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MEDIA

Riflessioni da “Wine2Wine”: di giornalismo del vino, comunicazione ed altre storie

Il confronto della stampa di settore su un mestiere che evolve, dalla carta al digitale, ai social, e ragiona sul suo ruolo e sulla sua credibilità

Il racconto del vino che deve essere quasi “evangelico”, e parlare sempre più non di quello che dentro al calice, ma intorno alla bottiglia, nel territorio e nelle sue storie, dove risiede il bello del vino; una stampa di settore che riflette il mondo della produzione, spesso troppo autoreferenziale, sorretta economicamente dall’oggetto stesso di cui parla, ovvero il vino, e cioè dagli investimenti dei produttori (tema eterno che porta con sé la questione eterna dall’autorevolezza e dell’indipendenza, e problematica comune, però, alla stampa specializzata di tanti settori, oltre al vino); l’evoluzione del mestiere del giornalista e del comunicatore del vino, da Soldati e Veronelli a Tik Tok, con tutto quello che ci sta in mezzo: ecco alcuni degli spunti in libertà, emersi a “wine2wine”, il “Business Forum 2022”, di scena oggi e domani a Veronafiere, nella sessione sul “Giornalismo del vino. Esiste? Che cos’è? Come funziona? A cosa serve?”, dedicata alla qualità dell’informazione e della comunicazione sul vino oggi, con il direttore Alessandro Regoli (qui il suo intervento integrale), Luciano Ferraro (“Corriere della Sera”), Alessandro Torcoli (“Civiltà del Bere”), Alessandro Morichetti (“Intravino”), Marco Tonelli (“Spirito Divino”), Fabrizio Carrera (“Cronache di Gusto”) e Fabio Piccoli (“Wine Meridian”), moderati da Chiara Giannotti. Con riflessioni, case history e note autobiografiche, come quella raccontata da Luciano Ferraro. “Abbiamo cominciato 20 anni fa a raccontare il vino, con “Le vie del gusto”, - ha detto Luciano Ferraro, che è vicedirettore del “Corriere della Sera” - e forse siamo stati i primi tra i grandi giornali a dedicare una pagina fissa, a settimana, alvino ed al cibo. Poi nel 2013 abbiamo fatto una guida, poi eventi, Festival del Trentodoc, di recente, e aperto la redazione di “Cook”, che fa contenuti digitali ed un mensile, soprattutto di cucina ma anche di vino. È una fase di trasformazione dal dominio del cartaceo, che, per il vino, era fatto di guide e riviste specializzate, ad un mondo più digitale. Non esistono canali frivoli: è il contenuto che conta, non il canale, poi va declinato con i linguaggi di quel mezzo”.
“Il punto - ha detto, dal canto suo, Alessandro Torcoli, direttore “Civiltà del Bere” - è la dispersione dei messaggi, la moltiplicazione dei canali, delle voci, che porta ad uno spaesamento, ed è complicato arrivare al grande pubblico, perchè tutto è polverizzato. L’eredità di “Civiltà del Bere” e di mio nonno Pino Khail è l’approccio professionale, giornalistico, che può fare la differenza. La differenza è nel target, nell’approccio”.
“In tre minuti, il tempo di questo intervento, non si fa comunicazione - ha aggiunto il direttore WineNews, Alessandro Regoli - non si può dire come si immagina la comunicazione del vino del futuro in pochi minuti. Nel 1999 eravamo un’agenzia di comunicazione, abbiamo riconvertito tutto e siamo arrivati in 20 anni ad 3,1 milioni di indirizzi Ip serviti all’anno, 150.000 follower sui social. Non siamo una piattaforma potente come quella del “Corriere della Sera”, e neppure una rivista storica come “Civiltà del Bere”. Io mi ritengo una sorta di “prete di campagna del vino”, un settore che, non deve essere come è pieno di “enofighetti ed enofighette”. Sono un grande appassionato del vino, la bellezza del vino non sta dentro alla bottiglia, ma fuori: evviva i territori, i monumenti, e anche i linguaggi che non sono tecnici. Anche i post sui social, che sembrano una grande novità, erano le fotonotizie negli anni Ottanta del Novecento. Per fare contenuti ci vogliono professionalità, idee, fantasia, ci vuole una squadra, che oggi è più brava di me, ed oggi Winenews, che - con Irene Chiari - nel 1999 ho però ideato, creato e sviluppato Winenews, ce l’ha. Oggi i contenuti che sono sempre più fuori dalla bottiglia: questo non vuol dire non fare le recensioni, che devono avere il loro “altarino”. I nostri contenuti sono per tutti quelli che hanno voglia e costanza di seguirci, ogni strumento - il sito, la web tv, le newsletter, i social - hanno la loro funzione, ogni contenuto viene adattato ad hoc. Ma la vera innovazione è negli strumenti, nelle tecniche, che non c’erano quando abbiamo iniziato a lavorare nel wine & food negli anni Ottanta del Novecento. In quel tempo facevamo uffici stampa, ed arrivare in inserti come “Andata & Ritorno” del quotidiano “L’Unità”, che aveva delle tirature incredibili, che molti di voi non ricorderanno, dove scrivevano Folco Portinari e Carlo Petrini, era un punto di arrivo. Io amo il linguaggio comune, con il quale si possono dire tante cose, dobbiamo uscire dal nostro mondo, evangelizzare, seminare interesse, trovare seguaci”.
Ma c’è anche chi, per lecita scelta, non si arrende ai tempi moderni, come ha spiegato Marco Tonelli del mensile “Spirito di Vino”: “siamo in un nuovo “Far West”, si deve comunicare ad un sacco di gente, attraverso più canali. Noi siamo classici, quasi feudali, non abbiamo un sito, rimaniamo fedeli totalmente alla carta. È faticoso, non lo nego, per fare lavoro di qualità servono strumenti da vecchia editoria, un grafico, foto diverse, e la consapevolezza di essere in una nicchia. Si va sulla comunicazione pura, cavalcando una nicchia che è quella del racconto, senza troppi tecnicismi, che fanno parte di una cultura più anglosassone. Noi - ha aggiunto Tonelli - veniamo da Veronelli, da Soldati, che privilegiavano il racconto, l’atmosfera, il racconto non del vino, ma di un ambiente, di una storia, di qualcosa non focalizzato esclusivamente sul vino. Serve coscienza di essere nicchia, parlando a chi ci legge, con un italiano corretto, non banale, senza rinunciare a termini italiani a favore di quelli inglesi, cercare di fare una comunicazione che può essere anche considerata vecchia, ma non lo è per forza. C’è, però, un problema di fondo sulla categoria dei giornalisti del vino: prima spesso iniziava ad occuparsene uno che aveva una formazione giornalistica, ma non legata al vino in senso stretto. Questo non vuol dire che chi lo fa oggi non sia preparato, ma diciamo che si partiva da un giornalista tout court e poi veniva al mondo enogastronomico, e non il contrario”.
Al netto di tutto, però, ha sottolineato Fabrizio Carrera, direttore “Cronache di Gusto”, “non si è mai scritto così tanto di vino come negli ultimi anni, non c’era questa attenzione. Primo perché un certo giornalismo si è accorto del valore, anche economico, del vino, e perchè si sono creati i presupposti perché ci siano tanti divulgatori. Però, già per il fatto che siamo qui a chiederci se il giornalismo del vino esiste, vuol dire che c’è un problema. Io credo che esista il giornalismo, declinato in un certo modo, su un certo argomento, ma il mestiere è sempre più difficile perchè ci si confronta non solo con altri strumenti, ma anche con altre figure come gli influencer, che sembrano fare il tuo stesso lavoro, anche se in realtà ne fanno un altro. I contenuti fanno la differenza: affidabilità, tempestività, terzietà, che non vuol dire non essere schierati, ma non essere faziosi, sono fondamentali. La critica resta un lavoro diverso, importante anche se oggi la critica forse ha preso il sopravvento sulle notizie giornalistiche. Io dico: meno punteggi e più cronaca, meno voti e più scenari ed analisi”.
In fondo, la comunicazione del vino, ha aggiunto Fabio Piccoli, a capo della testata giornalistica on line “Wine Meridian”, altro non è che lo specchio del mondo produttivo. Tanti anni fa, sul finire degli anni Ottanta del Novecento, al mio primo ProWein, eravamo 3 giornalisti e 60 cantine, oggi ci sono decine di giornalisti e più di 1.800 aziende italiane. La questione è che il mondo del vino è “prodottocentrica”. È vero che il bello raccontare quello che c’è fuori dalla bottiglia, ma i produttori chiedono sempre “parla del mio vino”. E poi, così come nel mondo della produzione, che non riesce a fare squadra, così è nel mondo del giornalismo. Si parlava già anni fa della necessità di creare una sorta di “Wine Spectator” italiano, non non ci siamo mai riusciti. L’individualismo dei produttori è lo stesso dei giornalisti, non si riesce a fare squadra, servono investimenti. Stiamo indagando su quanto spendono le aziende in comunicazione, ancora la ricerca non è finita, ma emerge che, comunque, non è abbastanza per sostenere un sistema dell’editoria del vino forte, spesso tutto è spalmato a pioggia, anche senza meritocrazia”.
Voce diversa, fuori dal coro, anche perchè da un mondo diverso da quello dell’editoria tout court, è quella di Alessandro Morichetti, tra i fondatori del blog “Intravino”: “ammetto subito che qui sono il più impuro, non vivo scrivendo, faccio il commerciale, vendo vino. Poi, per passione, insieme ad altri, portiamo avanti un blog, che è la sintesi del problema strutturale del settore. Il giornalismo del vino non esiste. Perchè il mondo del vino sta in piedi con i soldi dei produttori, sono gli unici che tengono in piedi le cose, tranne rarissimi casi non c’è nessuno che sta in piedi con i soldi dei lettori. Un mondo che sta in piedi con le risorse dell’oggetto di cui si parla, e quindi - sostiene Morichetti - non può essere giornalismo indipendente. Scendere a dialogare con le aziende vuol dire fare compromessi che non siamo disposti ad accettare. Ma è difficile trovare contenuti giornalistici, il 90% sono punteggi, ci sono premi su premi, e i premi piacciono a tutti, ma tutti premiati è come nessun premiato. Sui punteggi, poi, dai centesimi siamo passati ai 110, e via dicendo. È eccessivo. E poi dobbiamo dire meno cavolate, come quelle che ho letto, a milioni, sul tema alcol e salute. Il vino ci piace perchè è buono, perchè è storia, perchè è cultura, ma contiene anche dell’alcol, che è tossico, e se qualcuno parte a fare la crociata sul fatto che il vino fa bene alla salute, ha perso in partenza”.

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