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Tutti i numeri del vino italiano di oggi raccontati dall’Osservatorio del Vino di Unione Italiana Vini e Vinitaly, con l’analisi del passato e le tendenze del futuro. E la consapevolezza che dati concreti servono ad essere più competitivi sui mercati

“Sono 25 le aziende, a rappresentare il 20% del fatturato del vino italiano, che hanno aderito al progetto dell’Osservatorio del Vino e grazie a loro dopo almeno 20 anni di discussione siamo riusciti a costruire questo importante strumento, che aiuta le aziende fornendo i dati necessari per una pianificazione dei progetti di marketing più accurata, ma anche le istituzioni, fornendo un adeguato supporto di cifre necessario per prendere le decisioni migliori. Grazie all’Osservatorio del Vino e ai suoi partner potremo essere più puntuali e tempestivi nell’orientare le nostre aziende con dati certi e letture approfondite, per studiare strategie aziendali e attività istituzionali aderenti alle necessità del nostro mondo, con l’obiettivo di affrontare il mercato senza doverlo subire come, purtroppo, ancora in qualche caso avviene. Importante, in tal senso, il nuovo agreement che ci consentirà di essere ancora più efficaci: Verona Fiere, con Vinitaly, entra a pieno titolo tra i partner dell’Osservatorio del Vino. Da un lato, quindi, avremo l’Osservatorio quale primo e unico punto di riferimento istituzionale per la raccolta, l’analisi, il commento e la diffusione dei dati statistici del settore vitivinicolo, sia sul fronte produttivo che su quello dei mercati interno e internazionale. Dall’altro, con Vinitaly, potremo contare su uno strumento di estrema utilità ed efficacia per l’internazionalizzazione delle nostre aziende che avrà a disposizione dati certi per definire le migliori strategie da mettere a disposizione del vigneto Italia”. Così Domenico Zonin presidente dell’Unione Italiana Vini e dell’Osservatorio del Vino, dalla tavola rotonda “Cinquant’anni di vigneti e cantine fotografati dall’Osservatorio del Vino”, di scena oggi a Vinitaly (a Verona fino al 13 aprile, www.vinitaly.com).

È ufficiale, così, l’accordo di collaborazione tra Vinitaly e l’Osservatorio del Vino promosso da Unione Italiana Vini (che annovera già come partner Ismea, Crea, Wine-management lab Sda Bocconi e Wine Monitor-Nomisma), che guarda con la concretezza dei numeri alle sfide sempre più impegnative specialmente provenienti dai mercati internazionali. “La firma di oggi - sottolinea Giovanni Mantovani, direttore generale di Veronafiere - costituisce un ulteriore passo in avanti nel gioco di squadra per far crescere il nostro sistema vitivinicolo nazionale. Il premier Renzi ha indicato l’obiettivo di 7,5 miliardi di export nel 2020. Per raggiungerlo, alle aziende del vino servono strumenti sempre nuovi ed efficaci. Vinitaly da 50 anni rappresenta la piattaforma di promozione all’estero per eccellenza. Ma per sviluppare il proprio business servono anche statistiche e dati di mercato sempre aggiornati. L’Osservatorio del Vino promosso da Uiv, in questo senso, costituisce una risposta concreta. E da oggi può contare anche sulla partnership di Vinitaly, aprendo una finestra di monitoraggio permanente sul comparto che ci aiuterà ad orientare le attività e le strategie a favore del vino italiano, con una voce univoca, autorevole ed internazionale”.

Per Raffaele Borriello, direttore generale Ismea, “questa edizione di Vinitaly deve essere però anche l’occasione per una riflessione e non solo una celebrazione del vino. Va benissimo elogiare la forza dell’export del vino tricolore che, negli ultimi 15 anni, è cresciuto del 120%, ma dobbiamo anche monitorare bene questo fenomeno. Insomma, bisogna tenere alta la guardia. Perché se l’ulteriore exploit di quest’anno è realtà, è reale anche il fatto che è stato raggiunto quasi esclusivamente grazie ad un cambio favorevole. In Cina, poi, solo per fare l’esempio più eclatante - conclude Borriello - Cile e Argentina contano più dell’Italia e questo è davvero un dato curioso se confrontato con la storia e la tradizione che caratterizza la nostra produzione enologica”:

Nella tavola rotonda, a tracciare cinquanta anni di storia del vino italiano nei numeri ci ha pensato Fabio Del Bravo di Ismea: “negli anni Sessanta il vino in Italia era ancora un alimento, data la struttura sociale ancora sostanzialmente di impronta contadina. La produzione era in maggioranza non specializzata e la diffusione era prevalentemente locale e basata sullo sfuso. Gli ettari a vigneto nazionali erano 1,138 milioni, per una produzione di 66 milioni di ettolitri. Il consumo pro-capite annuo era di 90 litri e l’export incideva per una percentuale irrisoria di 2,1 milioni di ettolitri. Negli anni Settanta, lo sfuso comincia ad essere sostituito dall’imbottigliato, gli ettari vitati nazionali crescono ancora (a 1,22 milioni), insieme alla produzione che arriva a 72 milioni di ettolitri, e al consumo pro-capite che si attesta sui 94 litri all’anno. L’export comincia a muoversi ed arriva a 12,2 milioni di ettolitri. Negli anni Ottanta - prosegue il ricercatore - s’innesca una controtendenza, che accompagna una nuova strategia di branding e la crescita delle denominazioni: cala la superficie del Vigneto Italia (971.000 ettari) e la quantità di vino prodotta (69 milioni di ettolitri) insieme al consumo pro-capite che scende a 74 litri, mentre l’incidenza dell’export tocca i 14,3 milioni di ettolitri. Il segno inequivocabile che l’Italia del vino stava cambiando rotta. Poi lo scandalo del metanolo ad interrompere questo processo. Gli anni Novanta si possono allora etichettare come gli anni della ricostruzione dell’immagine enoica dell’Italia, e con un ulteriore specializzazione della produzione, con l’obbiettivo della qualità. Gli ettari complessivi arrivano a 836.000, la produzione a 59 milioni di ettolitri, il consumo pro-capite a 56 litri e l’export, in conseguenza della tragedia del metanolo, perde ma non molto (1%). Negli anni 2000, finalmente, l’affermazione. Gli ettari totali a vigneto arrivano a 710.000 per una produzione di 47 milioni di ettolitri, il consumo pro-capite scende a 46 litri ma l’export tocca i 17, 1 milioni di ettolitri. Il focus passa da un’economia di prodotto ad un’economia basata sull’esperienza. Le aziende diventano “fornitori” di emozioni ed esperienze. Oramai a creare valore non concorre solo il prodotto in sé, ma anche l’esperienza che permette all’utente di vivere. Il consumatore è alla ricerca delle emozioni e delle sensazioni che i prodotti possono suscitare. Non si vendono più solamente bottiglie di vino, ma si vende la cultura di quella produzione, la storia e l’immagine dei territori da cui provengono quelle etichette. Il prodotto diventa sempre di più la forma attraverso cui comunicare un messaggio culturale. Ed eccoci alla fotografia attuale del vino italiano - conclude Del Bravo - La superficie vitata nazionale è di 638.000 ettari, la produzione complessiva di 74 milioni di ettolitri. Le cantine sono 50.000, per un fatturato di 12,4 miliardi. Il consumo pro-capite è di 35 litri, ci sono 523 fra Dop e Igp, l’export vale 5,4 miliardi di euro e il suo trend dal 2000 ad oggi è +118%”.

Una storia non solo fatta di cifre, ma anche di un incrocio felice tra vitigni di antica coltivazione e territori di grande vocazione. “Sono 504 le varietà di uva da vino iscritte al Registro Nazionale delle Varietà - spiega Diego Tomasi di Crea-Vit - 350 di queste (pari al 70%) vengono annualmente moltiplicate e rese disponibili per il loro allevamento, mentre in Francia, comprese quelle da tavola, sono 324 e in Spagna 238. Per questo l’Italia ha un patrimonio ampelografico inestimabile che, per giunta, è cresciuto continuativamente dal 1970 al 2010 a favore proprie delle varietà tradizionali. Di più, in Italia, la superficie vitata si è dimezzata e si è concentrata nelle aree più vocate dove, grazie all’adozione delle norme sulla commercializzazione dei materiali di moltiplicazione della vite (1969), è possibile monitorare costantemente la composizione e l’evoluzione quali-quantitativa del vigneto Italia. Il gruppo dei vitigni internazionali non ha subito grandi variazioni nell’ultimo trentennio, mentre le varietà nazionali diffuse in più Regioni (Montepulciano, Sangiovese…), e le varietà tipiche di areali ben delimitati (Negroamaro, Corvina, Catarratto….) vedono un utilizzo costante e in alcuni casi crescente. Negli ultimi cinque decenni - prosegue il ricercatore - la richiesta di varietà da parte dei vivaisti, è variata in conseguenza al cambio di preferenze del consumatore che è passato da vini bianchi a vini rossi che oggi coprono oltre il 60% del ventaglio varietale. Nell’ultimo decennio, tuttavia, si sono avuti dei veri e propri fenomeni di tendenza che hanno inciso fortemente sulla produzione di barbatelle di vitigni autoctoni (vedi il caso Glera, Grillo…..) e di alcuni internazionali (vedi Pinot grigio, Chardonnay, Syrah). Con il risultare di invertire la tendenza generale per arrivare all’attuale prevalenza dei vitigni bianchi (57%) sui rossi (43%). Come non era mai capitato, una combinazione di più fattori (sociali, economici, climatici, ambientali, etc.) stanno dando un nuovo indirizzo e stimolo al rinnovo varietale - conclude Tomasi - la piattaforma varietale nazionale è in completa revisione, con trend più forti (Glera, Pinot Grigio, Syrah), il vigneto italiano non segue il trend di quello mondiale (grazie alle sue varietà autoctone), i vitigni a bacca rossa non sono più i preferiti e, infine, le varietà resistenti, che si stanno da pochissimo affacciando sul panorama enologico italiano, hanno bisogno di più tempo per essere accolte e ben utilizzate”.

Dal lato del mercato “che i consumi di vino in Italia abbiano intrapreso da diversi decenni una tendenza alla riduzione sostanzialmente ineludibile - afferma Denis Pantini di Wine Monitor Nomisma - è ormai risaputo e i motivi alla base di questo calo sono altrettanto noti. Fino a tutti gli anni Ottanta, il vino ha rappresentato sostanzialmente un alimento (il 37% della popolazione italiana risiedeva nelle aree rurali, oggi meno del 30%). Con la fuga dalle campagne, la “destrutturazione” dei pasti e la riduzione del fabbisogno calorico medio, gli italiani, in particolare le nuove generazioni, hanno progressivamente abbandonato il consumo quotidiano di vino, per spostare le proprie attenzioni sia a bevande diverse ma soprattutto a differenti modalità di consumo dello stesso prodotto. Contestualmente sono cambiati i canali di vendita - prosegue Pantini - la Gdo ha acquisito sempre più peso nel mercato nazionale, l’export è diventato necessario, le imprese si sono prodigate nella vendita diretta e il commercio elettronico è oggi in fase espansiva. Più problematica la ristorazione e, più in generale il canale “on-trade”, sbocco indispensabile per le imprese più piccole e per la vendita dei vini premium che ha perso rilevanza soprattutto negli ultimi anni a causa della recessione economica. Se dal passato si volge uno sguardo al futuro, permangono molte incognite sull’evoluzione dei consumi di vino in Italia - aggiunge il ricercatore - e, di conseguenza, sui cambiamenti nei canali distributivi. Quello che è certo, è che dal punto di vista quantitativo i consumi continueranno a ridursi e, più sicuro ancora, si modificheranno ulteriormente nelle tipologie di prodotti consumati. E i segnali di queste evoluzioni sono facilmente individuabili guardando alle rilevanti differenze che sussistono nelle modalità di consumo tra la generazione dei cosiddetti “Millennials” (fino a 34 anni) rispetto a quella dei “Baby Boomers” (50-65 anni): i primi più orientati a vini leggeri, con preferenza verso gli sparkling, da consumare fuori casa, mixati con altri alcoolici. I secondi ancorati a prodotti da abbinare ai pasti e da consumare soprattutto a casa”.

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