Da vino da meditazione a vino gastronomico, capace di evidenziare le molteplici sfaccettature delle vallate della Valpolicella e della sapienza dei produttori in vigna, come nella messa a riposo delle uve, vera e propria arte da adattare alle mutate condizioni climatiche. Un passaggio che segna non solo una rivoluzione sulle occasioni di consumo - non più “solitarie” in momenti lontani dal convivio, ma sociali nella condivisione della tavola - ma soprattutto concettuale, che smarca l’Amarone (che non sembra soffrire la crisi dei vini rossi in generale, e continua a muovere oltre la metà dei 600 milioni di euro di giro d’affari legato al vino in Valpolicella) dal dualismo tra territorio e metodo, in una fusione che rappresenta la sua peculiarità, irripetibile per condizioni pedoclimatiche dei vigneti, per varietà tipiche e ideali per l’appassimento - tecnica strettamente territoriale, e in cerca del riconoscimento Unesco - e per il saper fare tramandato tra le generazioni, adeguato con ricerca e tecnologia al cambiamento climatico. Questo il futuro, che è già in parte presente, per l’Amarone della Valpolicella, celebrato dal Consorzio ad “Amarone Opera Prima”, che si è chiuso ieri a Verona, al Palazzo della Gran Guardia, in Piazza Brà all’ombra dell’Arena. Un’edizione particolare questa - dedicata al debutto del millesimo 2020 - che inaugura l’anno del centenario del primo Consorzio “ante litteram”, costituito nel 1925, alla Provincia di Verona, antesignano del Consorzio per la Tutela dei Vini Valpolicella dell’“era moderna”, nato in seguito all’istituzione della denominazione di origine controllata nel 1968.
Oggi è il primo Consorzio “rossista” veneto con più di 2.400 aziende, 360 imbottigliatori e un vigneto sugli 8.600 ettari, per un valore attorno ai 6 miliardi di euro (considerando il patrimonio di vigneti e cantine), valore raggiunto negli ultimi 25 anni, in cui il solo valore fondiario dei terreni vitati è cresciuto del 133%, a fronte di un’estensione dei vigneti aumentata del 65%.
L’edizione 2025 di “Amarone Opera Prima”, oltre al centenario, segna il record di partecipazione all’evento delle aziende (78), che Christian Marchesini, presidente del Consorzio, commenta molto positivamente. “La partecipazione ad “Amarone Opera Prima”, una delle numerose attività del Consorzio, rappresenta sicuramente un’opportunità per i produttori di incontrare numerosi giornalisti italiani e internazionali (106, di cui 73 provenienti da 26 nazioni, tra cui WineNews, che racconterà passato, presente e futuro dell’Amarone e della Valpolicella in un video online nei prossimi giorni, ndr), ma soprattutto, non essendo un evento commerciale, è occasione per proporre la cultura del prodotto e farlo conoscere e apprezzare. Abbiamo voluto in questa edizione, con alle spalle 100 anni di storia, guardare al futuro, ai nuovi margini di potenziale crescita della denominazione in uno scenario evolutivo accelerato, che ci impone un cambio di paradigma fondato su strategie e approcci rinnovati. Un impegno che ci vede sempre più attivi, e non solo nella promozione, che le aziende stanno premiando anche con le adesioni al Consorzio, con 51 nuovi associati nel 2024”. L’impegno del Consorzio interessa, tra l’altro, il fronte della lotta all’“Amarone sounding”, con successi che hanno portato nelle casse del Consorzio, e quindi dei consorziati, ben 800.000 euro quali risarcimento per 12 azioni legali vinte. Si tratta di un fenomeno che ha accompagnato la crescita di notorietà dell’Amarone e non solo. Per esempio negli anni del boom del Ripasso - 2014-2015 - in Svezia su 8 bottiglie 7 erano fasulle. Numero che si è decisamente ridotto (1 su 3) grazie all’azione del Consorzio.
Per porre le basi del futuro dell’Amarone, e in qualche modo anche degli altri vini delle denominazioni Valpolicella, non si può che partire dal passato - come ha fatto Andrea Lonardi, vicepresidente del Consorzio e Master of Wine - analizzando il percorso dell’Amarone dalla sua nascita ad oggi, anche attraverso gli stili che lo hanno contraddistinto, da quello degli anni Cinquanta-Sessanta classico e “severo” legato al territorio più che al metodo di produzione, al successivo passaggio a concentrazioni superiori con l’uso anche di varietà internazionali e di legni piccoli che ha segnato il suo successo negli anni 2000 soprattutto negli Usa, fino all’attuale di vino dinamico e contemporaneo saldamente legato alle varietà storiche, giocato su freschezza e sapidità grazie a lunghe macerazioni, ottenuto con appassimenti più brevi e controllati, e di incredibile longevità. “Per cambiare le cose - ha precisato Lonardi - bisogna avere un approccio culturale e non commerciale, come negli anni tra il 2000 e il 2020, in cui l’imperativo è stato andare per il mondo a soddisfare le richieste dei mercati per “crescere, crescere, crescere”, assecondando il Dna veneto di discendenti di Marco Polo. Nel prossimo decennio sarà necessario riflettere nuovamente sul mercato con l’obiettivo di produrre un Amarone edonistico e gastronomico. Da cinque anni è in atto questo cambiamento nella denominazione”. Un cambiamento che deve necessariamente essere accompagnato da una nuova strategia di comunicazione che enfatizzi il territorio sul prodotto stesso. “Dobbiamo diversificare e ripensare per creare un “modello Amarone” - ha continuato Lonardi - il vino più vicino all’Amarone è lo Champagne, e non è una provocazione. Entrambi utilizzano metodi tradizionali e blend di varietà adatte alle condizioni di coltivazione che danno origine a stili e identità diverse “di marca” evolvendosi continuamente e necessariamente, in Champagne come in Valpolicella. Identità che ne decretano il successo, ma comunque riconducibili alla stessa tipologia”.
Venendo all’annata, la 2020 è stata sfidante per i viticoltori della Valpolicella: lungo tutto il ciclo vegetativo, a causa dell’alternanza di fasi di estrema siccità e di piogge abbondanti. La ricerca di freschezza, sapidità ed eleganza è il denominatore comune rilevato da coloro che hanno degustato 77 Amarone 2020, di cui solo 16 campioni di botte, unitamente al rischio di sovrapposizione organolettica tra diverse tipologie di vini delle do (Valpolicella Superiore, Ripasso e Amarone), criticità, peraltro, evidenziata nel corso dell’evento consortile. Diverse le sfide future che l’Amarone deve affrontare, indicate dall’analisi di Lonardi. Quelle tecniche legate all’impatto del cambiamento climatico sull’appassimento nelle modalità e nell’ottimizzazione della perdita di peso delle uve - oggi individuata nel 30% che, invece, recenti ricerche indicano, nel 20% - così come sulla ricerca genetica su Corvina e Corvinone. E ancora, quelle sul cambiamento dello stile, orientato a maggior sobrietà e freschezza, e dell’approccio commerciale che deve avere il suo punto di forza nella comunicazione dell’unicità dell’Amarone e del territorio e delle persone che lo producono.
La degustazione guidata dall’esperto J.C. Viens, canadese e cittadino veronese, conoscitore del “mondo Amarone”, ha esplorato il posizionamento dell’Amarone nei 50 ristoranti top segnalati dal mensile britannico “Restaurant” e ha proposto sette etichette presenti nelle loro carte dei vini abbinandole virtualmente ai piatti più noti degli altrettanti ristoranti selezionati. Un viaggio in cui Viens ha illustrato le argomentazioni che fanno dell’Amarone un fine wine che trova spazio nell’alta ristorazione internazionale. “L’Amarone non è un vino di tecnica, ma scaturisce da una tradizione molto ricca sviluppata in un’allocazione geografica particolare con le Alpi e il Lago di Garda che giocano un ruolo fondamentale; da uve autoctone diffuse di fatto solo qui, perfettamente adattate all’area, e in assemblaggio. Il suo successo è recente, ma le sue origini sono lontane nel tempo, raccontate da Andrea Bacci nel 1596 e ancor prima da Plinio il Vecchio, ma la sua popolarità all’estero, sancita dal 61% esportato, si basa non solo sulla sua qualità e versatilità, ma proprio sul radicamento territoriale. Esiste un pregiudizio secondo cui l’Amarone ha uno stile per così dire monolitico, opulento e tale da relegarlo ad essere considerato un vino da meditazione. Un pregiudizio che va sfatato facendo conoscere le diverse espressività di questo vino, poco note anche ai vertici della sommellerie internazionale”.
L’Amarone rappresenta un unicum anche sul mercato rimanendo tutto sommato indenne dalla crisi dei rossi. Secondo l’analisi dell’Osservatorio Unione Italiana Vini (Uiv) ha chiuso il 2024 a -2% sull’anno precedente, ma con un recupero del 9% nel secondo semestre. Un rimbalzo significativo, se si considerano le difficoltà di quasi tutte le principali denominazioni rosse del pianeta, tuttavia leggero per uscire dalla complessità del periodo. Secondo l’analisi voluta dal Consorzio, il nuovo secolo della denominazione - e del suo vino di punta - deve concentrarsi su una maggior segmentazione, e cioè spesso preparando tre valigie per altrettante destinazioni di mercato diverse, oppure - e in questo caso sempre - individuando target, posizionamenti e toni differenti con cui dialogare. In particolare, l’Amarone non dovrà snaturare se stesso, ma avere ben chiari i propri obiettivi di posizionamento di vino-icona in un pubblico principalmente composto da consumatori in età matura e con un reddito saldamente superiore ai 100.000 dollari (negli Usa i baby-boomers sono il 40% dei wine drinkers, con gli alto-spendenti che salgono al 53%). Un identikit che dalla storica roccaforte nordeuropea (cui è riservato il 50% del mercato estero) deve crescere negli Stati Uniti, dove prevale nella East Coast (da New York alla Florida), ma che vale anche in Giappone o in Cina, dove già l’Amarone vanta una quota molto alta sul totale del proprio export (10%). Un target, infine, più di altri incline ad ascoltare il racconto che sta dietro alla produzione dei vini simbolo e - non un fattore secondario - più propenso a viaggiare e a conoscere un territorio di produzione il cui prezioso alleato dovrà essere Verona e il suo brand universale. “In sintesi - secondo il responsabile dell’Osservatorio Uiv, Carlo Flamini - l’Amarone dovrà proporre al mondo un proprio “cocktail”, fatto di aree produttive e diverse vallate, del brand Verona, e di stile e coerenza per un metodo atto a divenire esso stesso espressione di territorio. Al contempo è necessaria una differenziazione dei mercati di destinazione troppo concentrati per il 66% nei primi 6 Paesi di esportazione”.
In particolare per quanto riguarda gli Usa, destinazione principe del vino italiano e anche dell’Amarone, la sfida - e non è certo una novità - è la “conquista” di altri Stati. Un obiettivo il cui raggiungimento trova un valido aiuto in Vinitaly.Usa. “Con Vinitaly Chicago (andata in scena ad ottobre 2024) abbiamo dato vita alla più grande fiera del vino italiano negli Stati Uniti - ha illustrato Matteo Zoppas, presidente Ita-Italian Trade Agency - e la sua importanza risiede nella capacità di intercettare categorie di interlocutori commercialmente molto importanti, come i decisori delle forniture di grandi catene alberghiere, che non vengono a Vinitaly e neppure vanno in fiere di altri Paesi europei. Così come pure è importante l’apertura verso i Balcani con la partecipazione a Wine Vision by Open Balkan, che vede anch’essa la collaborazione tra Ice e Vinitaly (la prossima edizione a Belgrado, in Serbia, dal 22 al 25 novembre 2025, ndr)”. Quanto ai dazi che il Presidente Usa, Donald Trump, ha già iniziato a imporre a Canada, Messico e Cina, e che ha ripromesso di infliggere, presto, anche all’Unione Europea, Zoppas ha detto di non avere novità dal suo osservatorio, ma ha citato uno studio Ocse - che ritiene pessimistico - secondo cui con dazi del 10%, il made in Italy potrebbe perdere 3,5 miliardi di euro sui 67 totali del valore delle attuali esportazioni in Usa. Cifra destinata a divenire più preoccupante con dazi più elevati. Una prospettiva, questa, che non piace a nessuno. Neanche alla Valpolicella e al suo grande Amarone.
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