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ASPETTANDO VINITALY: COMUNICARE AI GIOVANI E TRASMETTERE AD ITALIANI L’APPEAL CHE PIACE ALL’ESTERO PER RIVITALIZZARE IL MERCATO INTERNO. COSI’ CASTELLUCCI (OIV), BERNETTI (UMANI RONCHI), DELL’OREFICE. FOCUS: GAJA-PENSIERO & ANTINORI/ZONIN A CONFRONTO

La competizione si vince affrontando sia il mercato internazionale che quello interno, sul quale, investendo in comunicazione come si fa all’estero, ci sono margini di miglioramento. Parlando soprattutto ai giovani, i consumatori di domani, e trasmettendo agli italiani lo stesso appeal dei nostri vini che piace all’estero, per rivitallizare i consumi interni. Questo perché, “è evidente che il vino italiano non può vivere né di solo export né di solo mercato interno. Con l’attuale altissimo livello di competizione sarebbe un errore mortale non combattere su tutti i fronti”: Massimo Bernetti, presidente di Umani Ronchi, sintetizza così le opinioni espresse nel dibattito online aperto da Vinitaly (Verona, 7-11 aprile) sul recupero del mercato interno, alla luce del calo dei consumi che vi si registra e a fronte dell’export di vino italiano che “vola”, nelle oltre 30 interviste ai principali esponenti della filiera vitivinicola, dalle istituzioni ai produttori, dai giornalisti alle associazioni, dai buyer della grande distribuzione ai creativi che si occupano di immagine del prodotto e di marketing, aperte ai commenti (info: www.vinitaly.com). L’analisi del mercato interno si concluderà con la presentazione della ricerca Vinitaly/Confcommercio “Ma gli italiani amano ancora il vino? Le ragioni del consumo interno”, di scena il 7 aprile a Vinitaly.
Intanto, aspettando Vinitaly, il dibattito è aperto e si arricchisce di nuovi contributi e pensieri. Secondo Federico Castellucci, direttore generale dell’Oiv-Organisation Internationale de la Vigne et du Vin, “l’Italia mantiene la prima posizione mondiale per volume di esportazione con il 20% ed è tra i primi consumatori pro capite con 40,5 litri, ma può sicuramente migliorare”. Visto che per il direttore generale dell’Oiv “la qualità del vino italiano non è in discussione”, meglio concentrarsi sulla costruzione di una comunicazione che contrasti le campagne anti-alcol, che “non distinguendo fra vino e superalcolici - dice il giornalista di “Agrisole-Il Sole 24 Ore” Giorgio dell’Orefice - e fissando limiti talmente bassi penalizzano anche chi opta per un consumo moderato”.
Per Castellucci occorre “lavorare in materia di comunicazione soprattutto sui “young adults”, la generazione dai 20 anni in su”, ma anche, come suggerisce Andrea Cimenti, amministratore delegato di Acqua Group, proponendo sul mercato italiano la stessa strategia che sta dando risultati all’estero e che pone l’accento sui “valori di territorialità, tradizione e cultura enogastronomica”. Da considerare, a questo proposito, il trend che si sta registrando nei consumi di alcuni Paesi del Nord Europa, dove a fronte di “limiti anti-alcol anche più stringenti dei nostri - aggiunge dell’Orefice - i ritmi di crescita sono molto rapidi”.
Sul fronte dell’export, secondo Roberto Masullo, buyer vini e spumanti di Billa Italia, “il mercato estero rappresenta indubbiamente un’ottima opportunità di crescita per il settore, che dovrà essere gestita in maniera oculata, mantenendo comunque una solida politica commerciale sul territorio di casa”. L’appeal del made in Italy enologico, artefice di parte del successo dell’export italiano, non deve però far dimenticare le criticità del commercio internazionale. “Quello che preoccupa - avverte il direttore generale dell’Oiv - è la quota, sul mercato mondiale, del vino sfuso, che rappresenta il 40% della produzione e il 10% del valore degli scambi. Sul lungo periodo questo fenomeno potrebbe trascinare il vino a livello di commodity”.

Focus - Può il primo Paese produttore di vino “vivere di solo export”? “E’ compito dei produttori di applicarsi per conoscere le dinamiche dei mercati e scegliere se, come e quando affrontarli. Mercato interno e mercato estero sono complementari”: ecco il Gaja-pensiero
“E’ compito dei produttori di applicarsi per conoscere le dinamiche dei mercati e scegliere se, come e quando affrontarli. Mercato interno e mercato estero sono complementari. Ancorché diversi per dimensione sono i leader dei diversi settori, Santa Margherita, Campari, Armani, Barilla, Ferrero … ad insegnare che il mercato interno va curato con attenzione”. E’ questo il pensiero di Angelo Gaja, uno dei produttori di vino più prestigiosi d’Italia, sul dibattito aperto di Vinitaly se il Paese primo produttore può “vivere di solo export” con i rischi rappresentati dalle fluttuazioni monetarie e dalle agguerrite politiche di marketing e distribuzione dei competitori dei cosiddetti Nuovi Mondi.
Ma il gap del mercato italiano è di natura economica, culturale o è un problema di comunicazione? “Un problema di comunicazione? A loro modo i produttori comunicano tutti, in Italia sono 35.000 - dice Gaja - giornalisti che occasionalmente/abitualmente scrivono del vino italiano sono più di 1.500. Sono più di 500 le cantine che organizzano premi giornalistici. Oltre 50 le guide che giudicano i vini. Vino nei convegni, turismo del vino, vino in piazza, vino alla radio ed in televisione, di vino si disserta sui blog … Il mondo del vino sprizza vivacità, fa gola ai politici che sono interessati al territorio ed al turismo, alle associazioni che offrono servizi, alla finanza che vorrebbe trovare il modo di entrarci. Ci siamo ormai abituati a questo frastuono, non sappiamo farne a meno. Siamo in molti a ritenere che parte delle sovvenzioni pubbliche destinate alla promozione vengano sprecate - aggiunge Gaja - c’è chi propone di farle convergere in una cabina di regia alla quale affidare il compito della promozione. Come evitare che diventi l’ennesimo carrozzone al servizio di politici e qualche privilegiato? Chi la guiderebbe? Da dove gli deriverebbe l’autorevolezza? Sarebbe capace di lavorare nell’interesse di tutte le categorie? Io avrei una mia ricetta: per abbassare i decibel servirebbe tagliare il 50% delle sovvenzioni destinate alla promozione del vino italiano e orientarle alla formazione di soggetti destinati a svolgere attività di rappresentanza di vini italiani sui mercati esteri; e dare maggiore impulso all’apertura di scuole di formazione di chef di cucina italiana nei Paesi Bric”.
Dall’altro lato, secondo Angelo Gaja, “il trend dell’export è in crescita perché le cantine italiane abituali esportatrici hanno contribuito a costruire nel tempo una domanda che non va soltanto a loro esclusivo beneficio ma rimbalza successivamente in Italia ad opera di importatori che vengono alla ricerca di altri produttori italiani in grado di fornire loro vini delle stesse tipologie ma meno cari, oppure di migliore qualità, oppure più esclusivi, meno distribuiti. Vinitaly è il palcoscenico del vino italiano al servizio degli importatori provenienti dal mondo. Da anni l’Italia è il primo paese esportatore di vino in volume e lo è stato ancor più nel 2010; la Francia lo è in valore. La Francia, che in volume nel 2010 ha esportato il 50% in meno dell’Italia, se non vuole espiantare vigneti dovrà esportare di più. L’Italia, che vende sui mercati esteri con un prezzo medio per litro di 2,5 volte inferiore a quello della Francia - secondo Gaja - deve cercare di vendere meglio e per farlo occorrerà migliorare sia la qualità che il marketing. Però il successo dell’Italia è innegabile. A chi va il merito? Alle varietà autoctone? Al territorio? Questi sono fattori della produzione. Il merito va ai 35.000 produttori di vino italiano di cui oltre 25.000 artigiani dalle dimensioni medio-piccole molti dei quali si applicano con sacrificio, passione, entusiasmo, intraprendenza. Succede abbastanza spesso che i vini degli artigiani vengano accreditati per la loro qualità contribuendo così a consolidare l’immagine del vino italiano. Gli artigiani sono complementari alle cantine di grandi volumi alle quali vendono all’ingrosso la totalità o parte del vino che producono. E’ un sistema ottimamente integrato che ha funzionato egregiamente. La frammentazione della produzione vinicola è caratteristica dei Paesi europei, il nuovo mondo ha altre peculiarità. La manfrina dell’Italia del vino inadeguata a competere sui mercati esteri a causa della frammentazione della produzione e della zavorra dei troppi piccoli produttori che non saprebbero stare sul mercato perché fragili e destinati al collasso - conclude Gaja - è sonoramente smentita dal successo dell’export del vino italiano”.

Focus - Export, come dice Piero Antinori, o mercato interno, come sostiene Gianni Zonin? Nessuna delle due opzioni è risolutiva, nessuna delle due possibilità può essere scartata. Ma bisogna produrre di meno
Sono di questi giorni le prese di posizione di Piero Antinori e Gianni Zonin, sollecitate dall’inchiesta di Vinitaly, sulla possibilità per il vino italiano di “vivere di solo export”. Due punti di vista tendenzialmente opposti con Zonin che ritiene che il mercato interno resti fondamentale (“in questi anni recenti abbiamo visto come le situazioni politiche abbiano modificato rapidamente i flussi monetari e finanziari in molti Paesi, con gravi conseguenze economiche per i mercati. La scelta più saggia è obbligata: dobbiamo sostenere il consumo interno del vino affinché questo rimanga la bevanda millenaria per eccellenza del nostro Paese”) e Piero Antinori che, invece, scommette tutto sull’export (“quello della crisi dei consumi interni di vino è un falso problema, preoccupiamoci piuttosto di vendere bene nel resto del mondo. Il vino di qualità è il prodotto più globale in assoluto, non vedo perché ci si debba focalizzare su una nicchia di 60 milioni di abitanti quando fuori c’è un mercato di 6 miliardi di persone da conquistare”).
Due pareri entrambi fondati e che, difficilmente, non possono che essere condivisi, rappresentando, meglio, gli estremi opposti di un problema complessivo, che non riguarda, peraltro, soltanto la merce vino. Due punti di vista che, comunque, arrivano da colossi dell’enologia nazionale, che dispongono di strategie estremamente diversificate e politiche commerciali altrettanto diversificate e robuste. Insomma, sia Marchesi Antinori che Casa Vinicola Zonin sono in grado di mettere sul tappeto budget in grado di sostenere azioni promozionali in Italia e all’estero senza minimamente soffrirne, rispondendo, evidentemente, soltanto alle loro priorità commerciali, di solito ben pianificate e articolate.
Purtroppo, però, la “narrazione” della realtà offerta da questi due giganti rappresenta soltanto una piccola parte del disperso e polverizzato universo vino made in Italy. Per la stragrande maggioranza delle aziende, probabilmente, le cose sono molto più complesse e, di qusti tempi, più difficili, e passano necessariamente da un’azione combinata. Chi privilegia l’export vorrebbe aumentare la sua penetrazione sul mercato interno e chi è forte “in casa” vorrebbe diventare più solido fuori dai confini nazionali, ma non sempre, per tornare alla questione finanziaria, ci sono i budget sufficenti per farlo.
Le esportazioni di vino italiano nel 2010 sfiorano i 22 milioni di ettolitri in volume (dati Istat), e i 3,9 miliardi di euro in valore e un prezzo medio di 1,8 euro al litro. Se ci confrontiamo con i francesi, che, detto per inciso stanno tornando a crescere nelle esportazioni in modo significativo, specie con Bordeaux e Borgogna, vediamo che il loro prezzo medio al litro è di di 4,7 euro, circa 2 volte e mezzo il nostro. La crisi ha finito, insomma, per acuire questo divario e se il vino italiano è cresciuto in modo più importante di quello francese, lo ha fatto diminuendo il suo prezzo medio di vendita, probabilmente in parte anche a spese dei margini aziendali. La domanda è dunque molto semplice: di che export stiamo parlando? Allo stato attuale, per essere molto diretti, la percenzione del vino italiano esportato resta quanto meno indeterminata: da comprare al volo quando la politica dei prezzi lo favorisce e da lasciare nel “limbo” tra i “top” francesi e gli emergenti di turno spagnoli, argentini, cileni e chi più ne ha ne metta, capaci magari di praticare un prezzo d’offerta più competitivo del nostro. Come dire, se abbiamo tenuto più che egregiamente in tempi di crisi, sfruttando esclusivamente la leva del prezzo, probabilmente quando i mercati si assesteranno definitivamente, dovremo trovare un’altra strategia, perché i nostri prezzi non potranno subire ulteriori ribassi. Insomma, un’altra identità.
In Italia si consuma ancora più vino pro capite che in molti altri Paesi del mondo, ma evidentemente stiamo parlando di un mercato maturo, dove si produce costantemente oltre 40 milioni di ettolitri di vino all’anno, e se ne consumano non più di 25 milioni. Il resto va necessariamente venduto all’estero o si deve produrre meno. O tutte e due le cose insieme. La lettura del mercato italiano sotto questa ottica ci offre una visione sufficientemente chiara di quello che è il problema fondamentale, al di là che si privilegi la vendita sul mercato interno o nelle piazze internazionali. Ciò che oggi è evidentissimo tra i nostri confini, domani, probabilmente, lo sarà anche fuori dai questi, si tratta di una sovrapporduzione di vino che, in qualche modo, va tamponata. Credere che il mercato mondiale del vino sia rappresentato da 6 miliardi di persone è, quanto meno, illusorio anche solo dal punto di vista dei numeri (basta pensare agli astemi, ai bambini, a chi il vino non lo potrà mai bere e a chi non lo berrà mai per motivi religiosi o di salute). Quindi, per chi considera l’espansione produttiva come l’unica possibilità di sopravvivenza, dovrà aprirsi necessariamente una nuova fase guidata da nuove parole d’ordine, sia “in casa” che fuori dai confini nazionali.

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