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ECCO CHI SONO GLI “ESPLORATORI DEL GUSTO” 2010 ... SANTA MARGHERITA, AZIENDA REGINA DEL PINOT GRIGIO IN ITALIA E NEL MONDO, PREMIA I LORO RACCONTI E LE LORO RICETTE

Italia
Ecco la “prima” retroetichetta 2010

Primo: Antonello Farris, con “Abitudini”; secondo: Isabella Terrano, con “Il piacere della lentezza”; terzo: Gianni Mario Molteni, con “In vino veritas”, per il premio eno-letterario; primo: Arabella Pezza, con “Stocco in potacchio”; secondo: Antonio Fiori, con “Paella di fregula sarda”; terzo: Donatella Simeone, con “Paccheri allo scorfano”, per il premio eno-Gastronomico. Ecco gli “Esploratori del Gusto”, ideato da Santa Margherita, l’azienda regina del Pinot Grigio in Italia e nel mondo, “per rendere ancora più incisiva la sua presenza nell’affascinante mondo della cultura eno-gastronomica”.
I tre racconti diventeranno subito dei best seller, stampati sulle retro etichette dei bianchi classici Santa Margherita, ormai emblemi dell’Italia del vino nel mondo, con una tiratura complessiva di oltre 700.000 copie.
Con la collaborazione di Librerie Feltrinelli, il Premio Eno-Letterario (è l’edizione n. 5) deve il suo successo ad un equilibrato mix tra cultura del bere, dello scrivere e del leggere, che ha già coinvolto negli anni migliaia di appassionati.
Info: www.santamargherita.com

Focus - Ecco i tre racconti
Abitudini di Antonello Farris
Quando si dice … Ci sono episodi nella vita che lì per lì sembrano insignificanti e che invece segnano le abitudini delle persone in modo indelebile. Io, in questo, sono un caso esemplare: da trent’anni a tavola, quando mangio del brasato o della carne arrosto, bevo solo e soltanto cabernet.
Ho iniziato a berlo nell’ultimo anno di università. E pensare che sino a quei giorni non l’avevo neanche mai assaggiato!
Tutto è cominciato nell’inverno del millenovecentosettantanove. Studiavo a Udine e preparavo la tesi. Abitavo con altri studenti in un appartamento in centro, nella via Cavour. Tutte le mattine andavo in facoltà di agraria, a meno di un chilometro da casa, mi chiudevo nella stanza adiacente lo studio del mio relatore, il professor Bordigoni, e lavoravo alla tesi utilizzando un grande tavolo invaso da decine di libri. Scrivevo la tesi a mano, poi, una volta terminata il professore mi aveva autorizzato ad usare la sua macchina da scrivere. Intorno alle tredici uscivo per andare alla mensa universitaria che era poco distante, e lì incontravo i colleghi e vari amici. Per raggiungere la mensa percorrevo alcune strade poco trafficate, pur essendo centrali. In una di queste c’era un’osteria e nel passare cominciai a notare all’interno del locale, dietro i vetri di una grande finestra, un anziano signore di bell’aspetto intento a pranzare. Sulla tavola una bottiglia d’acqua e un calice di vino.
Ogni giorno, e sempre a quell’ora, la scena era identica: la persona è al tavolo e pranza, e ha davanti un bicchiere di vino rosso rubino.
A partire da un certo giorno cominciò anche lui a notare il mio passaggio, perché accennava un saluto, sorridendomi apertamente. La cosa andò avanti per tutto l’inverno. Vedendomi strizzava gli occhi, sorrideva e certe volte sollevava il calice per un brindisi in mio onore. Io, per scherzare, ricambiavo il suo gesto mimando un saluto militare.
Con l’arrivo della primavera, un giorno di marzo, mentre passavo davanti all’osteria, notai che non era al suo tavolo, pur essendo tutto perfettamente apparecchiato anche con il calice al centro della tovaglia. Pensai si fosse spostato e tirai avanti senza dar peso.
Nei giorni seguenti però la scena era sempre uguale: piatti e posate, calice rosso, ma nessuno a tavola…
Cominciai a chiedermi come mai, perché in fondo a quello scambio di saluti mi ci ero affezionato. Chissà perché mi ero convinto, senza una ragione precisa, che lui fosse un vecchio professore di liceo con la nostalgia per gli studenti. Trascorsero dieci giorni senza che ricomparisse al suo tavolo e a quel punto non seppi trattenermi ed entrai nel locale per chiedere di lui.
Mentre varcavo la soglia l’oste era già lì, sembrava mi aspettasse, tanto che non dovetti dare spiegazioni ma solo accennare al tavolo vuoto sotto la finestra. Lui prima mi invitò a sedere a quel tavolo, quindi prese a spiegarmi il perché dell’assenza di Zeno Marcon, così si chiamava il vecchio signore. Mi disse che Zeno la settimana prima si era sentito male nella sua casa, l’appartamento sopra l’osteria.
Un improvviso aneurisma addominale non gli aveva dato scampo e in poche ore era deceduto, e aveva ottantanove anni. Chiesi il perché del calice col vino che continuavo a notare da fuori, e lui mi raccontò che il professore, non di liceo come avevo immaginato bensì Ordinario di Fisica Teorica, forse sentendo arrivare la fine della sua lunga vita, gli aveva raccomandato di mantenere il tavolo imbandito col calice del vino in evidenza sino a che lo studente, cioè io, nel quale rivedeva se stesso giovane, non fosse entrato in osteria per chiedere sue notizie. A quel punto l’oste avrebbe dovuto invitarmi a tavola e offrire a me il suo pranzo abituale: brasato e cabernet. E questo mangiai quella volta, sentendo una certa commozione per quel professore che mi aveva preso in simpatia.
Da quel giorno decisi, seduta stante, di ricordarlo sempre così, con un calice di cabernet davanti ad un piatto di carne.

Il piacere della lentezza di Isabella Terrano
Quando rientro dal mio fine settimana è sera tardi.
La casa è buia e silenziosa, esattamente come il mio animo, stanotte.
Accendo la luce, abbandono il borsone sulla poltrona, aggancio quasi con fastidio la giacca all'attaccapanni.
Mi sbarazzo di chiavi e cellulare e mi dirigo in cucina. Non ho cenato, il che acuisce il malumore inspiegabile che galleggia in me come un siero carico di tossine.
Indago sul contenuto del frigo, alla ricerca di qualcosa da consumare in fretta e che non debba cuocere.
Agguanto del formaggio avvolto in una stagnola e del salame, cerco del pane ancora commestibile.
Poi mi siedo, per consumare meccanicamente e svogliatamente il mio pasto, al solo scopo di non restare sveglia per i morsi della fame.
Resto in piedi, col sedere appoggiato al tavolo e lo sguardo abbandonato in un punto privo d'interesse di fronte a me.
Poi mi volto per prendere un bicchiere ed allora la vedo.
Come il particolare misterioso del rebus che di colpo si rivela alla nostra attenzione, facendoci chiedere come abbiamo potuto non vederlo prima.
Un concentrato d' amore messo sul ripiano della dispensa, come una statua imponente che domini il paesaggio di una valle.
Una bottiglia di vino. Vino nero, come lo chiama mio padre.
In effetti è così scuro che è difficile vederci davvero la tonalità del rosso.
C'è un biglietto appeso, legato con un piccolo pezzo di spago marrone.
So già che è il risultato di una delle incursioni silenziose di mio padre in casa mia, mentre non ci sono.
Di solito viene per curare il giardino, ma nonostante lo sappia sono stupita, e curiosa di conoscere il contenuto del messaggio.
Lo stacco dallo spago e leggo.
"La fretta spesso ci fa tradire i piaceri della vita. Questa bottiglia racchiude un piacere che non ammette di essere trascurato. Siediti, sorseggia, e ricordati delle nostre serate davanti al camino a parlare. Riesci a vederle? Io sì. È il tuo preferito, assaggialo: quest'anno credo di aver superato me stesso”.
Accarezzo la bottiglia come se fosse un volto di persona amata.
Indugio qualche istante e chiudo gli occhi lasciando scivolare dalle labbra un sorriso.
Di colpo mi sento stupida ed il malumore svanisce. Scosto la sedia, copro il tavolo con una tovaglia e apparecchio.
Metto su della musica. Stappo la bottiglia e verso il vino in un calice largo. L'annuso e poi bevo.
Un dolce calore mi si propaga in gola, una deliziosa danza di gusto e piacere che mi si attacca alle pareti del cuore.
Di colpo mi sento bene e il passato rivive qui nella mia cucina.
Mi cullo per un po' nella sua magia e poi vado in salotto, portandomi dietro il calice col vino. Prendo il cellulare e mi siedo.
"Avevi ragione: questa volta ti sei superato. Sarebbe bello potersi fermare una sera ad assaporare questa poesia insieme a del buon cibo. Accenderò il camino”.
Digito invio e mi lascio andare sullo schienale.
Improvvisamente felice.

In vino veritas di Gianni Mario Molteni
Da una decina d’anni trascorrevamo al lago le vacanze natalizie. Io in casa tra libri e musica, Ada giocando a burraco pomeriggio e sera dalle amiche. Ci andava bene così, ciascuno con i propri piaceri, in un equilibrio coniugale che solo noi sapevamo precario. Perciò al mattino della vigilia di Natale, quando lei posò sul tavolo il sacchetto di cellophane dicendo: “I soliti pesci che puzzano”, pensai che, seppure nella reciproca indifferenza, un altro anno era passato.
Ma sentire ogni anno ripetere quella frase m’infastidiva, anche perché, sapendo che basta l’odore di pesce per disgustare Ada, evitavo ogni discussione portando subito il sacchetto dei pesci nel frigorifero in cantina, mentre lei dal balcone ringraziava con un sorriso Renzo, il giovane pescatore del posto che ce li regalava.
Sì, m’infastidiva che Ada si prendesse anche la libertà di disprezzare i missoltini del Lario! Agoni di magra che Peck a Milano vendeva a prezzi d’amatore, pescati di frodo a fine marzo, salati, appesi a seccare nel vicolo, disposti a raggiera nella missolta con foglie d’alloro e pressati da una pietra per eliminare il grasso.
Avevo visto Renzo prepararli così l’anno in cui comprammo la casa, e poi conservarli nel crotto per l’inverno. Fu allora che per la prima volta ce ne regalò una dozzina a Natale, raccomandandoci: - Fateli alla griglia, con un filo d’olio e due gocce di aceto. Però, signora, non ci beva vino bianco: solo rosso, giovane ma corposo -. Non sapeva che Ada è astemia.
Da allora, ogni anno, mentre lei burracava con le amiche a Menaggio, scendevo in cantina, prendevo i missoltini e li cucinavo per cena. Tre ogni sera, con due fette di polenta abbrustolita, una bottiglia di Grumello, un rondò di Mozart, il tepore del camino. E a volte anche il fascio d’argento della luna sul lago, mentre centellinavo l’ultimo bicchiere di vino. Che ventaglio di sapori e piaceri! Poi, prima che Ada tornasse spalancavo le finestre per disperdere l’odore della griglia, portavo nel cassonetto dei rifiuti bottiglia, cellophane e quant’altro potesse crearle sospetto. Infine rassettavo la cucina. Quando poi verso l’una la udivo rincasare, fingevo di dormire con un libro tra le mani, aprendo gli occhi solo dopo il suo abituale rimbrotto: - Dormire sempre sul divano, e con il giradischi acceso! Che vizio! -. Invece d’innervosirmi, quelle parole, oltre a ridarmi la sensazione di quei piaceri, me ne davano un’altra ugualmente gradevole: quella di ingannare Ada.
Andò così anche quest’anno. Purtroppo però con l’ultimo missoltino finì anche la scorta di Grumello e quando Ada mi disse di regalarne una bottiglia a Renzo, fui costretto a confessarle che in cantina non ce n’era più, aggiungendo a mezza voce: - Forse è meglio una bottiglia di spumante, domani è Capodanno -.
Mi fissò risentita: - Il rosso lo hai tracannato tutto con quei pesci, vero? Credi non mi sia accorta della puzza? -. E stizzita aggiunse: - Non sai che Renzo non beve vino bianco? -.
No, non lo sapevo, con lui non avevo mai pranzato né cenato.
Lo squillo del cellulare mi salvò dall’imbarazzo. Era il marito di un’amica di mia moglie: - Ciao, come va? Dio santo, non vi fate mai vivi! Stasera però venite da noi per il cenone, vero? Mi raccomando, convinci Ada. Dille che ci sono anche le mogli di Italo e Ugo che desiderano giocare a burraco. Mia moglie mi ha pregato di rammentarvi che troppo sesso nuoce alla memoria, ma spera che Ada ricordi ancora le regole del gioco. Ciao, vi aspettiamo -.
Ricordo che guardai mia moglie quasi tremando. Non per collera, ma per timore. Tuttavia riuscii a chiederle pacatamente: - Scusa, Ada, come sai che Renzo non gradisce il bianco? -.
Così si ruppe il nostro precario equilibrio. Per colpa mia e sua. Colpe diverse, la mia meno grave. Ma secondo Ada le colpe non si pesano. La sua deprecabile intransigenza.

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