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VINO & MERCATI - PAROLA A LUCIO CAPUTO, PRESIDENTE ITALIAN WINE & FOOD INSTITUTE: "LA GLOBALIZZAZIONE NATA IN AMERICA ED ESPORTATA NEL MONDO"

Italia
Lucio Caputo

Quando è nata era piccola piccola e nessuno se ne è accorto anche perchè ancora non si sapeva cos’era e dove sarebbe andata.
Poi è cresciuta, è stata scoperta e si sono subito formati i partiti pro e contro che hanno cominciato a scontrarsi e a combattersi spesso senza avere le idee chiare sul motivo del contendere, avanzando per stereotipi e luoghi comuni e sostenendo tesi tanto variopinte quanto spesso inconsistenti. La globalizzazione è stata idolatrata da chi la riteneva la sanatoria ai mali del mondo e aspramente combattuta da chi la considerava la causa di tutti i mali del mondo. I “No Global” sono scesi in piazza e hanno distrutto quanto hanno potuto per salvare l’umanità dal nuovo flagello. Al contempo sono scorsi fiumi di inchiostro per dimostrare e sostenere le opposte tesi usando argomenti tanto nebulosi e fantasiosi quanto di poca sostanza accademica.
Vediamo se, partendo da queste considerazioni, riusciremo, nel poco tempo a disposizione, a tracciare un quadro di base per poi trattare della globalizzazione nel mondo del vino.
Bene! Che cosa è allora la globalizzazione? - Sul piano produttivo-commerciale con il termine globalizzazione si puo’ intendere un complesso fenomeno economico per il quale tutto il mondo è considerato un unico mercato nel quale si produce e si scambiano prodotti e servizi secondo il meccanismo della domanda e dell’offerta. La globabilizzazione non va pero’ confusa - come spesso avviene - con la crescente internazionalizzazione delle imprese, che ampliano i loro mercati espandendosi in alcuni paesi esteri, anche se i limiti fra i due processi sono poco definiti ed ormai si tende, nel positivo e nel negativo, a definire come globalizzazione, o come conseguenza della globalizzazione, qualsiasi processo o fenomeno che si verifica nel mondo e che abbia ripercussioni in più paesi. Per cui se la Cina produce ed esporta a prezzi molto bassi e degli operai perdono il posto di lavoro negli USA si parla di effetti negativi della globalizzazione.
A differenza dell’internazionalizzazione delle imprese, che si è ampiamente sviluppata negli ultimi decenni e che vede la presenza delle aziende con i loro tipici prodotti o servizi su più mercati grazie essenzialmente ad accordi commerciali con aziende locali, la globalizzazione consiste nel produrre e nel vendere in tutto il mondo con uno specifico marchio, dei prodotti o dei servizi standard - appositamente studiati e creati per il mercato mondiale - che rispondano alle esigenze della gran parte dei consumatori di tutto il mondo secondo una unica strategia di distribuzione e di marketing. Caso tipico la Coca Cola, la grande azienda americana che guida da vari anni la classifica dei primi 100 marchi di rilevanza mondiale con un valore, secondo Business Week, di oltre 67 miliardi di dollari ed introiti superiori al 20% del fatturato fuori del paese di origine (seguita da Microsoft con 60 miliardi di dollari, IBM con 53 miliardi di dollari e G.E con 47 miliardi di dollari).
La globalizzazione presuppone quindi l’esistenza di aziende o di gruppi di grandi dimensioni e con grandi disponibilità economiche capaci di operare a livello mondiale ed in grado di produrre e vendere prodotti o servizi adatti al mercato mondiale propagandandoli ed imponendoli sui consumatori del mondo. La globalizzazione crea quindi una crescente omologazione a livello mondiale della domanda, una standardizzazione dei comportamenti e della produzione, un’integrazione a livello mondiale delle attività e degli obiettivi delle imprese che devono affrontare e rispondere a richieste sempre più globali e di riflesso una crisi dello stato-nazione e della sua sovranità.
La globalizzazione implica anche la mobilità dell’attività produttiva e lavorativa che puo’ essere trasferita da un luogo all’altro del pianeta a seconda delle esigenze.
Storicamente i primi accenni di globalizzazione si considerano conseguenti alla scoperta dell'America quando le navi partivano vuote dall'Inghilterra per trasportare gli schiavi dall’Africa all’America da dove riportavano le materie prime.
Sicuramente è però la recente rivoluzione informatica, iniziatasi negli anni ottanta, ad aver decisamente contribuito ai processi di globalizzazione permettendo di produrre, comprare e vendere in tempo reale in tutto il mondo.
Le economie sono oggi sempre più interconnesse, i mercati borsistici sempre più strettamente collegati, le aziende, e non solo quelle multinazionali, sempre più attrezzate per comprare e vendere fuori dai confini nazionali, laddove è più conveniente. Si assiste inoltre ad un sempre più accentuato processo di acquisizioni e fusioni aziendali per poter raggiungere le dimensioni necessarie per competere sul mercato mondiale.
In tutto il mondo si consumano gli stessi prodotti, si parla sempre più in inglese o meglio in americano, si vedono gli stessi film e si sente la stessa musica, ci si veste in maniera sempre più simile, si beve la stessa Coca-Cola, si mangiano gli stessi hamburgher da Mc-Donald's, si corrisponde per via elettronica, si leggono i giornali trasmessi elettronicamente, si usano costantemente i cellulari e ci si connette sempre più spesso all’Internet.
In questo mondo senza confini gli Stati Uniti assumono un ruolo di guida e di indirizzo rispetto alle altre nazioni che sembrano segnare il passo. Per cui si può tranquillamente dire che ogni azione che ha luogo a New York, - sempre più al centro del mondo - produce conseguenze, spesso imprevedibili, nel resto del mondo.
Ovviamente le aziende degli Stati Uniti, più libere dai vincoli dello stato sociale e dalla complessa normativa che maggiormente condiziona quelle degli stati europei, e tradizionalmente più orientate verso la mass production, si trovano in una situazione di vantaggio per potersi riprogrammare e per poter adeguatamente operare in un mondo che è sempre più globale.
Perchè, che piaccia o non piaccia, la tendenza alla globalizzazione ormai esiste e crescerà negli anni futuri a ritmi sempre più rapidi. Si potrà tentare di ritardarne lo sviluppo ma non si potrà certamente arrestarla. Così facendo si correrà però il rischio di esserne travolti quando l’ondata supererà le esili barriere erette ed oltre queste barriere vi sarà solo l’impreparazione di chi si era illuso di essere protetto da tali barriere e non si era organizzato in tempo.
Ma la globalizzazione è poi veramente un male così terribile come tanti, specie in Europa, la dipingono o è un bene? Rappresenta la promessa di maggiore libertà e benessere per i cittadini di tutto il mondo, o costituisce un pericolo, perché favorisce l'omogenizzazione culturale, l'omologazione consumista, la fine delle particolarità culturali, delle identità dei popoli e della ricchezza delle tradizioni locali?
I critici sostengono che la globalizzazione è un concetto inventato dal potere economico, propagandato e venduto come un qualsiasi bene di consumo, per contrabbandare un nuovo e più feroce colonialismo, il dominio incontrastato delle multinazionali, l'oppressione "scientifica" dei poveri e persino delle classi medie del mondo intero.
Movimenti, non sempre ideologicamente e culturalmente omogenei, sono balzati all'attenzione della cronaca per la violenta contestazione del nuovo ordine mondiale. In alcuni scritti si è anche sostenuto che persino l'attacco dell’11 settembre alle Torri Gemelle era stato un tentativo di dare una spallata alla globalizzazione vista come forza dominatrice degli Stati Uniti.
Sul fronte opposto si sottolinea invece come la globalizzazione abbia reso l’intero mondo più accessibile, abbia abolite le distanze, unificate le tendenze produttive e le esigenze dei consumatori, abbia creato una massa di beni e servizi che vengono quotidianamente offerti in tutto il mondo a prezzi più convenienti, abbia migliorato la qualità media di molti prodotti per metterli in condizione di competere su tutti i mercati, abbia messo i consumatori in grado di trovare i principali prodotti di loro interesse in ogni parte del mondo.
Ovviamente il mondo del vino non poteva restare estraneo a tale fenomeno e questo suo asserito coinvolgimento è stato recentemente portato alla ribalta delle cronache anche dal film “Mondovino”.
Nel film, che ha suscitato pareri molto controversi, il regista Joanathan Nossiter, dichiaratamente in posizione anti globalizzazione, contrappone le opinioni sul fenomeno di alcuni dei grandi produttori e di varie personalità del mondo del vino con quelle di alcuni piccoli produttori presentati come delle figure eroiche e romantiche che difendono la cultura vinicola. Il merito del film di Nossiter è quello di aver dato il via ad un dibattito fra fautori ed oppositori della globalizzazione nel mondo del vino che non si è ancora placato - Fra l’altro alcuni dei protagonisti del film sono presenti in sala e li sentiremo fra poco -.
In questo dibattito - che al momento ha tuttavia carattere essenzialmente accademico - la globalizzazione del mondo del vino è vista dai suoi oppositori quale causa di produzioni di massa adattate ai gusti medi e spesso mediocri dei consumatori medi in un mondo dove tutto ha lo stesso gusto e dove i prodotti di alta classe e di limitata produzione tendono ad essere penalizzati ed emarginati dai grandi mezzi e dalla forza delle aziende globalizzate che occupano tutti gli spazi rendendo impossibile la sopravvivenza delle piccole aziende.
I fautori tendono invece a sottolineare come la globalizzazione sia nell’interesse del consumatore fornendo prodotti di migliore livello medio, con una qualità costante ed un prezzo competitivo dato che i produttori saranno costretti a portare i loro standards produttivi a livelli molto più elevati di quelli che usavano quando vendevano soltanto sul mercato locale. L’industria vinicola, sostengono, perderà alcune sue tipiche caratteristiche ma fornirà vini migliori che maggiormente incontreranno il gusto dei consumatori e produrranno un più elevato volume di vendite.
La vivacità e l’interesse che il dibattito crea non deve pero’ far passare in secondo piano il fatto che la globalizzazione non è ancora arrivata nel mondo del vino e che probabilmente non vi arriverà a breve termine. Il fenomeno che negli ultimi anni ha scosso il mondo del vino è stata invece la maggiore internazionalizzazione delle sue aziende che, come dicevamo prima, non deve essere pero’ confusa con la globalizzazione anche se ne puo’ costituire un primo passo in quella direzione.
Il settore del vino ha molte sue peculiarità - che lo distinguono da altri settori più aperti alla globalizzazione come quello dei trasporti o quello bancario - che ne rendono più complessa la sua globalizzazione secondo gli schemi che abbiamo prima esaminato.
Il problema allora non esiste? - Diciamo che non esiste oggi ma che potrà esistere domani e che quindi occorre prepararsi a questa possibilità. Cercare di completamente ignorarlo, come fanno molti produttori francesi, ossessionati dal mantenimento dello status quo, potrebbe infatti portare, come sostiene Robert Parker, al loro fallimento.
In questo contesto il mercato americano offre alcuni dei più importanti trends internazionali che vanno seguiti e, unitamente ai mercati del Nuovo Mondo, è già più preparato ed ha maggiori vantaggi rispetto ai mercati del Vecchio Mondo le cui aziende spesso godono di aiuti esterni che possono risolvere situazioni congiunturali ma che non favoriscono pero’ un più sano sviluppo del settore secondo le regole della domanda e dell’offerta e finiscono con il ritardare una loro più proficua partecipazione al mercato mondiale.
Inoltre l’estremamente frammentata proprietà, che caratterizza particolarmente il settore vinicolo del vecchio mondo, non è certamente un valido elemento per fronteggiare la globalizzazione così come non lo sono la grande varietà di tipi di vini prodotti che superano le attuali richieste del mercato mondiale e che andrebbero drasticamente ridotti. In Francia, per esempio, vi sono oltre 140.000 aziende vinicole nessuna delle quali ha una significativa parte del mercato mentre quattro aziende rappresentano il 75% del mercato australiano.
Meglio attrezzate ad affrontare le esigenze del mercato mondiale risultano invece le aziendi di Stati Uniti, Cile, Australia e Nuova Zelanda, che, sopravvissute alle rigide regole del mercato, hanno potuto aumentare la produzione dei vini maggiormente richiesti vendendoli in modo più focalizzato, con successi senza precedenti sul mercato mondiale nel quale lo sviluppo dei marchi assume una sempre maggiore rilevanza.
Le aziende di grandi dimensioni, ben capitalizzate con forti legami nei mercati nei quali operano, sono infatti indubbiamente meglio attrezzate a soddisfare i trends consumistici di quanto non lo siano isolati piccoli produttori. Queste aziende dispongono o possono facilmente mobilitare adeguate risorse e adattarsi ai rapidi mutamenti dei trends consumistici, che spesso sono anche in grado di anticipare, presentando prodotti opportunamente predisposti per incontrare la favorevole accettazione di larghe masse di consumatori.
In vista del possibile arrivo della globalizzazione anche nel mondo del vino occorre quindi scegliere il percorso sul quale orientare la propria attività. Quello della creazione, attraverso fusioni ed acquisizioni, di grossi gruppi, con ampie disponibilità economiche che siano in grado di seguire le regole della globalizzazione nel mondo del vino? o quello del mantenimento dello status quo per occupare gli spazi che la globalizzazione del settore potrà lasciare liberi?
A case in point, un caso emblematico, in questo contesto è quello della Constellation Brands, la grande azienda americana produttrice e distributrice di bevande alcoliche con un ampio portafoglio di vini, birre ed alcolici che negli ultimi anni si è largamente sviluppata su vari continenti e che oggi rappresenta il maggiore ed al contempo più diversificato gruppo economico-finanziario operante nel settore del vino.
La Constellation è oggi - secondo i dati rilasciati dalla compagnia - infatti la più grande azienda del settore vinicolo del mondo, il più grande fornitore di bevande alcoliche degli Stati Uniti, il principale produttore ed esportatore di vini dall’Australia e dalla Nuova Zelanda e ha una posizione di primo piano quale produttore e grossista del Regno Unito.
Con oltre 200 marche - fra le quali alcune una volta indipendenti e di grande prestigio - la Constellation offre ai consumatori del mondo la loro scelta di prodotti per qualsiasi occasione. Dalla sua fondazione, nel 1945, quale produttore e distributore di vini, l’azienda è cresciuta attraverso una serie di espansioni interne ed acquisti di altre aziende. Nel 1990 la Constellation ha varato poi una strategia multisettoriale al fine di raggiungere un portafoglio ben bilanciato per meglio rispondere alle esigenze dei consumatori e per ridurre la propria dipendenza da una singola categoria o da un singolo mercato o area geografica. Questa strategia ha permesso una costante crescita, un soddisfacente volume di cash flow ed un positivo ritorno sul capitale investito.
Nell’ultimo anno fiscale la Constellation Brands ha visto vendite nette per oltre 4 miliardi di dollari con un incremento del 15% rispetto all’anno precedente ed un profitto di 276 milioni di dollari con un aumento del 25% rispetto all’anno precedente. Suddivisa in due divisioni operative: Constellation Wines e Constellation Beers & Spirits il gruppo, guidato da Richard Sands, ha visto incrementi del 19% nelle vendite dei vini ove ha superato i 2,8 miliardi di dollari, del 7% nelle vendite delle birre ove ha superato l’1,2 miliardi di dollari e del 10% nelle vendite degli alcolici.
Certamente la Constellation, che ha seguito la prima strada, è oggi l’azienda di punta del settore del vino e la si puo’ considerare ben posizionata per entrare a far parte della futura globalizzazione del settore vinicolo anche se, nonostante le dimensioni raggiunte, sparisce nel confronto con la Coca Cola che - in tutti i sensi - impersona il concetto di globalizzazione.
E qual’è, in questo contesto la situazione dell’Italia vinicola e delle sue aziende riguardo alla globalizzazione? Diamo quindi, nel concludere, uno sguardo, sempre con un ottica americana, al mercato italiano sul quale sono curioso di sentire cosa diranno gli amici italiani.
Un mercato che visto dall’America appare praticamente chiuso ai vini degli altri paesi, con una miriade di piccole aziende che non sembrano avere la determinazione, i mezzi e le risorse per entrare a far parte del trend globale e che, salva qualche rara eccezione, non sembrano avviarsi verso quel processo di fusioni indispensabile a raggiungere le dimensioni necessarie per poter operare in un mercato globalizzato.
Per le aziende italiane la globalizzazione appare infatti essere più un argomento di discussione nei tanti convegni che un reale sviluppo del mercato mentre spesso viene spacciata per globalizzazione quella che è invece una maggiore presenza delle imprese sui mercati esteri tramite importatori locali.
È così? E se è così è un fattore negativo? - Non sarei così pessimista. Il settore vinicolo italiano, anche in un’ottica americana, ha tante sue tipiche caratteristiche che lo rendono vario, interessante, unico.
Perdere tutte queste peculiarità per conquistare una fetta della futura globalizzazione potrebbe non essere - tutto sommato - utile e positivo. Certamente pero’ bisogna essere consapevoli della direzione in cui va il mondo, fare delle scelte ed essere preparati sapendo che se non si andrà nella direzione della globalizzazione e dei grandi numeri si andrà in quella del mercato di nicchia e dei piccoli numeri.
Avere le idee chiare in materia ed essere decisi nel programmare l’attività della propria azienda, secondo le linee cui abbiamo accennato, è certamente positivo.

Lucio Caputo
Presidente Italian Wine & Food Institute

Fonti bibliografiche
Italian Wine & Food Institute
Constellations Brands
Sopexa
Haward Business School
Liceo Pacinotti
Robert Parker
Wine Business Montlhy
The Prague Post
Wine Advisor Express
Business Week
WineNews.it

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