Dove va la ricerca vitivinicola per risolvere antichi problemi e nuove domande? Le università di Australia, Germania, Italia e Stati Uniti sulle ultime tendenze della scienza nel vigneto e in cantina. Parte da qui la discussione del convegno “Spingersi con audacia: alle frontiere della ricerca enologica”, nel Simposio Internazionale dei Masters of Wine (Firenze, 15-18 maggio), per cogliere lo stato dell’arte della ricerca vitienologica, seppure, evidentemente, attraverso un punto di vista parziale, rappresentato dagli studiosi selezionati.
Il vino è composto per l’80-82% da acqua, l’alcol sta al 13-15%, gli acidi e gli zuccheri tra l’1 e l’1,5%. Ma i composti che determinano la grandezza di un vino - fenoli, polisaccaridi, minerali, proteine e composti aromatici - sono solo il 2%. È proprio in questa percentuale così ridotta che si gioca la partita vera della qualità. Ed è qui che la scienza e la ricerca si concentrano maggiormente.
“La ricerca del nostro Centro dura da dieci anni e molte delle cose che abbiamo analizzato si troveranno nei vini del prossimo futuro, molte invece no - spiega Peter Godden a capo del gruppo di scienziati dell’Australian Wine Research Institute (Awri) - un lavoro che è stato direttamente generato dallo straordinario sviluppo della viticoltura e dell’enologia australiana negli ultimi 25 anni. Quello che differenzia un grande vino da uno “normale” è la sua tessitura, cioè la capacità di restituire complessità e dettaglio. In cantina, per difendere e aumentare questo particolare bisogna ottimizzare i processi di stabilizzazione”.
“La nostra ricerca - spiega la professoressa Hildegarde Heymann dell’Università di California Davis - non potrebbe esistere senza la nostra azienda “Leed Platinum” dove abbiamo la possibilità di testare le nostre prove. Attualmente stiamo lavorando sulla possibilità obbiettiva di determinare le zone di produzione attraverso la presenza nel vino di determinati microrganismi. Tendenzialmente la risposta a questa domanda è positiva, mentre se vogliamo scendere nel dettaglio ulteriore delle sottozone i risultati sono meno evidenti, tuttavia stiamo lavorando per arrivare a determinare un rapporto diretto fino al livello del vigneto. Marca una differenza anche lo stesso uso di determinati mezzi e di determinate pratiche enologiche nelle diverse cantine, perché - conclude Heymann - la vinificazione ha un impatto determinante sulla struttura chimica del vino”.
Ma al di là delle ricerche analitiche sulla struttura chimico-fisica del vino restano degli elementi obbiettivi che “naturalmente” riflettono criticità ancora non secondarie. “Il Sangiovese - spiega Cesare Intrieri, direttore del Centro Interdipartimentale per la Ricerca sulla Viticoltura e l’Enologia dell’Università di Bologna - resta una varietà molto difficile, che matura bene a somma termica intorno ai 18 C, ma con i cambiamenti climatici come gli attuali, in cui la somma delle temperature annue in vigneto supera i 20 C, si sono verificati anticipi di maturazione e irregolarità varie che devono essere gestiti con una accurata ricerca ad hoc, tutta da fare”.
“La variabilità delle temperature verso l’alto - afferma Hans-Reiner Schultz, presidente della tedesca Geisenheim University - determina sui terreni, specialmente quelli argillosi, un raddoppio dell’azoto liberato, con evidenti riverberi produttivi. L’arricchimento di Co2 nell’atmosfera incide sui mutamenti genetici degli insetti che propagano alcune malattie della vite, con la possibilità di formazione di nuove fitopatie. Il margine di ricerca sulle varietà è da questo punto essenziale e ancora, in parte non completamente sviluppato, idem per i portinnesti. Nella nostra università siamo impegnati anche a ricercare metodologie di trattamento contro le malattie della vite meno invasive. L’obbiettivo della riduzione almeno del 50% dell’uso della chimica nel vigneto è ormai alla portata. Il nostro contributo - conclude Schultz - è una macchina sperimentale, unica nel suo genere, che “cura” la vite attraverso raggi ultravioletti UV-C”.
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