena di incognite e serve una pronta reazione senza la quale siamo destinati al declino di un comparto che è non solo economicamente centrale, ma che è soprattutto un cardine della nostra cultura, della nostra identità, della nostra civiltà.
Come rispondere quindi efficacemente a questa offensiva a tutto campo per fronteggiare le sfide del mondo vinicolo nel III Millennio?
Di fronte a questa globalizzazione del mercato ed alla internazionalizzazione del gusto e per fronteggiare una concorrenza mondiale che appare ormai in grado di produrre vini tecnicamente buoni anche se privi di storia e di terroir, la nostra viti-vinicoltura ha una sola strada da percorrere: quella di recuperare competitività, di chiedere il rispetto di regole comuni a livello mondiale, di rafforzare la propria capacità produttiva, di incrementare gli investimenti in marketing, quella infine di difendere la propria identità.
Servono sostanzialmente tre offensive:
a ) una a livello politico che consenta all’Italia di difendere il suo sistema di valori e di produzione e di diffondere la nostra cultura del vino;
b) una a livello commerciale che è contemporaneamente contenimento dei prezzi al consumo ed offensiva di marketing oltrechè rigida tutela dei nostri marchi e dei nostri terroir e dei nostri vitigni tradizionali;
c) e una a livello strutturale che è aggregazione di aziende e anche ricomposizione dei diversi Comitati o Istituzioni esistenti in Europa in un Organismo Vinicolo Intereuropeo che deve suggerire e contribuire all’armonizzazione delle nostre leggi e imporre il rispetto delle stesse ai nostri competitors. Accanto a questo Organismo va costituita una Associazione di Produttori Europei che periodicamente affronti tutte le tematiche del vino per poter fornire strumenti tecnici alle istanze istituzioni e politiche a tutela del nostro settore. Non sfuggirà ad esempio che in sede di Commissione Europea non si è mai riusciti a far passare la differenza che esiste tra alcol e vino, con conseguenze culturali forti ma con il rischio continuo che normative tese a contrastare l’alcolismo finiscano per intaccare l’immagine del vino che con grande fatica e nel corso dei millenni abbiamo costruito.
Le mie proposte concrete sono dunque:
1) Sostegno al rinnovamento del “Vigneto Italia”; chiedendo alla Ue di finanziare il miglioramento del nostro patrimonio viticolo contribuendo con almeno il 50% del costo dell’impianto;
2) Armonizzazione della legislazione mondiale a quella europea con la diffusione del criterio della territorialità e l’imposizione di regole comuni nelle pratiche di campo e di cantina;
3) Revisione del sistema delle quote di impianto;
4) Incentivare l’accorpamento fondiario per ottenere aziende di maggiori dimensioni in grado di costruire economie di scala e ridurre i costi di produzione;
5) Tutela dei vitigni bandiera, i così detti “vitigni autoctoni” (o come li chiama il nostro presidente prof. Antonio Calò “tradizionali”) di ogni singola regione, come ad esempio il Nebbiolo, il Nero d’Avola, il Refosco, il Vermentino, il Fiano, la Corvina, il Sangiovese, per legare anche il nome delle più storiche varietà italiane ai nostri territori di antica tradizione vinicola;
6) Tutela dei marchi e delle denominazioni a livello mondiale;
7) Sostegno alle azioni di marketing da intraprendere per sostenere il consumo di vino interno e allargare il perimetro di consumo, informando allo stesso tempo in modo corretto il consumatore sugli effetti salutistici del vino;
8) Creazione di nuove professionalità a livello europeo attraverso una formazione alta per sostenere le sfide di mercato attraverso esperti di marketing, di psicologia dei consumi, di organizzazione delle reti vendita;
9) Offensiva diplomatico commerciale da parte della Comunità Europea per stringere accordi bilaterali con i paesi che si stanno affacciando al consumo del vino;
10) Contenimento dei prezzi al consumo e riprofilatura della percezione del vino con packaging più accattivante, capace di comunicare al consumatore il piacere di bere dell’ottimo vino italiano che ha certezza di origine e quindi di salubrità, che ha personalità ed identità, che nasce dai territori ma che non necessariamente deve essere consumato seguendo una ritualità quanto piuttosto seguendo una ricerca della piacevolezza;
11) Costituzione di un Organismo Viticolo Intereuropeo che rappresenti le istanze sindacali dei viticoltori;
12) Avere un costante monitoraggio del mercato mondiale del vino attraverso ad esempio un costante aggiornamento dei dati Eurostat. Da questo punto di vista confesso che nello stilare questa mia relazione ho avuto una qualche difficoltà a reperire e confrontare i dati (le mie fonti sono Oiv, Eurostat, Ismea, Ice, Fao) il che esemplifica, a tacer d’altro, quanto ritardo in termini di analisi di marketing abbiamo accumulato come europei sul fronte vitivinicolo.
A mio modo di vedere questi sono gli interventi urgenti che servono, ma sono anche le fondamenta su cui poggiare il futuro della nostra vitivinicoltura. E credo che solo così facendo il vino italiano potrà affrontare con successo la sfida della globalizzazione. E solo così il “Vigneto Italia” potrà restare - come lo è stato sempre - il primo produttore di vino nel mondo.
Gianni Zonin
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