Eroi. Li chiamano “eroi armati di zappa”. Usano tecniche e tecnologie all’avanguardia per coltivare terre impossibili con pendenze oltre il 30%: ai piedi delle montagne più alte d’Europa, di vulcani, perfino su coste inaccessibili. Dal Portogallo alla Slovenia, seguendo l’arco alpino e svariando nelle terrazzate a picco sul mare, nelle isole. Sfidano il difficile mercato del vino: ci sono entrati bussando forte con bianchi e rossi profumati, inimitabili.
Nei filari usano trattorini che paiono giocattoli, hanno mini cremagliere per sfidare le pendenze e trasportare vendemmie. Vigne che producono non più di 80 quintali per ettaro e che a volte hanno soltanto pochi filari. I costi superano del doppio quelli delle vigne di pianura. Viti autoctone, dai nomi poetici: una riscoperta per offrire con il vino il territorio. Viticoltori che hanno ritrovato un paesaggio costruito secoli fa, quasi dimenticato, a volte già in rovina: terrazzi che s’inseguono in verticale, rettangoli di terra sostenuti da muri a secco. Hanno ridisegnato terre inospitali, tanto da richiamare turisti. I vigneti della Valtellina entreranno a far parte del patrimonio mondiale Unesco. “Eroicità palese in quei 1200 ettari”, dicono i tecnici. I doc della vallata lombarda sono ottenuti spremendo grappoli di viti antiche: Rossola nera, Pignola valtellinese, Fortana. Il “padrone” di queste terre è, però, il Nebbiolo, come nei ventagli terrazzati di Carema, estremo lembo del Nord-Ovest del Piemonte, al confine con la Valle d’Aosta. La più piccola regione italiana dominata dai gruppi montuosi più alti del vecchio continente, “isola” infilata tra rocce e ghiacci, è un enclave botanica. Per questo conserva vitigni solo valdostani, dai rossi Petit rouge, Fumin, Cornalin ai bianchi Prié (a Morgex e La Salle, i vitigni a ridosso del Monte Bianco) e Petite Arvine.
Piccole vigne verticali in Abruzzo nelle valli Peligna e Subequana, con i bianchi Malvasia, Passerina, Pecorino e il Trebbiano. O sulla Costa Viola, in Calabria, con i rossi Malvasia nera, Nerello calabrese e il bianco Moscato d’Alessandria. Nerello, ma mascalese o cappuccio anche nel Parco dell’Etna. Grappoli rossi che convivono con i bianchi del Carricante o i pochi filari dei Cataratto comune o lucido. Vigne in piedi sul mare anche nelle liguri Cinque Terre, dove le grandi foglie verdi della vite colorano aspre zolle e rocce con arance e limoni. Il Vermentino, il Bosco, oppure il Rossese e il Ciliegiolo. Il Piemonte sfugge alla logica dei piccoli appezzamenti, ma non all’eroismo quando di parla di Valle di Susa, del Pinerolese o dell’Alta Langa. Anche qui vitigni indigeni come l’Avanà, il Vosco, oltre ai classici, dal Nebbiolo al Dolcetto alla Barbera. Classici come i Muller Thurgau, i Traminer o i Pinot e i Chardonnay dell’Alto Adige, altra terra aspra, ma con produzioni notevoli. Come nel Trentino o nel Veneto con il rosso Schiava. O nell’isola di Pantelleria con lo Zibibbo.
Il “fil rouge” dei viticoltori definiti “eroi” non è soltanto il territorio dove piantare viti, con pendenze improponibili sia sul mare sia tra le montagne, ma l’attenzione al prodotto. Sanno che altrimenti il mercato sarebbe loro vietato: impossibile affrontare la concorrenza della pianura, dei grandi vini. La loro forza è quella del «fiore del deserto», così raro da concentrare in sè aroma e profumi.
La “Santa Alleanza” tra regioni per salvare la viticoltura eroica
Le regioni vinicole di montagna hanno stretto un’alleanza affinché la Commissione Europea abbia un occhio di riguardo per quella che viene anche definita la “viticoltura eroica”. “Chiediamo - spiega Francois Stevenin, presidente del Centro di Ricerche, Studi, Salvaguardia, Coordinamento e Valorizzazione per la Viticoltura Montana (Cervim) che nella prossima riforma sia previsto che ciascun Stato membro possa delimitare geograficamente le zone con viticoltura di montagna e in forte pendenza; pendenze del terreno maggiori del 30% e/o altitudine superiore ai 500 metri”.
Il Cervim, al quale aderiscono le regioni d’Europa caratterizzate da viticolture di montagna e in forte pendenza, da alcuni anni si sta battendo per il riconoscimento a livello comunitario delle “viticolture di eroiche” quali i sistemi viticoli su terrazze o gradoni; vigneti coltivati sulle piccole isole, caratterizzate da difficoltà strutturali e da effettivo e permanente carattere di isolamento. Il Cervim chiede, inoltre, che la riforma escluda il regime di divieto di impianto per tali viticolture.
La richiesta del Cervim è concordata fra tutte le regioni viticole aderenti (Italia: Val d’Aosta, Lombardia, Piemonte, Liguria, Sicilia, Provincia Autonoma di Bolzano, Provincia Autonoma di Trento, Provincia di Reggio Calabria e Abruzzo; Svizzera: Cantone Vallese e Canton Ticino; Spagna: Galizia; Portogallo: Douro; Germania: Renania-Palatinato; Austria: Wachau e Stiria; Francia: Banyuls-Collioure e Rhone-Alpes).
“Molte delle realtà vitivinicole eroiche - ha sottolineato Stevenin - sono seriamente a rischio di abbandono. Sono necessari interventi specifici a sostegno del settore, al fine di conservare per le generazioni future dei monumenti rurali di rara bellezza, frutto nell’instancabile lavoro dell’uomo nel corso dei secoli, strategico per la conservazione del territorio e del paesaggio”.
Dal Censimento sulla Viticoltura di Montagna emerge che sono 39 aree vitivinicole “eroiche” inserite in 17 regioni di 7 nazioni europee, più di 500.000 persone coinvolte in oltre 200.000 aziende che coprono una superficie di 90.000 ettari.
Il “caso Pantelleria”, l’isola del vento, e l’“esempio” Donnafugata
Anche il territorio di Pantelleria (le statistiche della Camera di Commercio ci dicono che nel 1950 la superficie vitata era di 5.000 ettari. Oggi questa superficie si è ridotta a circa 1.000 e l’azienda media è di 3.600 mq. Dei 1.000 ettari vitati, 460 sono a Doc e Donnafugata ne coltiva circa il 10%) rientra nella viticoltura eroica: i terrazzamenti implicano una coltivazione quasi interamente manuale del vigneto, il mantenimento della “conca” - che protegge la pianta dal vento - aggiunge ulteriore difficoltà e pesantezza al lavoro. E’ un lavoro duro e faticoso che va adeguatamente remunerato e che richiede pertanto prodotti ad alto valore aggiunto e di forte immagine che possano far valere sul mercato dei prezzi di vendita inevitabilmente alti, ma per prodotti naturalmente eccellenti!
Facciamo due conti: la densità d’impianto media a Pantelleria è di 2.500 piante per ettaro circa e la produzione per ettaro non supera i 40-50 quintali, vale a dire un massimo di 2 kg a pianta. Considerato che la coltivazione per ettaro (incluso la raccolta) oggi costa circa 10.000 euro (3 volte di più di un vigneto a coltivazione meccanizzabile), il costo di produzione dell’uva fresca è di 2 euro al kg. A queste condizioni, collocare sul mercato prodotti a basso valore aggiunto il cui unico fattore di competizione è il prezzo vuol dire condannare all’estinzione la viticoltura di Pantelleria. E’ fuori discussione che fra i vari vini ottenibili dalla trasformazione dello Zibibbo il Passito di Pantelleria “naturale” risulta essere un prodotto ad altissimo valore aggiunto che consente di remunerare adeguatamente il lavoro della produzione oltre alle spese di marketing indispensabili per dare visibilità ad una realtà così piccola e lontana dal mondo. Se per produrre qualità a Pantelleria serve passione, organizzazione e cultura comparata; per vendere i prodotti di Pantelleria sul mercato globale serve anche comunicare l’unicità del prodotto e dei valori che ne stanno alla base: dalla difesa del paesaggio e del territorio alla difesa della biodiversità.
Oggi sempre di più sono i consumatori ad avere il controllo sul comportamento delle aziende e non le aziende a controllare il comportamento dei consumatori. Tocca a noi imprenditori sposare i loro valori e darne adeguata comunicazione. La globalizzazione non è soltanto un fatto economico, è un fenomeno che comporta anche nuove forme di comunicazione, la nuova piattaforma tecnologica consente infatti di mettere in rete la nostra cultura locale, di globalizzare il locale. In questo senso la globalizzazione è fonte di minacce ma anche di opportunità: se da un lato rischia di uniformare le culture dall’altro aumenta la possibilità di preservare e di valorizzare le culture locali. Anche la Cina ha inserito il Passito di Pantelleria nella selezione da importare. La globalizzazione è una nuova e potentissima leva di marketing che è stata ampiamente sfruttata da due realtà italiane che hanno sancito il successo del territorio e delle piccole produzioni di pregio come Slow Food e il Parco delle Cinque Terre.
Un successo basato sulla difesa della tipicità e della sostenibilità dei processi produttivi, sulla divulgazione delle tradizioni agricole ed enogastronomiche orientate alla salvaguardia della biodiversità, sul turismo enogastronomico come fonte di ricchezza in sé ma anche come sbocco e volano delle produzioni locali. Anche a Pantelleria la svolta sta nel far partire: una serie di interventi imprenditoriali (e quindi non solo Donnafugata) su progetti mirati a dare la più alta definizione possibile delle qualità di questo magico territorio, tenendo presente che oggi più che mai i progetti di successo sono progetti condivisi di filiera e non tanto progetti caduti dall’alto.
Ma sul rilancio dell’economia di Pantelleria, una delle pagine più belle e interessanti, è stata scritta da Ermete Realacci e Antonio Cianciullo, sul libro “Soft Economy”, base di Symbola, la “lobby per le qualità italiane” che serve a promuovere e dare visibilità al lavoro di rete che aziende e istituzioni possono realizzare per coniugare competizione economica e coesione sociale traendo forza dalle comunità e dai territori: “all’inizio degli anni ’90 tutti quelli che potevano scappavano via da questo angolo di Liguria; … ora all’inizio del nuovo secolo, la situazione si è rovesciata: dalle fabbriche tornano indietro lasciano la tuta per dedicarsi ai filari di un vino da 50 euro a bottiglia; le terrazze sono pettinate con cura; i turisti riempiono la stagione che dura dieci mesi; la manodopera va importata perché i disoccupati sono finiti; in cassa ci sono abbastanza soldi per comprare la tecnologia più avanzata”. Opera del parco e dei suoi uomini.
Testimonianza raccolta da Giacomo, Josè e Antonio Rallo (Donnafugata)
Il lavoro di Donnafugata, l’azienda del “Ben Rye” e “Mille e Una notte”, nell’isola di Pantelleria
Donnafugata nasce in Sicilia - poco più di 20 anni fa - da una famiglia che ha sempre creduto nelle potenzialità viticole della propria terra e che ha sempre cercato di produrre vini la cui personalità e le cui caratteristiche organolettiche fossero espressione forte del territorio. Dalle colline di Contessa Entellina, Donnafugata approda nel 1989 sull'isola di Pantelleria con uno spirito pionieristico ed un chiaro obiettivo strategico: rivalutare e rivisitare il Passito di Pantelleria ed in particolare quello naturale (non liquoroso ossia senza aggiunta di alcool). Un vino ancora poco conosciuto, che prodotto al suo massimo livello avrebbe rappresentato, a nostro avviso, la migliore risposta alla grande e crescente domanda di vini dolci naturali che già si annunciava all’orizzonte.
La scelta delle tecniche di produzione si è ispirata per lo più alla tradizione, come ad esempio l'appassimento delle uve al sole ed al vento dell'isola sui graticci; ma il ciclo produttivo ha visto anche l'applicazione delle moderne tecnologie mutuate dalla produzione dei vini bianchi di alta qualità (la pressatura soffice delle uve, la crio-macerazione ed il controllo delle temperature in fermentazione).
Donnafugata, in pochi anni, con l’aiuto di tecnici italiani e francesi, mette a punto un modello produttivo che ha dato risultati eccezionali dal punto di vista della qualità e del successo di mercato: il Ben Ryé Passito di Pantelleria ne è il simbolo …
Negli ultimi 10 anni il fatturato globale dell’azienda è cresciuto sensibilmente e quello dei propri vini dolci naturali è cresciuto ancora di più. Se nel 1997 il fatturato di Ben Ryé e Kabir rappresentava il 4% del fatturato globale dell’azienda, oggi il fatturato dei vini prodotti sull’isola ne rappresenta il 19%.
Sono numeri che danno un’idea di quanto sia cresciuta Donnafugata a Pantelleria grazie ad una lettura corretta delle valenze uniche di questo territorio!
Il Ben Ryé, il cui nome viene dall’arabo “figlio del vento”, è frutto di un’isola estrema per la sua natura vulcanica e per il suo microclima particolarissimo (pochissima pioggia, venti battenti, altissime temperature in estate), ma non per questo è un vino “eccessivo”. Grazie alle scelte dell’uomo, la sua dolcezza, la sua grande carica aromatica ed i suoi profumi così complessi e così ampi si fondono nell’eleganza.
Il Passito di Pantelleria è anche il frutto della sintesi tra un territorio unico ed un vitigno altrettanto unico: il Moscato d’Alessandria detto Zibibbo. Un vitigno antico che prende nome dal termine arabo “zebibb” che significa appunto “uva passa” e che fu portato a Pantelleria dalle coste del Nord Africa proprio dagli arabi. Questo vitigno autoctono è da considerare, senza dubbio, uno dei simboli dell’identità dell’isola di Pantelleria, assieme al dammuso, al cappero! Da sempre l’economia dell’isola ha fatto leva sulla coltivazione dello Zibibbo: uva da mensa di grande valore organolettico, uva da appassire per usi gastronomici, materia prima per vini dolci naturali. Il catasto borbonico la dava come coltura principale dell’isola nel 1823.
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