In un settore del vino che, insieme al mondo, cambia e si evolve, il brand e gli asset immateriali sono sempre più importanti per le cantine, tanto sul mercato che nel rapporto, per esempio, con banche e investitori. Vale per tutte le realtà, ma con delle differenze, perchè se per i vini che seguono logiche più commerciali e mass market il marchio può essere addirittura predominante su tutto il resto, per i vini di maggior pregio, e non necessariamente solo di lusso, gli asset tangibili, a partire dalla vigna, restano decisivi, non solo per la qualità organolettica del prodotto, ma anche per lo “storytelling”, e quindi per tutto quello che è la costruzione del valore “intangibile” intorno al marchio. È il messaggio di sintesi del convegno “Il nuovo valore del vino”, organizzato dal professor Vincenzo Zampi dell’Università di Firenze per conto della Fondazione Cesifin-Alberto Predieri, importante Centro Studi sulle istituzioni finanziarie, promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze. Sul quale WineNews ha raccolto le riflessioni dello stesso professor Vincenzo Zampi, oltre che di Giampiero Bertolini, ad Tenuta Greppo Biondi-Santi, la culla del Brunello di Montalcino, oggi del gruppo francese Epi, di Lamberto Frescobaldi, alla guida dello storico e prestigioso gruppo vinicolo fiorentino, e di Giovanni Geddes de Filicaja, al vertice di due realtà di assoluto valore come Ornellaia e Masseto. La riflessione parte anche dai numeri di un fenomeno, quello del mergers & acquisitions, sempre più intenso nel mondo del vino, come vi raccontiamo spesso. Secondo i dati illustrati al convegno, si è passati, in pochi anni, da un volume di 1,5 miliardi di dollari all’anno mosso da acquisizioni e fusioni di aziende, ad un picco, nel 2021, di oltre 8 miliardi. In buona parte anche grazie alla sempre più forte presenza dei fondi di private equity, in cui investimenti nel vino, si stima, sia cresciuti in pochi anni del 75%.
“Emergono due aspetti fondamentali: sempre di più nel vino - ha spiegato, a WineNews, il professor Vincenzo Zampi (Università di Firenze) - si stanno affermando logiche di investimento diverse dal passato, sempre più tipiche della finanza. In alcuni casi si tratta di investimenti di gruppi interessati a progetti di costruzione di aziende capaci di generare valore attraverso il reddito stesso dell’impresa, mentre in altri casi, soprattutto in Francia, ci sono anche logiche speculative, dove chi compra cerca di far crescere il più rapidamente possibile il valore dell’azienda acquisita per poi rivenderla. Un altro aspetto che emerge, però, è che nella valutazione del valore delle imprese contano sempre più gli asset immateriali, e questo vale tanto per chi vuole comprare o vendere un’azienda, che nel rapporto con le banche sul fronte del credito. Ed asset immateriali vuol dire, in particolare, guardare a valore derivato dal prestigio del brand. Chi vuole investire, insomma, deve aver chiaro che si investe in vigna e vino come prodotto, ma anche nel marchio, e sulla costruzione di un’immagine da fare in modo sempre più professionale”.
A formare il valore di un’impresa del vino, dunque, sono molti fattori: il valore delle vigne e degli immobili, il vino in magazzino, la storicità, l’identità, e, ovviamente, la capacità di generare valore sul mercato. E, in un prodotto come il vino, soprattutto di alta gamma, strettamente legato alla territorialità, incide anche, e non poco, quella che è definibile come “brand equity” del territorio. Ma la costruzione di una reputazione di prestigio e di affidabilità, ovvero di una forte immagine di marca, è un obiettivo difficile da raggiungere, data la complessità dei meccanismi della marca nel campo del vino, tenuto conto di quante possano essere le tipologie di “brand” - cioè di elementi identitari capaci di influenzare le decisioni di acquisto - presenti contemporaneamente sull’etichetta di un vino. Fattori che spesso legano inestricabilmente sia la dimensione individuale (l’impresa) con quella collettiva (il territorio). Un tema complesso, ha detto il professor Vincenzo Zampi, “che ormai molte aziende del vino conoscono, ma serve una maggiore consapevolezza, che può aiutare ancora di più la crescita professionale e manageriale nel mondo vino, settore che deve ragionare in modo sempre più moderno: non è più un’attività agricola come tante, ma si avvicina più al mondo del lusso che a quello dei generi puramente alimentari”.
Una visione suffragata da Matteo Calegari, managing director della Divisione Branded & Luxury Goods di Mediobanca, advisor di molte delle principali operazioni di mergers & acquisitions, avvenute nel settore negli ultimi anni. Che ha messo in evidenza, prima di tutto, come l’analisi delle diverse tipologie di imprese del vino coinvolte in questo tipo di operazioni faccia emergere un apparente paradosso: il peso degli asset immateriali e, in particolare, del brand nel determinare il valore delle imprese è in percentuale più alto in quelle che operano nel mass market e più basso in quelle che, invece, producono vini della fascia più alta. Ma, come detto, questo si spiega abbastanza facilmente: mentre le prime sono in genere imprese che non possiedono vigneti il loro valore è legato inevitabilmente soprattutto ad asset immateriali quali il loro brand e alla forza delle relazioni con i fornitori ed i clienti, viceversa le aziende top-end sono tipicamente imprese radicate in un territorio di prestigio in cui i valori dei vigneti sono spesso particolarmente elevati: questo fa sì che, nella definizione del loro valore, questa componente “fondiaria” abbia spesso un peso molto importante, così come non è raro che vi sia anche un magazzino di annate precedenti importante; questo fa sì che anche il valore economico di queste imprese possa essere correttamente stimato solo come somma di almeno queste tre diverse componenti (fondiario-immobiliare, magazzino, brand). Confermando che, in ogni caso, la quota di valore spiegata dal brand è, comunque, sempre estremamente rilevante, soprattutto, nelle imprese di maggior prestigio e notorietà.
Dall’analisi del database Mediobanca - che copre un campione di imprese che genera quasi il 50% del fatturato e oltre il 75% dell’export del settore - emerge che, a seguito del cosiddetto “decreto agosto” 2020, le imprese monitorate hanno effettuato rivalutazioni di attivi di bilancio per oltre 1,5 miliardi di euro ma, soprattutto, che queste rivalutazioni hanno riguardato per la gran parte (1,3 miliardi) asset immateriali. In altre parole viene riconosciuta anche nei bilanci l’importanza del brand quale espressione della qualità del prodotto e della sua capacità di generare valore. Anche l’analisi della correlazione tra prezzi e redditività ha confermato che, da questo punto di vista, l’investimento in qualità - di prodotto e di immagine - indubbiamente paga, portando a marginalità più elevate; è tuttavia emerso che le cose non di rado si complicano se si ragiona in termini di ritorno sul capitale investito: da questo punto di vista, non sono rari i casi in cui gli investimenti appaiono non ben bilanciati rispetto alla loro effettiva capacità di generare sufficiente redditività, ovvero un adeguato ritorno economico sul capitale investito. Analisi che, di fatto, confermano la visione di chi guida le imprese. “Oggi è abbastanza evidente che il valore della marca - ha detto, a WineNews, Giampiero Bertolini, ad Tenuta Greppo Biondi Santi (la cantina che ha inventato il Brunello di Montalcino, ndr) - è sempre più importante. Ovviamente, quando si parla di segmenti diversi il valore, il peso della della marca varia in modo importante: se uno è nel segmento del vino di grande prestigio, la componente vigneti, per esempio, è importante e si riduce la percentuale del peso della marca, mentre in altri segmenti il valore della marca è percentualmente molto più importante. Ma è, comunque, un valore sempre più importante tanto negli scambi tra aziende che nei confronti della banca, che oggi ti finanzia, se hai flussi di cassa positivi. E questi li fai se hai una marca che ti fa vendere meglio, che vuol dire a valori più alti. Iniziare a ragionare del valore della marca è importante, è un aspetto di cultura di impresa sui cui si deve lavorare tutti insieme, per far crescere il valore. Come Biondi Santi gli diamo valore da sempre, altrimenti Epi non avrebbe comprato la Tenuta Greppo di Montalcino solo per il valore degli asset di vigna e cantina, pur importantissimi. E anche la scelta che hanno fatto i francesi di prendere un amministratore delegato come me, che ha un background che non è tecnico, dal punto di vista enologico, è sintomo del valore che danno alla marca, che è l’aspetto sui cui lavorare. Fare il vino al top è la base, è il pre-requisito, ma poi devi fare una distribuzione attenta, un prezzo centrato, una comunicazione selettiva: tutte azioni che fanno crescere il valore della marca”. E il tema del prezzo è proprio uno dei più delicati, perchè un’azienda può stabilire i suoi prezzi all’origine, ma poi è difficile controllare le politiche di chi i vini li porta allo scaffale. “Il controllo del prezzo al consumo è fondamentale - spiega Bertolini - anche se parte tutto dal tuo prezzo all’origine. Ma non è facile farlo, perchè poi ognuno ha le sue marginalità. Noi abbiamo un prezzo uguale per i distributori e rivenditori di tutto il mondo, controlliamo le quotazioni costantemente e cerchiamo di intervenire quando vediamo qualcosa che non torna, ma non è semplice controllare il prezzo finale al 100%. Anche se è una variabile importantissima, quella che comunica in modo più immediato al consumatore, quella che crea valore. Detto questo, sullo stesso piano ci sono il racconto dei propri valori e della propria storia, perchè se il valore, il prezzo, non ha contenuti dietro, non regge. Così come non va bene avere valori importanti da raccontare, che, però, non rendono. Sintetizzando, il vino, nel nostro caso, deve essere un liquido rosso di qualità eccellente, ma il valore aggiunto glielo dà tutto quello che è prima e intorno alla bottiglia, perchè quando spendi certe cifre compri la storia del prodotto, non solo il prodotto. La gestione della marca è una cosa che va pianificata, alimentata giorno giorno, ma è complessa”.
Ma quando si parla di vini di alta gamma, come detto, tutto parte della vigna, che resta asset primario. Come spiega, a WineNews, Lamberto Frescobaldi: “i grandi vini sono legati al territorio. È vero che ci sono aziende che sono diventate marche quasi a sé stante, come la Tenuta San Guido con il Sassicaia, per esempio. Ma è inimmaginabile che se un giorno, per assurdo, si sganciassero dal territorio di Bolgheri, avrebbero lo stesso valore. E vale anche per vini che sono Igt, come il nostro Masseto: va benissimo parlare della marca, ma è il territorio che ha elevato il prodotto ad un certo livello. Poi le persone, i produttori, lo anno elevato a marca. Quello sul territorio - continua Frescobaldi - resta il più grosso investimento da sostenere: fare dei bei vigneti, gestirli con sapienza e precisione, fare tutto quello che deve essere fatto per fare un vino che sia unico, riconoscibile, inimitabile, e questo poi crea il successo. Dopo si crea la marca, ma tutto nasce dalle vigna.
In un settore come il nostro credo nel valore del territorio e delle persone. Ma guardo a quello che succede in un settore diverso come la moda, e noi tra Firenze e Siena siamo in un distretto importante anche per questo, con grandi marchi: i distretti della moda stanno ritornando dopo alcuni anni in cui, magari, si è guardato a produrre in altri Paesi perchè costava meno. Si guarda al ritorno a territori dove c’è sapienza del fare, conoscenza, sensibilità tramandata di generazione in generazione. E così è nel vino. Il valore della marca è un premio del mercato, ma tutto parte dal territorio. Altrimenti saremmo dei pazzi ad investire in vigneti e proprietà in territori dove un fazzoletto di terra vale milioni di euro”.
Visione condivisa da Giovanni Geddes de Filicaja, regista del successo di realtà top come Ornellaia e Masseto (che fanno parte della galassia Frescobaldi, ndr): “il valore del vino, del prodotto, è un tutt’uno tra vigne, cantina, attività di comunicazione che facciamo, e ovviamente il marchio. Una bottiglia di vino senza un’etichetta non ha nessun valore. L’etichetta racconta e comunica quello che ci si deve aspettare, ma i valori immateriali sono inscindibili da quelli intangibile. Non è un caso che i vigneti, in territori come Bolgheri, ma non solo, continuino a crescere di valore”. Ma non tutto è uguale, ovviamente: “le aziende meno conosciute - sottolinea Geddes - hanno bisogno di più del marchio territoriale, della Dop, mentre altre hanno predominanza su quello del territorio, come può essere il caso di Ornellaia. Ma sono, comunque, legati, tutto cresce insieme.
Dal 2015 al 2021, secondo uno studio Iri sulla grande distribuzione, c’è aumento del valore della bottiglia del 20% come prezzo medio, ed un salto particolare c’è stato, dal 2019 al 2021, con una crescita dell’8%. Ed anche in una fascia di prezzo alta, per la gdo, che è quella tra 8 e 12,99 euro a bottiglia, le cui vendite in 6 anni sono quasi triplicate, da 6 a 17,2 milioni di bottiglie, emerge che il consumatore va a ricercare i brand più conosciuti. È un circolo: le aziende più importanti fanno crescere il valore del territorio, che, a sua volta, fa crescere il valore delle aziende”.
Ma poi Geddes introduce un distinguo, perchè se il valore della denominazione in assoluto è importantissimo, a volte, per alcuni, pochissimi top brand, anche in territori importanti, il nome della Denominazione può essere un po’ omologante in termini di valore. E se, in qualche modo, può aiutare a non scendere sotto certi valori economici, può essere anche un limite per superarli. Come dire che “il fuoriclasse deve saper giocare anche da solo, pur stando dentro e insieme alla denominazione. E quello che succede nella zona di Bolgheri è una testimonianza tangibile”.
In ogni caso, fatto di vino di qualità eccellente, che è ormai un prerequisito, perchè il vino crei valore, deve essere distribuito sui mercati in maniera coerente ed organica. Cosa che non sempre avviene, come sottolineato da Sergio Dagnino, Ceo di Prosit, holding controllata dal Made in Italy Fund di Quadrivio & Pambianco (che, in pochi mesi, è entrata nel capitale di capitale di cantine come la pugliese Torrevento, l’abruzzese Nestore Bosco e la veneta Collalbrigo, che ha acquisito l’importatore e distributore Usa Votto Vines e, di recente, la Cantina di Montalcino, una realtà cooperativa del territorio del Brunello). Dagnino ha sottolineato l’asimmetria esistente in Italia tra capacità di produrre vini di qualità ormai paragonabile alla gran parte dei vini francesi e l’incapacità di spuntare prezzi medi paragonabili. Evidenziando come questo gap possa essere in gran parte ricollegato alla difficoltà diffusa nel sistema italiano di valorizzare di far emergere brand di successo, anche a causa della difficoltà di sviluppare su larga scala un sistema di distribuzione nazionale e internazionale dei vini capace di affiancare imprenditori spesso impegnati su troppi fronti contemporaneamente, verso il raggiungimento di questo obiettivo.
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