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LA REPUBBLICA

L’annata record del vino italiano ... Grazie a un’estate straordinaria, la vendemmia è stata eccezionale sia per qualità che per quantità. Con 48,9 milioni di ettolitri di produzione abbiamo superato la Francia dopo un primo semestre di forte boom nelle esportazioni. Ma gli addetti ai lavori avvertono: c’è ancora molto da fare per migliorare la nostra presenza all’estero e riconquistare il mercato interno, dove dal 2008 i consumi sono scesi del 19%. E per difenderci meglio dai rischi di truffe, malgrado controlli rigorosissimi che prevedono persino esami eseguiti con la risonanza magnetica.

Francia battuta, siamo tornati campioni
Ovviamente la “buona notizia” è arrivata anche qui, nella cantina Ermete Medici. Con una produzione di 48,9 milioni di ettolitri - dati ufficiali della Commissione europea - nella vendemmia 2015 l’Italia ha superato la Francia, ferma a 46,6 milioni e la Spagna, più lontana con 36,6 milioni. Insomma, il nostro paese taglia per primo il traguardo, che l’anno scorso era stato preso dai cugini di Oltralpe. “L’Italia - commenta il ministro delle politiche agricole Maurizio Martina dopo aver letto Repubblica.it - si conferma la patria del vino, tornando ad essere leader anche nella produzione. Abbiamo una ricchezza straordinaria con oltre 500 vitigni coltivati e vogliamo valorizzare ancora di più il grande lavoro fatto dalle nostre aziende in questi anni. Per questo a Expo abbiamo dedicato al vino italiano un padiglione che ha mostrato a più di un milione e mezzo di visitatori la forza, la storia e il futuro di questo settore. Siamo pronti a sostenere con ancora più determinazione l’export che ormai supera stabilmente i 5 miliardi di euro all’anno”. Nel 2014 erano italiane il 17% delle bottiglie vendute in tutto il mondo e il 28% di quelle vendute in Europa: con una produzione più alta, anche le percentuali potranno aumentare. La cantina Ermete Medici - che produce Lambrusco da 120 anni - forse è il posto giusto per capire meglio cosa stia davvero succedendo nel mondo del vino. C’era una volta la Red Cola. Le facce, innanzitutto. Quelle di Giorgio e Alberto Medici (padre e figlio) sono perplesse. Ma come, primi in Europa e nel mondo, non è il caso di stappare una bottiglia? “La buona notizia c’è - spiegano i due vignaiuoli - ma non è quella del primato nella produzione. La vera buona novella è che quest’anno c’è un’ottima qualità dell’uva che permetterà di fare in gran parte d’Italia ottimi vini. Per noi produttori oggi la prima preoccupazione è questa: riusciremo a vendere tutto il vino che sta nascendo nei nostri tini? Noi del Lambrusco veniamo da una storia lunga e travagliata. Negli anni ’70 il nostro vino veniva chiamato Red Cola, la Cola rossa, non sembrava nemmeno più vino. Erano gli anni in cui nelle terre forti e fertili del modenese e del reggiano si riuscivano a produrre 300 quintali di uva per ettaro. Abbiamo capito che così avremmo continuato a mettere sul mercato un vino che stava perdendo anche il nome. E abbiamo fatto una scelta precisa: come Consorzio di tutela abbiamo deciso di rinnovare i vigneti, di non produrre più di 180 quintali all’ettaro. E noi come famiglia Medici, per avere un prodotto ancor più pregiato, in molti vigneti abbiamo tagliato fino a 100 quintali”. Difficile trovare dati precisi, in questo mondo dove anche i numeri vengono usati per battere la concorrenza. L’Iri, Istituto internazionale di ricerca, ha fornito all’ultimo Vinitaly una classifica dei “10 vini più apprezzati dagli italiani”, considerando i “vini venduti nella grande distribuzione, in tutte le tipologie di formati” nel 2014. Al primo posto c’è il Lambrusco, con 13,3 milioni di litri. Seguono Chianti (11,7 milioni ), Bonarda (8 milioni), Barbera (7,7), Montepulciano (7,6), Chardonnay (7), Sangiovese (6,3), Nero d’Avola (5,8), Vermentino (5,7) e Prosecco (5).


“Vendemmia super, ma la nostra forza è il rapporto qualità prezzo”

Il boom del Prosecco. La storia di quest’ultimo, il Prosecco, è emblematica. E’ infatti in crescita impetuosa, proprio come il Lambrusco negli anni ’70. Per la vendemmia 2014 il Consorzio Prosecco doc ha annunciato una crescita di produzione del 26,9% rispetto al 2013. Questo perché la zona di produzione è stata fortemente allargata e oggi dai colli di Treviso è arrivata fino al Friuli. Boom delle esportazioni, con una vendita di 199.300.000 bottiglie. In particolare, 55 milioni di queste sono state vendute in Inghilterra, con un salto del 60% rispetto all’annata precedente. Vendere tanto, ma a quale prezzo? Una ricerca svolta dai professori Roberta De Sanctis e Armando Cirrincione del Wine Management Lad di Sda Bocconi - e diffusa pochi giorni fa dal sito WineNews - dimostra che i francesi, battuti sulla quantità, non hanno certo problemi a vendere bene le loro bottiglie. “Sul posizionamento di mercato - dicono i due ricercatori - grande è ancora la forbice che divide Francia e Italia. Il prezzo medio dell’imbottigliato d’Oltralpe tocca i 5,46 dollari al litro contro i 3,63 di quello italiano, mentre il prezzo medio dello sparkling (le bollicine, ndr) è addirittura di 18,59 dollari al litro, contro i 3,98 dello spumante italiano”.

L’importanza delle Doc. “Anche noi abbiamo vissuto tempi - racconta Ermi Bagni, direttore del Consorzio tutela Lambrusco di Modena - in cui bastava produrre tanto e vendere il più possibile. Negli anni ’70 ogni settimana partiva da Livorno una nave piena di container per gli Stati Uniti. Ma sempre in quegli anni facemmo una svolta. Decidemmo di legare i nostri vitigni - salamino, grasparossa e sorbara - al territorio. Ottenemmo il Doc, denominazione origine controllata. A fine anni ’70 arrivammo a 7 - 8 milioni di bottiglie, il record l’abbiamo fatto nel 2013 con 31 milioni mentre l’anno scorso e anche quest’anno siamo stabili sui 28 milioni. C’è poi il Lambrusco Igt - indicazione geografica tipica - ora diventato Igp, indicazione geografica protetta. Questo vino - si tratta di 130 milioni di bottiglie all’anno - deve essere prodotto e fermentato nella terra che va da Bologna a Piacenza, con una parte nel mantovano ma può essere imbottigliato in ogni Paese dell’Unione Europea. Per spiegare la differenza di reddito fra Doc e non Doc, basta dire che i terreni agricoli dei vigneti senza Doc rispetto ai primi costano la metà”.

Puntare sulla qualità. Anche Giorgio Medici, negli anni del rinnovamento, è stato presidente del Consorzio di Tutela del Lambrusco. “Adesso i prezzi del Doc del nostro consorzio si sono finalmente rialzati. Riusciamo a venderlo fra i 3 ed i 4,5 euro nella grande distribuzione, dove siamo il vino più venduto. In enoteche e ristoranti si sale anche sopra i 10 euro. Assieme a mio figlio Alberto credo di avere dato una mano a quella che chiamiamo il Rinascimento del Lambrusco. Nella mia azienda, alla fine degli anni ’80, abbiamo cambiato tutto. Sradicati tutti i vigneti, abbiamo puntato sull’uva di qualità, nel nostro caso il salamino. E abbiamo appunto ridotto la produzione a 100 quintali per ettaro, contro i 180 indicati dal Consorzio. Come i francesi, abbiamo seguito la “politica del cru”: il tal vino è unico ed ha buone caratteristiche perché viene prodotto nel tal vigneto del tal territorio. Finito il vigneto, finisce quel vino unico. I risultati sono arrivati: sette anni fa il nostro Concerto è stato il primo Lambrusco ad ottenere i 3 bicchieri del Gambero rosso e il riconoscimento si è ripetuto in tutti questi anni. Ora il Concerto e gli altri miei vini sono conosciuti nei ristoranti di mezzo mondo. I guadagni sono discreti, ma c’è soprattutto la soddisfazione di avere resuscitato il vero Lambrusco - il nome di questo vino italiano è ancora il più conosciuto nel mondo - facendo dimenticare la Red Cola e altri insulti”.

Il neo dei consumi in calo. Dovranno viaggiare molto, i frutti della nuova e ricca annata italiana. Nei vigneti è stato raccolto il 13% di uva in più mentre i coltivatori francesi hanno perso l’1%. Ma di fronte a tanta abbondanza, l’ultima indagine della Coldiretti rileva che i consumi interni sono in netto calo, tornando ad un minimo storico registrato nel 1861. “I consumi nazionali - dice la Coldiretti - sono scesi attorno ai 20 milioni di ettolitri, dietro a Stati Uniti e Francia, con una diminuzione del 19% dall’inizio della crisi nel 2008. La media di consumo è di 37 litri a persona all’anno ma solo il 21% beve vino ogni giorno e il 48,8% afferma di non berlo mai durante l’anno. Così il vino italiano è bevuto più all’estero che nel nostro Paese”. Questi numeri sono riferiti al 2014, quando l’Italia con 41 milioni di ettolitri era dietro la Francia. Ora l’Italia sta producendo 48,9 milioni di ettolitri e potrà riempire un’infinità di bottiglie. Resta ferma la domanda iniziale: chi le berrà?


Le nostre 400 Doc alla conquista del mondo

“Avremo un’ottima annata, ma oltre che per il raccolto il 2015 si sta confermando ottimo anche per le vendite, trainate dall’export”: Sandro Boscaini, il re dell’Amarone, presidente di Federvini, una delle due più importanti associazioni italiane del settore ha già archiviato un primo semestre in crescita del 6% in valore, un incremento destinato a salire entro fine anno, sulla scia dell’accelerazione che storicamente si registra in prossimità delle feste natalizie. “Un dato che conferma il vino come uno dei principali driver del settore agroalimentare”, commenta Boscaini. “A fronte di un mercato interno ancora in sofferenza, le vendite all’estero crescono ovunque, a parte alcune eccezioni come la Russia, con picchi particolarmente elevati in alcuni paesi, a partire dalla Polonia, un paese al galoppo che sta scoprendo il lusso anche a tavola e apprezza le etichette Made in Italy”, racconta. Il caso della Polonia è lo specchio del successo delle politiche di internazionalizzazione che, seppure non senza problemi, vedono i nostri produttori sempre più impegnati a conquistare quote su nuovi mercati.

Il rilancio del Chianti. Quest’anno è la Toscana ha brindato a una crescita euforica dell’export del 25,8%, come attestano anche i dati di Assoenologi. “La regione ha un forte appeal con i suoi Brunello e Bolgheri, ma ora è riuscita anche ad affermare alcuni bianchi, come il Vermentino, ma in particolare si sente il risultato del rilancio del Chianti”, racconta Boscaini. Chianti, con le sue sottozone (Rufina, Colli Fiorentini ecc.) e Chianti Classico, due Docg separate, sono l’espressione del distretto vitivinicolo più famoso d’Italia, quello che ha fatto storia sulle tavole del mondo. Ma che era finito ultimamente sotto il cono d’ombra di vini da supermercato, spesso venduti a prezzi bassissimi, surclassati da nuove etichette, più agguerrite, più innovative, che hanno fatto conoscere altri vitigni, altri territori. Un bene per la nostra economia. Ma per il Chianti, che aveva vissuto sugli allori, gli ultimi anni sono stati focalizzati sul rilancio. Ciascuna denominazione con le sue specifiche strategie.

Nell’insieme il distretto sta conoscendo un nuovo rinascimento di quello che, nonostante gli alti e bassi resta il vino più famoso al mondo. Il Chianti Classico, poi, che avoca a sé i grand cru, i territori più vocati con le etichette di eccellenza, ha spinto forte sull’Alto di gamma, creando una nuova tipologia di fascia alta, il Chianti Classico Gran Selezione. Grand cru destinati a tirare la volata del mercato dove già oggi si registra un trend in salita. Caccia al target medio-alto. “Dobbiamo puntare sempre di più sui prodotti di fascia medio-alta - commenta Boscaini- non ha più senso competere con i paesi che producono a basso costo, soprattutto in un mercato dove si affacciano nuovi paesi produttori”. La scommessa sta dando i suoi frutti: il prezzo medio al litro è salito, segno che l’export cresce in valore più ancora che in quantità. Siamo ancora lontani dalla Francia, ma il trend è in salita. Per l’Italia, un tempo definita la damigiana del mondo, è importante oggi fare leva sulla strategia del valore, considerato quello che avviene sul mercato: si assiste, infatti a un boom dello sfuso, dove però la parte del leone la sta facendo la Spagna, secondo l’ultima fotografia scattata dall’Uiv, Unione italiana vini, l’altra associazione di categoria guidata da Domenico Zonin. “Hanno avuto una produzione eccezionale e l’hanno riversata sul mercato a prezzi bassissimi", commenta Angelo Gaja, re dei Barolo e dei Barbaresco, ambasciatore del vino italiano nel mondo. Spiega Gaja: "E’ stato uno dei motivi del rallentamento italiano nel 2014, ma ha un valore congiunturale e non strutturale, e dunque non ci preoccupa”.

Negli Usa crescita in controtendenza. La conferma arriva dagli Usa, che restano il principale mercato di sbocco. L’Italia mantiene le posizioni nei primi sei mesi dell’anno, segnala Iwfi, l’International wine and food institute. Da New York l’istituto guidato da Lucio Caputo monitora costantemente la situazione che risulta particolarmente significativa per le etichette Made in Italy che continuano a crescere nonostante la contrazione delle importazioni di vino americane. La contrazione, spiega Iwfi, è dovuta in particolar modo alla contrazione di importazioni di vini sfusi da Australia, Cile e Argentina, dovute alla riduzione delle vendite di vino da parte delle cantine americane che utilizzano questi sfusi importati che vengono imbottigliati sul suole americano.

Negli Usa, mercato conquistato a partire dagli anni ’80 con il Pinot grigio, che resta uno dei cavalli di razza del nostro export, si stanno facendo strada a poco poco nuove varietà e nuovi territori. Il Soave, per esempio, è stato incoronato da Wine Spectator, bibbia del settore, come uno dei 30 luoghi da scoprire al mondo, terra di vini premiata anche da Decanter, altro magazine di riferimento mondiale. Uno dei punti di forza del nostro paese è proprio la ricchezza e la varietà di territori e vitigni autoctoni, un patrimonio rispetto a paesi grandi produttori ma di varietà internazionali che si producono ovunque. Un patrimonio che in tempi più difficili ci ha consentito di predisporre strategie alternative e innovative. Ma non è facile promuovere tutti i territori. “Abbiamo 400 Doc contro un decimo dei francesi”, commenta Boscaini.
La Francia resta un modello. I francesi, maestri di marketing, hanno fatto la storia del vino facendo leva su brand forti, legati a specifici territori e continuano a mantenere saldo il primato delle esportazioni nel mondo. Ma gli italiani stanno accorciando le distanze, sottolineano le rilevazioni di Assoenologi. Tutti uniti sotto un unico brand. Una strada che anche l’Italia sta piano piano seguendo. Il Prosecco fa scuola: ha trasportato il nome originario di un vitigno a un territorio, ha esteso le aree, e sta facendo registrare un boom in tutto il mondo. Ma la gran forza di queste bollicine veneto-friuliane sta nel rapporto qualità-prezzo: facili da bere, economiche per il portafoglio, hanno trainato l’export ma anche abbassato il valore medio delle esportazioni, altra debolezza congiunturale degli scorsi anni. Ora, dopo la grande corsa, anche il Prosecco sta ripensando le strategie per il futuro. Non a caso in Cina, grande mercato dove gli italiani fanno fatica a crescere, il Prosecco che sta riscuotendo maggior successo è proprio quelle delle etichette di fascia alta, come la cantina Bisol. Ma non è facile promuovere tutti i territori. Tanti piccoli produttori a fronte di un gruppo di grandi nomi conosciuti in tutto il mondo. Non è facile promuovere tutti. “Bisogna creare forti piattaforme comuni di distribuzione e logistica, sia fisiche che online, considerato anche il successo dell’e-commerce”, spiega Riccardo Monti, presidente Ice, Istituto commercio estero, che insieme al Vinitaly lavora per fare leva sugli eventi e intensificare le fiere internazionali in grado di contribuire a portare anche i più piccoli produttori nel mondo. I driver del mercato, evidenzia uno studio del Wine Management Lab dell’Università Bocconi, sono in primis la qualità del prodotto, e qui ci siamo. Poi il rapporto prezzo/innovazione e anche qui ci stiamo facendo largo. Molti dei nostri più illuminati produttori, come rilevano recenti studi di Mediobanca e anche di Unicredit, hanno approfittato della crisi per investire su un asset che ha un orizzonte temporale lungo e dunque come per i primi vini, deve investire oggi per fare il raccolto tra 3-4-5 anni.

Fondi da gestire meglio. Resta il terzo perno della crescita: la comunicazione e la promozione. L’Unione Europea ha predisposto che i fondi degli ultimi programmi di supporto al settore, i cosiddetti Ocm, fossero indirizzati proprio verso questa tipologia di interventi. Si tratta di 120 milioni di euro all’anno. Il record italiano è che non riesce a spenderli tutti. E, quando lo fa, non sempre a buon fine. Un tema che è finito anche sulle pagine del Financial Times. Jansin Robinson, una delle più importanti wine writer del mondo, stavolta ha impugnato la penna per scrivere di vino italiano e finanza pubblica.

“All’estero portiamo bottiglie piene d’Italia”

“Chi fa la guerra non ama il vino”, dice un vecchio adagio del Chianti. A Giuseppe D’Andrea, global senior brend ambassador di Ruffino, la faccia dell’azienda nel mondo, tornò in mente tre-quattro anni fa. "Avevamo in visita una delegazione russa e una americana al pranzo ufficiale. Il capo delegazione americano fa un breve saluto, come per loro è tradizione, a quel punto si alza il russo e sbatte il tovagliolo sul tavolo: “Io sono nato in un paese comunista, i miei nemici sono sempre stati gli Usa”. Gelo in sala, imbarazzo della traduttrice. “Ma oggi siamo qui, nel paese del vino e il vino mi fa capire che non ho più nemici, ma amici, anche in America”. Ecco il vino unisce i popoli”.

Il vino toscano. Gli ultimi dati dicono che l’export italiano cresce del 6,5% e quello della Toscana del 25,8, rossi in testa. Come se lo spiega?
“Quando si vende il vino nel mondo non si vende solo una bottiglia e il suo contenuto, ma quello che quel vino rappresenta, quello che ispira. Noi abbiamo una tradizione, una storia, una cultura, che sono unici, in Italia e in Toscana in particolare. Così quando vado negli Stati Uniti o in Canada quello che mostro sono anche Leonardo da Vinci, il nostro Rinascimento, Firenze. E il Chianti, uno dei vini più antichi e conosciuto oltre oceano fino dalla fine dell’800, soprattutto con l’etichetta Ruffino”.

Lei dice che comprano il vino italiano perché profuma d’Italia?
“Sì, certo. Guardi fino a due anni fa il nostro maggior competitore negli Usa era l’Australia. I vini australiani vendevano più di quelli italiani. Poi gli americani si sono stufati e sa perché? Perché hanno pensato: ’Se devo prendere uno Chardonnay prendo quello che si fa in Texas o in California, ma se devo bere un rosso voglio un Nebbiolo, un Sangiovese, un Nero d’Avola. Perché così arrivo in Italia senza viaggiare davvero’. Ogni nostro vitigno, in Italia ne abbiamo 600 diversi, cambia a seconda dove si trova, e ogni territorio si porta dietro la sua cultura, la sua storia.Heritage, dicono gli americani”.

Diceva Chardonnay del Texas, esiste davvero?
“Ormai negli Stati Uniti ci sono vigneti ovunque meno che alle Hawaii. Per questo l’heritagediventa fondamentale. Altrimenti compro un vino prodotto in casa, no?”.

Cresce il valore delle esportazioni, ma calano i volumi.
“La politica dei prezzi bassi non paga. Se tagli per vendere poi non tornerai mai più in alto. E comunque anche il vino più a buon mercato negli Usa sta fra 7,99 e 9,99 dollari alla bottiglia. Vendiamo qualità, il sogno. Costa un po’ di più ma ne vale la pena”.

Quanto pesano i giudizi delle riviste specializzate, ad esempio quelli di Robert Parker guru di Wine Spectator?
“Un tempo pesavano di più, ma con un voto di 89 su 100 eri già un bel vino. Oggi magari la gente ci crede meno, ma se hai meno di 93 non ti prendono in considerazione. Insomma meglio avere punti”.

Le regole di importazione variano da paese a paese. Come vi adeguate?
“Etichette. Le nostre bottiglie hanno l’etichetta principale che è uguale per tutti e poi la secondaria che riporta le specifiche di ogni paese a cui la bottiglia è destinata. Poi ci sono le regole generali. Per esempio in Canada e in Svezia c’è il monopolio di stato. Un po’ come da noi per le sigarette, il vino si può comprare solo nei negozi statali. Quindi per esportare in quel paese devi essere ’listato’, messo nella lista. Ci sono funzionari che assaggiano il vino, decidono se va bene o no e ti mettono in lista per uno, due anni. Ma se il vino cambia aspetto o sapore puoi essere cancellato. Negli Usa è così solo in Pennsylvania”.

Ruffino era prima di Folonari, ora è degli americani.
“Nel 2011 quando siamo passati a Constellation Brand (uno dei colossi mondiali di vino, birra e superalcolicindr) fatturavamo 50 milioni di euro, quest’anno siamo a 96. Il 90% del fatturato è fatto con l’export, siamo in 86 paesi, Usa e Canada in testa, ma anche Russia e Ucraina, la Scandinavia, i Paesi Bassi. Andiamo un po’ meno bene in Francia e Spagna che sono grandi produttori di vino, mentre la Gran Bretagna guarda più al Commonwealth, Australia e Nuova Zelanda. Ma noi siamo molto fieri del 10% sul mercato italiano, perché si sa che la Toscana si vende bene a Venezia, Roma, Milano, ma nel resto d’Italia...”.

Quindi, riassumendo, l’Italia vince all’estero perché esporta vino e tradizione?
“Senza ombra di dubbio. Esporta la sua diversità dei territori, i seicento vigneti che dicevo, la sua qualità dei grandi rossi. Io lo vedo con il nostro Chianti Riserva Ducale, è in produzione dal 1927 ed è il Chianti più venduto al mondo. Vendevamo 140 anni fa agli emigrati italiani negli Usa, il nostro nome a volte è sinonimo di Chianti, ovvero di Toscana, Firenze, Rinascimento”.

E per evitare truffe si fa la risonanza all’uva

Il vino è il prodotto agroalimentare italiano più esportato all’estero. Siamo i primi produttori al mondo e quest’anno anche la Francia ha dovuto ammettere il sorpasso. Ma il settore vinicolo è anche quello più regolamentato e controllato dell’intero comparto agricolo. E i controlli funzionano. Perché, se è vero che le truffe sono sempre dietro l’angolo, è anche vero che le frodi vengono quasi sempre sventate in tempo. Come è successo appena pochi giorni fa nel caso del Prosecco. I Nas di Treviso, in sinergia con l’Icq (Ispettorato controllo qualità) del ministero delle Politiche Agricole, hanno passato al setaccio le cantine delle tre province di competenza della docg - Treviso, Belluno e Venezia - e, analizzando i registri di carico e scarico delle uve, hanno trovato Prosecco e Pinot prodotti con grappoli che non provenivano dalle zone di origine controllata. Le cantine sorprese a produrre vini non regolari, oltre al sequestro, sono state sanzionate con multe pesantissime.

La lezione dello scandalo metanolo. Se i truffatori hanno vita dura, è proprio grazie al rigido sistema di tracciabilità della materia prima con cui il vino viene prodotto. Un insieme normativo che ha origini lontane, come ci spiega Amedeo De Franceschi, direttore della Divisione Sicurezza Agroalimentare (Naf) del Corpo Forestale dello Stato. “Il sistema di controlli funziona perché, dopo lo scandalo del 1986, quello del vino al metanolo che provocò 23 morti accertati, il mondo del vino si è dato delle regole stringenti, basate su un principio fondamentale: legare il prodotto al territorio. Sembra una banalità, ma il vino in Italia è il primo vero prodotto a chilometro zero completamente tracciato e certificato. Da allora in poi sono nati tutti i disciplinari di produzione relativi alle diverse indicazioni geografiche (Doc, Docg e successivamente Dop e Igp), in cui viene specificato anche il quantitativo massimo di produzione che si può ottenere in una determinata zona”.

Doc verificata in laboratorio. Per quanto riguarda i sistemi di controllo, la svolta risale al regolamento europeo n. 2676/90 che determina i metodi d’analisi comunitari da utilizzare nel settore del vino. “Viene introdotto infatti per legge - continua De Franceschi - un metodo scientifico per identificare la zona di produzione, ossia la risonanza magnetica nucleare che identifica gli isotopi caratteristici di un determinato territorio, ossia la diversa natura degli atomi del terreno. Ad esempio il vino in Puglia ha delle caratteristiche isotopiche diverse da quelle del Piemonte o del Veneto e così via. Tutti gli organismi di controllo usano queste tecniche per scovare i truffatori. E poiché le variazioni del terreno dipendono anche da fattori climatici e geografici, ogni anno si fa una ’microvinificazione per tutte le dop. In pratica si vinifica un certo quantitativo, ad esempio, di Brunello di Montalcino. Si sottopone a risonanza magnetica nucleare e si verifica quali sono i parametri che quel vino deve avere quell’anno in quella determinata zona. Il vino viene in questo modo tracciato, direi addirittura autenticato”.

Le sofisticazioni del vino come nel caso del metanolo sono ormai rare. Il problema più grande oggi dell’agroalimentare italiano è la contraffazione dei marchi storici del made in Italy e delle denominazioni protette (al momento 276 fra Dop e Igp secondo l’ultimo elenco del Mipaaf), che sottraggono al nostro paese ogni anno 60 miliardi di valore di cibo contraffatto e spacciato nel mondo come Italian Sounding.

Una “Interpol” del vino. “La falsificazione alimentare diventa molto più complessa da scovare - spiega ancora il comandante dei Naf - perché si basa essenzialmente sullo sfruttamento illecito della reputazione di Dop e Igp o di falsi Made in Italy per i mercati internazionali. Per fermare i criminali che spacciano ad esempio il finto Prosecco all’estero occorrono operazioni di polizia internazionale. Nel 2010 abbiamo creato la rete Opson (da “ópson”, cibo in greco antico) all’interno dell’Interpool, proprio per sensibilizzare le forze di polizia sul tema della contraffazione agroalimentare. Siamo partiti in pochi, oggi i paesi aderenti sono ben 57. Ogni nazione ha il suo punto di contatto al quale gli altri stati possono rivolgersi qualora ci siano casi da affrontare per richiedere attività di polizia. La recente operazione “Vin-Dansk”, ad esempio, ci ha portato ad individuare, con l’aiuto dei colleghi danesi, una ditta del veronese che qualificava falsamente come prodotto con le uve tipiche della Valpolicella (Corvina e Rondinella) un vino rosso generico per poi rivenderlo all’estero, in Danimarca. Oltre 19.000 bottiglie di vino sono state poste sotto sequestro e il titolare della ditta è stato denunciato per frode in commercio”.

Un altissimo livello di tracciabilità che attualmente in Italia esiste solo per il vino. Per l’olio extravergine di oliva, ad esempio, siamo ancora in alto mare. “Mentre per il vino sono vietate le miscele - conclude De Franceschi - nell’olio il blending, ossia la miscelazione, è invece autorizzata. Gli unici oli per cui in teoria (perché le norme non lo prevedono) sarebbe possibile applicare la risonanza magnetica nucleare sono quelli Dop, ma sono una minima percentuale del mercato”.

La Toscana esulta: “Vendemmia del secolo”

Prendete nota di questo numero: 2015, dicono che sarà da ricordare. Cercate questo stesso numero sulle etichette, potrebbe contrassegnare la migliore vendemmia del secolo. Al di là dei proclami e dell’ottimismo che regna intorno ai vigneti dopo il sorpasso italiano sulla Francia, anche i conti e la qualità mettono la freccia a sinistra. "Ottima vendemmia, buon grado di zucchero, uva sanissima" dice Marco Bani del Consorzio Chianti, in Toscana. Le sue parole segnano il meteo della stagione, a vendemmia oramai ultimata: “L’unico segno meno sarà probabilmente sulla resa della produzione, un calo del 5 per cento” spiegano dal consorzio che riunisce 3.600 soci e un’area che produce cento milioni di bottiglie l’anno su un territorio che abbraccia cinque province, dal senese all’aretino passando da Firenze e Pisa, ma raccogliendo anche uva fra Prato e Pistoia.

Stesso ottimismo che emanano le uve del celebratissimo Brunello. Montalcino fa 5mila abitanti e produce 20 milioni di bottiglie di vino l’anno. Cifra più cifra meno, si stima un valore intorno ai 300milioni di euro, escluso l’indotto del turismo. Un tesoro disseminato lungo le colline dolci di questa parte senese della Toscana. E’ qui che, per esempio, i Cinelli Colombini, producono il loro Brunello. “Mio nonno nel 1938 aprì a Montalcino la prima enoteca pubblica italiana - spiega Stefano Cinelli Colombini - e dieci anni dopo aprì la cantina ai visitatori. Quest’anno abbiamo avuto condizioni climatiche eccezionali. A peggiorare la qualità del vino in genere è la poca differenza di temperatura fra giorno e notte e la siccità. Abbiamo avuto un’estate con giornate molto calde, ma notti fresche e poi diverse piogge”. Una tabella di marcia ideale per la maturazione delle uve. Quindi? "Prepariamoci a gustare un grande vino”. Naturalmente per il Brunello non ci vuole fretta perché servono cinque anni prima di vedere questa annata sugli scaffali. “Il 2013 che sembrava niente di che, si sta rivelando invece di ottimo livello per il Brunello”, prosegue Cinelli Colombini che è uno dei soci di questo Consorzio che produce fra gli 8 milioni e mezzo e i dieci milioni di bottiglie a cui vanno aggiunte quelle della riserva (quasi sei anni di invecchiamento), altri 4 o 5 milioni di rosso di Montalcino e 200mila di uno dei più antichi vini italiani, il Moscadello di Montalcino. Massima qualità nella cura dei vigneti e nella preparazione dei raccolti è così che nasce in questa parte della Toscana il vino che si presenta, quando è sfuso, come il più costoso d’Italia: 12 euro al litro (non si vende ai privati, ma alle aziende). Le bottiglie di Brunello invece al consumatore variano fra i 25 e i 100 euro a bottiglia.

Cieli sereni anche dalle parti del Consorzio Chianti Classico, 300 aziende per 38milioni di bottiglie e in scuderia grandi nomi che vanno da Antinori a Frescobaldi a Ricasoli. “Quest’anno prevediamo di raggiungere il più alto livello di vendita degli ultimi vent’anni - spiega Giuseppe Liberatore, presidente del Consorzio Classico - abbiamo appena archiviato una crescita a due cifre e continuiamo su questa strada. Del resto l’annata ce lo consente perché l’uva è ottima e la germogliazione è avvenuta in condizioni meteo straordinarie, insomma questo vino ce lo ricorderemo”. Sia esso d’annata, di riserva o della gran selezione (quella che garantiscono esclusivamente un vino fatto con uve dell’azienda e non acquistate), nelle vigne della Toscana tira aria di brindisi.


Abbondanza e qualità, in Puglia si brinda

Puglia da record nel settore vitivinicolo: la produzione si impenna del 25% rispetto al 2014, gli ettari coltivati crescono di 1.500 negli ultimi tre anni, l’export vola e conquista nuovi mercati come il Giappone, nascono aziende e si consolidano quelle storiche, persino i vip la scelgono per togliersi lo sfizio di produrre qualche migliaio di bottiglie. Il 2015 - grazie a condizioni meteorologiche favorevoli - è l’anno del decollo definitivo per la Puglia. Le previsioni parlano di 7 milioni di ettolitri di vino prodotti a fronte dei 5,4 dell’anno scorso e la regione punta a strappare all’Emilia Romagna il secondo posto in Italia per la produzione.

La vendemmia non è ancora conclusa (con Negroamaro e Susumaniello ancora da raccogliere) e il Primitivo ha subito lo scotto di una grandinata di fine estate, ma il presidente regionale di Assoenologi Massimiliano Apollonio ipotizza comunque una resa alta dappertutto “a partire dal Foggiano, dove si usano tecniche di coltivazione intensiva e si toccheranno i 300 quintali ad ettaro, fino al Salento, le cui aziende preferiscono una minore concentrazione di alberi e dunque si fermano a una resa di circa 80 quintali ad ettaro”.

Pur nella diversità di approccio, ciò che accomuna le cantine pugliesi è la volontà di firmare vini molto legati al territorio che hanno trovato in una forte connotazione identitaria il tratto che li rende sempre più appetibili sui mercati internazionali. Laddove, in realtà, si potrebbe esportare ancora di più se di più si imbottigliasse, spiega Gianni Cantele, presidente di Coldiretti Puglia e titolare insieme alla famiglia di una storica azienda di Guagnano, “perché in tutta la regione esiste ancora un’enorme produzione di vino “ex da tavola”, ovvero quello che viene venduto sfuso, che assorbe quasi il 50% del prodotto, creando a volte situazioni di mercato difficili”.

Restando in tema di mercato, è evidente che le enormi quantità di uva raccolte nel 2015 determineranno un abbassamento dei prezzi del prodotto a cui farà però da contraltare “un ormai consolidato aumento del valore dell’export, ovvero del prezzo a cui vengono vendute le bottiglie" come chiarisce Apollonio di Assolenologi. Il segreto che sta consentendo ai pugliesi di conquistare l’America come il Medioriente, secondo Luigi Rubino, presidente del Consorzio Puglia Best Wine e titolare dell’omonima azienda brindisina, è l’elevata qualità del prodotto, “che quest’anno ha un potenziale ancora più alto a causa della sanità delle uve, dalle quali si produrranno vini molto equilibrati”.

In mezzo a tanta luce si celano, però, anche alcune ombre. “La necessità di controlli sulla filiera ancora più stringenti - dice Cantele - che tutelino i vini italiani da un’invasione di prodotto estero che a volte viene venduto a prezzi bassissimi”. E l’urgenza di individuare una soluzione all’embargo imposto dall’Unione Europea ai vivaisti delle barbatelle del Salento, a causa dell’epidemia di xylella fastidiosa che ha colpito gli ulivi. Poiché se pure oggi il problema non sembra avere conseguenze dirette sul settore vinicolo le avrà certamente nei prossimi anni, dal momento che i vivaisti della provincia di Lecce - con i 20 milioni di piante messe a dimora ogni anno - producono al momento quasi la totalità delle viti vendute in Puglia e, se il blocco dovesse proseguire, molte aziende del settore potrebbero presto trovarsi in difficoltà.

Webcam e droni tra i filari, prove di futuro

“Se viene nel periodo giusto li vedrà volare sopra i vigneti”. Sono piccoli elicotteri senza pilota, i cosiddetti droni, gli agronomi del terzo millennio. Fluttuano leggeri sui colli del Chianti, i duemila ettari delle tenute Marchesi Antinori, e con la loro fotocamera a infrarossi misurano la salute di piante e acini. Sotto, tra i filari, macchine agricole automatizzate dotate di sistema Gps traducono le informazioni in gesti dalla precisione millimetrica. Dove le piante sono più rigogliose passano veloci, dove soffrono rallentano e irrorano di concime. “Ma le mappe aeree servono anche per la vendemmia”, spiega l’amministratore delegato dell’azienda vinicola, una delle maggiori in Italia, Renzo Cotarella. In ogni filare, si distinguono le piante a maggiore vigore da quelle più deboli. E i trattori modello Braud di Case New Holland, la vecchia Fiat Industrial, separano i rispettivi grappoli in due diversi cestini diversi di raccolta. In modo da avere poi un mosto il più omogeneo possibile.

“La conoscenza è fondamentale”, commenta Cotarella. In fondo, lui che nasce agronomo, sembra voler sottolineare che non è cambiato poi molto: la viticoltura si basa sempre sull’osservazione. Solo che se a fianco allo sguardo dell’uomo spuntano sensori e satelliti, la quantità di informazioni che si possono estrarre da un campo, buone per calibrare al meglio irrigazioni, potature e raccolta, aumenta a dismisura. Per questo una società come Marchesi Antinori oggi ha bisogno di quattro persone dedicate alla ricerca e allo sviluppo, con mezzo milione di budget l’anno a disposizione. Perché l’agricoltura di precisione, dice l’Mit, è una delle tecnologie più rivoluzionarie dei nostri tempi. Un mercato ancora piccolino, tre miliardi di dollari l’anno a livello globale, ma destinato al raddoppio entro il 2020.

Nelle grandi piantagioni americane o australiane si è cominciato da tempo. Nella campagna italiana ancora si sperimenta. Le aziende vinicole soffrono dello stesso nanismo che affligge le nostre industrie: dimensioni limitate, fragilità finanziaria e scarsa propensione all’innovazione. “I produttori faticano a cogliere la potenzialità di questi strumenti”, spiega Daniele Eberle, agronomo piemontese che ha partecipato a un progetto di monitoraggio e gestione delle coltivazioni con sensori, nome in codice Sigevi, finanziato dalla Regione Piemonte e dall’Università di Torino. L’obiettivo del piano, spiega Andrea Molino, 38 anni, ingegnere di Csp, la società pubblica che ne è stata il perno tecnologico, era costruire un “centro di raccolta dei dati provenienti dalle vigne e aggregarli con quelli di terzi, come i centri meteo e le serie storiche”. I famosi big data: basi informative così enormi da far emergere correlazioni invisibili a occhio nudo e anticipare le criticità, in questo caso assalti dei parassiti o shock idrici. In due anni però Sigevi ha “connesso” solo una singola vigna e ora è fermo, in attesa di nuovi fondi. Eberle elenca alcuni degli ostacoli che il progetto ha dovuto affrontare: “La mancanza di Rete, troppo debole in alcune zone per trasmettere i dati. E le abitudini degli agricoltori, che spesso non hanno neppure lo smartphone”.

Dove non si avventura il singolo, per scarsa sensibilità o mancanza di fondi, potrebbero magari arrivare i consorzi di aziende. Un interlocutore spesso menzionato da chi cerca di portare la viticoltura di precisione nel nostro paese. “Ne stiamo cercando uno che voglia sperimentare la nostra tecnologia”, racconta l’ingegnere Marco Bosi, 50 anni, tra i cinque soci di SAL Engineering, startup di Modena specializzata in rilevazioni con i droni. I soldi, al momento, li fa monitorando strutture industriali e siti archeologici. Da qualche tempo però testa possibili applicazioni per l’agricoltura, cominciando da un vigneto del Cesenate. Le fotocamere montate sugli elicotterini, spiega Bosi, sono in grado di “misurare il tenore di clorofilla con dettaglio alla singola foglia, anticipando così l’insorgere delle malattie”.

I produttori, racconta, sono incuriositi ma diffidenti. E senza numeri che attestino l’efficacia della tecnologia non è facile convincerli. Bosi cita un recente studio australiano, un vigneto di Syrah la cui produttività è aumentata del dieci per cento. Paolo Marenghi, 41 anni, amministratore delegato di Auroras si spinge oltre: “Si risparmia il 50 per cento sui trattamenti chimici, circa 400 euro per ettaro. Si prevengono i danni da parassiti come oidio, peronospera o botrite”. Le rilevazioni, nel caso della sua startup, sono fatte dentro il vigneto, con un sistema di sensori senza fili montati sul terreno e sulle piante che tengono sott’occhio i fattori legati agli attacchi dei parassiti. Anziché irrorare a tappeto, si spruzza solo dove serve, un bel guadagno per tasche e ambiente. Finora però, della quindicina di vigne che Auroras ha coperto, gran parte sono state finanziate solo grazie alle risorse pubbliche per lo sviluppo rurale, cortesia di Bruxelles. Tanto l’esperienza della Auroras come quella della SAL Engineering saranno presentate giovedì 15 ottobre all’Expo nell’ambito di un evento organizzato da Intesa Sanpaolo.

Così per ora solo alcuni dei grandi produttori italiani, minoranza della minoranza, stanno scommettendo sull’agricoltura di precisione. E anche secondo Cotarella, nonostante le vigne di Antinori siano tre le più tech d’Italia, la rivoluzione resta ancora a metà: “Con i dati raccolti si interviene per correggere le anomalie nel vigneto, e di certo questo fa crescere la qualità della produzione”, spiega. “Ma non per creare maggiore uniformità al suo interno, per esempio mappando i diversi microclimi che lo compongono per innestare piante con caratteristiche adatte a ciascuno”. Senza dimenticare, conclude, che nulla può sostituire la sensibilità dell’uomo: “La tecnologia è utile. Ma obbliga il viticoltore a andare più spesso nel campo, non meno”.

Alessandro Cecioni, Paola Jadeluca, Jenner Meletti, Laura Montanari, Monica Rubino, Filippo Santelli e Chiara Spagnolo

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