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FORUM SUL VINO ITALIANO DI BANCA MONTE DEI PASCHI: IL MARKETING DEL VINO VISTO DA CARLO CAMBI, UNO DEI PIÙ ECLETTICI ED ESPERTI PERSONAGGI DEL MONDO DEL WINE AND FOOD ITALIANO ...

Italia
Carlo Cambi

Riceviamo e volentieri pubblichiamo un’analisi di Carlo Cambi, giornalista e personaggio tra i più eclettici ed esperti del mondo del wine & food italiano, che domani sarà discussa nel “Forum sul Vino italiano” di Banca Monte dei Paschi di Siena, di scena il 12 novembre nella città del Palio ...

“Lo studio dell’Area Research di Mps - contributo fondamentale e innovativo alla conoscenza del mercato e dell’economia del vino - disegna scenari profondamente nuovi rispetto ai quali è lecito interrogasi se il mondo del vino italiano ne abbia un’esatta percezione e abbia messo in campo le necessarie azioni per stare da protagonista sul mercato mondiale. Vi è la necessità nel condurre un’analisi - sia pure sintetica - del mercato, del consumo, delle dinamiche economiche del vino, per mettere a fuoco nuovi elementi di strategia di marketing rispetto al vino di qualità, di separare nettamente il mercato domestico dal mercato internazionale. Vi sono indubbiamente elementi comuni ma sarebbe un errore considerare omogenee gli approcci e le strategie di marketing.
Tuttavia una considerazione preliminare s’impone: la definizione del prodotto. Chi si occupa, anche marginalmente di marketing, sa che la prima domanda alla quale è necessario rispondere è: cosa ho da vendere. E qui si affaccia la prima peculiarità/difficoltà della strategia di marketing applicata al prodotto vino. Poiché il vino si presta ad infinite declinazioni di fruizione.
Il vino è indubbiamente un prodotto agricolo
Il vino è indubbiamente un alimento
Il vino però è anche sogno
Il vino è però anche marcatore territoriale
Il vino è però anche prodotto identitario (nella doppia valenza di segnare una identità di origine, ma anche di marcare uno stile di vita).
Al fine però il vino è anche un prodotto industriale.
Da tutte queste caratteristiche del vino che vanno poi declinate con “n” possibilità/occasioni di fruizione discendono differenti strategie e azioni di marketing.
È possibile dire che il prodotto vino è sostanziato dall’offerta, ma viene definito dalla domanda. È cioè il consumatore che ne determina il profilo di fruizione.
Da ciò discende che piuttosto che vendere il prodotto vino è necessario vendere il valore vino.
Al proposito trovo illuminante un passaggio di David Ricardo che nel suo saggio “Principi dell’economia politica” (Londra 1817) scrive:” Vi sono alcune merci, il cui valore è determinato soltanto dalla loro scarsità. Nessun lavoro può aumentare la quantità di simili oggetti, e perciò il loro valore non può diminuire in seguito ad un aumento dell’offerta. Alcune statue e pitture rare, vini di qualità speciale, che possono esser fatti soltanto con uve raccolte in un determinato terreno, la cui estensione sia assai limitata, sono tutti di questo tipo. Il loro valore è del tutto indipendente dalla quantità di lavoro originariamente necessario a produrli, e varia col variare delle ricchezze e dei gusti di coloro che sono desiderosi di possederli.”. Sarebbe necessario partire da qui, dall’intuizione del più autorevole teorico dell’economia classica che pose in massima luce l’intuizione di Adamo Smith del rapporto esistente tra valore d’uso e valore di scambio rispetto al prezzo delle merci, per definire il vino di qualità. Ma se diamo uno sguardo a cosa accade nel mondo intuiamo subito che in realtà il vino oggi è in sovrapproduzione e dunque non realizza a pieno la previsione, pur corretta, di Ricardo e cioè che la scarsità ne determina il valore.
Da questa osservazione discende che dobbiamo almeno ragionare di due grandi segmenti di prodotto vino: il vino massa, e il vino valore. Ma se si vede bene questi due profili sono destinati a incontrarsi per effetto dei nuovi canali distribuitivi e in conseguenza della globalizzazione della domanda vi è il rischio che i due profili si confondano.

Credo che si possa ben affermare che la (presunta) dicotomia tra vini varietali e vini di territorio sia un portato di questa partizione in rapporto alla percezione di fruizione da parte della domanda. E contemporaneamente abbia generato un errore strategico da parte dei produttori convinti tutti di poter applicare al vino in generale il principio ricardiano del valore determinato dalla scarsità. Non è così. Ciò che vale per Petrus non vale assolutamente oggi, nel mercato globalizzato, per un Chianti che ha in se caratteristiche simili a quelle di Petrus ma che non sono percepite come tali dalla domanda. Questo è il vero problema che ha di fronte a se il vino. Soprattutto il vino italiano - quello di formare nella domanda la consapevolezza del valore esclusivo dell’offerta. Altrimenti, sempre citando Ricardo, capita che “queste merci formano una piccolissima parte della massa delle merci giornalmente cambiate sul mercato. La massima parte degli oggetti desiderati si procura con il lavoro; e possono moltiplicarsi senza alcun limite - non soltanto in un paese, ma in molti - se noi siamo disposti ad impiegare il lavoro necessario per ottenerli. Parlando dunque di merci, del valore di scambio e delle leggi che regolano i loro rispettivi prezzi, intendiamo sempre soltanto quelle merci, la cui quantità può essere aumentata con l’esercizio dell’industria umana, e sulla cui produzione la concorrenza opera senza freni”. E’ esattamente quello che sta capitando col vino a livello mondiale.
Come porsi al riparo della concorrenza, anzi come far percepire il valore vino? Questo è il problema dei problemi. Se Yellow Tail viene posto sui mercati con una forza d’urto di comunicazione che riducono il vino a merce per il vino di qualità non ci sono spazi poiché si troverà compresso tra l’incudine del vino masso e il martello del vino valore.

Tornando alla dicotomia vino varietale/vino di territorio si scopre che il vino varietale piace ai consumatori meno evoluti perché è sempre eguale a se stesso, perché è piacevole, perché è facilmente identificabile, perché è facilmente fruibile, perché sviluppa nel rapporto prodotto-consumo una friendlness. E’ di tutta evidenza che il vino varietale subisce l’effetto prezzo assai di più del vino territorio. Ma per converso il vino-territorio ha dei punti di debolezza che stanno nella sua più difficoltosa identificazione, nell’incrementata variabilità, nella minore immediatezza di esplicitazione del valore d’uso. Hanno bisogno per esprimere il loro valore di accedere ad una domanda più evoluto, una domanda che ne percepisca e ne determini il valore. Vi è dunque l’esigenza di definire il prodotto vino e di esaltarne il valore.
Ma qui si affaccia la seconda domanda centrale di una strategia di marketing: a chi voglio vendere. L’effetto della globalizzazione ci consegna target indistinti. Ma abbiamo stabilito che per far sì che il vino territorio venga compreso nel suo valore abbiamo bisogno di una domanda evoluta (che ci pone in parte al riparo della concorrenza del vino varietale). Da qui si pone l’esigenza di un dialogo diretto con il consumatore. Ci tornerò tra breve, ma è necessario a questo punto introdurre un’ulteriore variabile.
Le regole classiche del marketing che si rifanno alla cosiddetta strategia del 4P (prezzo, prodotto, posizionamento e punto vendita) pongono in sinergia tutti i fattori. Ai vignaioli italiani per molto tempo è perso che Horeca e Gdo fossero mondi non-comunicanti. Anzi si riteneva che collocare vino di qualità nella Gdo fosse un disvalore. Sappiamo che non è così, ma anche ai più scettici converrà osservare che ormai il vino si vende nella grande distribuzione, in Italia e sommamente all’estero. La distribuzione è un fattore decisivo nella definizione del valore prodotto. E sarebbe un gravissimo errore ritenere che la percezione del prodotto non fosse influenzata dagli altri tre fattori: posizionamento, prezzo e punto vendita. Ma vendere vino di qualità nella grande distribuzione impone ai produttori di incrementare la comunicazione del valore del prodotto e la sua riconoscibilità. È indispensabile che il vino - soprattutto quello di qualità - riscriva le sue politiche e le sue azioni di approccio al mercato, serve un salto di qualità culturale e anche in questo il rapporto con la distribuzione moderna si rivela positivo perché costringe a modificare il modo di proporre il prodotto al cliente, perché induce a valorizzare il prodotto non in forza di una intermediazione, ma nel rapporto diretto con il consumatore. Il consumatore ha trasferito le sue modalità di acquisto nella distribuzione moderna, ma l’attenzione all’origine del vino, la compatibilità con la gastronomia tradizionalmente consumata, l’appartenenza di un determinato vino ad un territorio restano valori che il consumatore va cercando anche nella distribuzione moderna. Ciò vale in Italia in particolare. All’estero e soprattutto sui mercati di massa i fattori che incidono sommamente sono la riconoscibilità del vino e il prezzo. Ma centrale nella strategia sia sui mercati esteri, e anche se in misura minore in Italia, è la marca. In un consumo mass market la marca, cioè il brand, riassume in se i due elementi psicologici di maggior effetto: la riconoscibilità e l’affidabilità che il consumatore è indotto a tradurre in qualità. E questo è un dato altamente positivo per impostare le nuove strategie di marketing che il rapporto con la distribuzione moderna e con i mercati di massa impone. L’avere a disposizione oltretutto un canale di distribuzione di massa consente all’impresa vitivinicola di conoscere meglio il proprio consumatore.
Credo infatti che non si sia compreso fino in fondo che occuparsi della distribuzione, dei canali distributivi con le loro caratteristiche, le potenzialità e i limiti è niente altro che occuparsi di una delle 4 P che sono poi l’abc del marketing. Non voglio certo qui tediarvi riproponendo gli schemi accademici del rapporto con il mercato, basta leggere un testo di Philip Kottler per entrare in medias res. Ma è certo che i produttori di vino si sono occupati molto del prodotto (ed ecco il balzo qualitativo della nostra produzione) un po’ meno del prezzo (non sempre siamo stati in grado di chiedere ad esempio trattamenti fiscali equi o non sempre abbiamo dato il senso che il vino poiché prodotto della terra può avere oscillazioni di valore e dunque di prezzo a seconda delle annate) e per conseguenza del posizionamento, hanno delegato ad altri la promozione e quanto alla distribuzione (il punto vendita) hanno ritenuto che a un determinato prodotto dovesse corrispondere necessariamente un determinato prezzo in un determinato canale di distribuzione. Non vi è stata negli anni se non una scarsa flessibilità di strategia di approccio al mercato. Ciò - a mio modo di vedere - è determinato da due fattori. Il primo lo definirei di carattere culturale, il secondo di carattere strutturale.

Sostanzialmente il marketing del vino è rimasto ancorato alle teorizzazioni degli anni ‘80 (Cfr Rouzet e Seguin, Il marketing del vino edizioni Edagricole) frutto peraltro dell’esperienza maturata soprattutto in Francia secondo le quali sono gli opinion maker coloro i quali determinano il passa parola e dunque la notorietà del vino. E qui torna d’attualità un’azione sinergica dei Consorzi che nella loro nuova veste di promotori e non più di controllori dovrebbero impostare azioni pubblicitarie dirette sul consumatore per radicare la notorietà dei brand territoriali se si vuole vincere la battaglia con i vini varietali. Basterebbe destinare a promozione - pubblicità, esperienza diretta del prodotto, costruzione di un messaggio di fascino, storico e relazionale - una quota dei proventi delle fascette per le denominazioni per costituire un fondo di promozione del vino. Ciò in considerazione del fatto che il rapporto diretto con il consumatore finale è stato sottovalutato dai produttori. Ci si è molto affidati alla intermediazione del sistema dei media per raggiungere gli obbiettivi promozionali, ma recenti “emergenze” come quelle legate ai tassi alcolemici abbiano dimostrato come sia indispensabile poter dialogare direttamente con il mercato.

Non foss’altro per educare al bere responsabile e per evitare l’equazione perniciosa e fondata sul nulla vino= alcol vino=trasgressione, che è quanto più lontano si possa immaginare dalla fruizione del vino di qualità. E vi sono delle prove schiaccianti che il rapporto diretto con il consumatore ha un feed-back altamente positivo sia in termini di notorietà, sia in termini di fidelizzazione sia in termini meramente di bilancio delle imprese vitivinicole. Basti pensare ai risultati dell’enoturismo.
Ed è proprio l’imporsi della distribuzione moderna come canale primario di vendita del vino di qualità che suggerisce di ripensare strategie e azioni di marketing. Non perché ciò che è stato fatto sia stato errato, ma perché oggi c’è una situazione di mercato completamente diversa che è in parte derivante dall’articolazione della domanda e in parte dalla struttura dell’offerta. Vi sono diversi fattori che entrano in gioco. Vediamoli.
Il fattore di carattere strutturale risiede nel fatto che un’azienda vitivinicola partecipa di una triplice natura: è azienda agricola, è azienda industriale in quanto trasforma, è azienda commerciale. Soltanto le case produttrici più strutturate riescono a segmentare le politiche di gestione per massimizzare l’efficienza di questi tre momenti. Nella stragrande maggioranza chi produce vini di qualità è costretto a recitare le tre parti in commedia. Il sistema francese che affida di fatto la commercializzazione dei vini di qualità al negocian, libera il produttore dalle incombenze di rapporto con il mercato (a tacere del fatto che la distribuzione funziona anche da finanziatore dell’affinamento attraverso le vendite en primeur, tema che si porrà prima o poi in Italia magari attraverso forme di credito su pegno già ampiamente sperimentate nell’agroalimentare per alleviare gli oneri finanziari che gravano sulle cantine per effetto della presenza degli stock di vino nelle fasi di invecchiamento) e gli consente di essere il primo promoter del suo vino in un rapporto diretto sia con i consumatori che con i media. È dunque indispensabile riprofilare la gestione dell’azienda vitivinicola in rapporto con i nuovi perimetri di mercato e i nuovi canali distributivi.
Ma c’è un elemento ulteriormente culturale che impone una riflessione sul marketing del vino.
Abbiamo vissuto una fase lunga di cura soprattutto dell’offerta. Era indispensabile per migliorare la qualità del prodotto, per creare le reti di distribuzione, per superare i molti ostacoli che i produttori italiani a petto dei loro concorrenti internazionali devono sostenere sia di tipo burocratico, sia fiscale, sia normativi, per penetrare i mercati esteri dove spesso si frappongono barriere di varia natura - dai dazi ai monopoli - alla distribuzione dei vini di importazione. Oggi è tuttavia venuto il momento di occuparsi della domanda, soprattutto in considerazione che l’acquisto da parte del cliente e segnatamente nella distribuzione moderna avviene senza mediazione. Da questa prima osservazione discende che fino ad ora di fatto le aziende vitivinicole hanno operato un marketing di risposta: la gente chiede vino e noi glielo diamo. Anzi in alcuni casi si è andati oltre: i critici ci dicono che la gente chiede quel vino e noi produrremo quel vino. Che questo abbia indotto molti vignaioli in errore è dato d’esperienza. Io credo che invece un vignaiolo attento debba necessariamente fare almeno del marketing di anticipo. Deve cercare di anti-vedere i bisogni del consumatore e i suoi cambiamenti del gusto perché ha un ostacolo in più rispetto ad altri produttori: i tempi della vigna e della natura. Ma penso che si debba andare ancora oltre: penso che bisogna cominciare ad impostare delle azioni di driving market. Per fare questo dobbiamo però conoscere a fondo la domanda. Dobbiamo investire di più in ricerche di mercato per avere il sentiment del consumo, ma anche per influire sul microambiente. Operare su un mercato globale e nella distribuzione moderna impone di avere antenne lunghe e ben sintonizzate sulla domanda.
Da questo punto di vista c’è una innegabile debolezza del sistema vino che ha sempre delegato ai non produttori la rappresentazione delle istanze della domanda. E qui si apre la necessità di conoscere le motivazioni di acquisto. Recenti indagini hanno focalizzato che le intenzioni d’acquisto del vino sono determinate da tre fattori principalmente: il marchio, il territorio/Paese d’origine del vino, la denominazione con percentuali che oscillano dal 50,7% del primo fattore, il brand, al 37,9% della denominazione. Il fattore prezzo viene quarto e incide sul 21,4% delle intenzioni di acquisto, ancora forte è il fattore raccomandazione del venditore, cioè l’espertise, che incide per circa il 21% quasi la stessa quota dell’etichetta di prestigio. Vediamo che la pubblicità, il gusto, addirittura le offerte promozionali e il passaparola hanno un’incidenza di gran lunga inferiore sulle intenzioni di acquisto. Ora è di tutta evidenza che i fattori dominanti sono: il marchio (dunque l’affidabilità del produttore, la sua notorietà), la territorialità e la garanzia offerta dalla denominazione. Questo mi porta a dire che vanno perseguite forti politiche di affermazione del brand non disgiunte dall’enfatizzazione della territorialità. È di tutta evidenza che per perseguire questi due obbiettivi servono energiche azioni di comunicazione diretta con il consumatore finale. Ma da questa prima osservazione ne discende una seconda. Se si impostano strategie di brandizzazione del vino di qualità è di tutta evidenza che si debba agire attraverso strategie di top down marketing, cioè di rappresentazione complessiva dell’azienda, del territorio, della qualità per far calare questi valori in ogni singola bottiglia espressione di gamma di prezzo e prodotto. Esattamente il contrario di quanto hanno fin qui fatto le cantine che semmai hanno agito in un quadro di bottom up, cioè affidare al singolo prodotto la rappresentazione dell’insieme valoriale di una produzione. Ciò vale sommamente sui mercati esteri, ma comincia ad essere urgente anche sul mercato italiano”.

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