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OPUS ONE APRE UN UFFICIO COMMERCIALE AD HONG KONG, MA ARRIVA DOPO MOLTE DELLE AZIENDE ITALIANE DA ANTINORI A MASI, DA ZONIN A BANFI, A FRESCOBALDI. ECCO A WINENEWS LE LORO STRATEGIE COMMERCIALI IN UNO DEI MERCATI PIÙ PROMETTENTI E DIFFICILI DEL MONDO

Italia
In Asia anche i giovani iniziano a bere vino

Opus One, joint venture fra il gigante americano Constellation Brands e la Baron Philippe de Rothschild, ha aperto un ufficio commerciale a Hong Kong (fonte: www.decanter.com), ma arriva dopo che molte aziende vitivinicole del Bel Paese, da Antinori a Masi, da Zonin a Banfi e Frescobaldi, hanno già provveduto a “piazzare” in loco un proprio uomo per meglio gestire il mercato cinese. Che questo mercato sia la frontiera su cui tutti i paesi produttori di vino puntano con decisione per allargare la base dei consumatori, e con essa garantirsi un futuro sereno, non è certo una novità. Di sicuro è importante poter contare su importatori e distributori, oltre che, ovviamente, su investimenti pubblicitari e azioni di promozione istituzionale. Ma non è tutto.
Winenews ha cercato di vedere come alcune tra le più importanti aziende vitivinicole italiane si muovano in questo importante e, in potenza, gigantesco mercato. Dal punto di vista operativo, l’approccio al mercato cinese può percorrere due strade fondamentali: l’affidamento del controllo degli importatori e delle politiche di penetrazione su quel mercato ad un funzionario commerciale proveniente dalla stessa azienda, che viva e lavori in loco e possa così affiancare direttamente gli importatori (questa sembra l’opzione più praticata dalle aziende tricolori), oppure, la creazione di una sorta di mini-consorzio fra aziende, i cui vini siano gestiti in loco da un agente dedicato, ma, in questo caso, con la possibilità che si incontrino delle criticità, qualora, per esempio, gli importatori delle aziende “consorziate” siano diversi.
“I canali commerciali del vino in Cina sono ancora disordinati e un buon importatore è decisivo anche se non sufficiente - spiega Stefano Leone, export manager della griffe Antinori - accade anche che un vino che sappiamo essere destinato ad un preciso ristorante, poi, in realtà, non viene venduto da quel ristorante, perché, nel frattenmpo, ha preso un’altra strada. Ecco uno dei motivi per cui è necessario avere una persona dipendente dell’azienda sul posto, affiancando il più possibile l’importatore e controllando le operazioni commerciali “sul campo”. Antinori - prosegue Leone - da un anno ha una persona dello staff aziendale che vive e lavora a Shangai e da lì cura il mercato dell’Asia e dell’Oceania. Fondamentale il peso e il ruolo del marchio, a partire, sembra incredibile - nota Leone - dal fatto che lo sappiano pronunciare. Nel mercato cinese i francesi occupano un posto privilegiato, sono qui da vent’anni e, specie nel caso dei vini di Bordeaux, i negociant bordolesi hanno in Cina propri uffici per seguire il mercato da vicino. Anche gli Australiani sono molto aggressivi ma operano su un altro fronte, trattando direttamente con i vertici della grande distribuzione. Noi italiani siamo un po’ in ritardo - ricorda Leone - ma il mercato cinese ha potenzialità elevate e anche noi possiamo crescere molto qui”.
Anche Masi, una delle aziende di riferimento del Veneto enoico e fra le prime a sbarcare in Cina, ha personale aziendale in loco e precisamente a Pechino che “affianca l’importatore - spiega Sandro Boscaini, presidente di Masi Agricola - perché questo è l’unico modo per seguire questo mercato dalle grandi potenzialità ma dove i tempi di reazione al vino, quello italiano in particolare, sono lenti, perché i vini icona sono quelli francesi e noi dobbiamo ancora accreditarci definitivamente in questo senso. Poi ci vuole il sistema Italia a dare una mano - conclude Boscaini - come ha fatto la Francia per i suoi produttori che si approcciavano a questo mercato”.
“Sono due i capi area di provenienza aziendale che vivono e lavorano in Asia - spiega Rodolfo Maralli, direttore sales & marketing della griffe di Montalcino, Castello Banfi - Uno si trova in Vietnam e controlla i mercati dell’area fino alle Filippine e all’Oceania, l’altro invece si trova ad Hong Kong e si occupa dei rapporti con i distributori di quella megalopoli e della Cina. E’ l’unico modo per gestire dei distributori/importatori che spesso hanno bisogno di un sostegno, non essendo specializzati sui vini italiani, specie per quanto riguarda le società cinesi, mentre ad Hong Kong, ormai, ce ne sono anche di specializzate nei prodotti del Bel Paese. L’ideale - continua Maralli - sarebbe avere almeno quattro persone dell’azienda che si occupano di quei mercati, ma l’investimento sarebbe forse troppo sovradimensionato, rispetto al giro d’affari che per adesso offre soprattutto la Cina. Qui i vini si vendono molto bene nelle grandi città, nelle grandi catene alberghiere e nei ristoranti, popolati dai nuovi ricchi del luogo, ma ancora manca una penetrazione più incisiva nei supermercati cinesi, nelle seconde e terze città, dove i vini italiani sono praticamente assenti. Facciamo ancora fatica a far entrare nelle abitudini della classe media cinese, molto conservatrice - conclude Maralli - il vino come parte integrante delle abitudini alimentari. C’è ancora molto lavoro da lavorare”.
Una strategia leggermente diversa è quella intrapresa dalla Famiglia Zonin che ha puntato “su un nostro uomo che ricopre la mansione di “residente manager”, però, nella struttura del nostro importatore per la Cina. Per adesso, il mercato cinese è ancora - spiega Francesco Zonin, che sovraintende all’attività commerciale dell’azienda di famiglia - relativamente piccolo, solo il 10% del vino consumato è importato, ma la nostra azienda ha cominciato a lavorarci fin dal 1996. Da allora, le cose sono molto cambiate - sottolinea Zonin - le aree di consumo si sono allargate e speriamo che sia la volta anche del centro della Cina, la zona delle industrie, con città da 6/10 milioni di abitanti. Se, infatti, Hong Kong , Pechino, Shangai e - aggiungerei - Macao, sono mercati ormai abbastanza aperti anche se ancora in divenire, quello del centro della Cina, porbabilmente il più importante dal punto di vista del suo sviluppo, resta ancora indietro. Il mercato cinese non ha ancora trovato una sua precisa fisionomia, specialmente dal punto di vista del consumo locale e, probabilmente - conclude Zonin - è nei prossimi tre anni che si giocherà la partita decisiva”.
“Abbiamo una persona dell’azienda che vive e lavora in Cina per seguire da vicino i vini di Frescobaldi - spiega Giovanni Geddes da Filicaja, ad dell’azienda toscana - e stiamo proprio in questi giorni pianificando la presenza di un altro nostro uomo per seguire i vini della tenuta dell’Ornellaia in Asia. Dobbiamo incrementare la nostra azione sul marchio, perché il mercato cinese e quello asiatico in generale è particolarmente sensibile alla forza e alla notorietà della marca. I francesi da questo punto di vista sono riusciti a posizionarsi al top di questi mercati, ma la Cina è una grande opportunità, specialmente per i vini di alto e altissimo livello, e, da questo punto di vista - conclude Geddes - ci aspettiamo una crescita importante”.
Si chiama Jacopo Pandolfini l’uomo Antinori che risiede stabilmente a Shangai e - spiega a WineNews - “sarà assolutamente necessario espandere il nostro coinvolgimento diretto nel marketing dei nostri importatori, specie in Cina, un mercato molto vasto sia geograficamente che nei canali di vendita, tanto da richiedere un marketing specifico. Il nostro approccio fino ad ora è stato abbastanza tradizionale - continua Pandolfini - mantenendo un importatore unico per tutta la Cina, ad esclusione di Hong Kong. Il consumo di vino sta crescendo in modo esponenziale, spinto dal fatto che il vino rappresenta uno status symbol ed una forte spinta è stata anche data dallo stesso governo cinese, che sta cercando di spostare i consumatori dagli spirits al vino per evidenti motivazioni sociali. In generale, l’Italia come sistema ha iniziato ad investire sul mercato cinese solo recentemente, partecipando, per esempio a fiere di settore con rappresentanze istituzionali, in netto ritardo rispetto ai Francesi di Sopexa e agli Australiani. Persino gli Spagnoli hanno mostrato un attivismo su questo mercato superiore al nostro”.
Tuttavia, il consumo di vini italiani sembra viaggiare su un trend in crescita “una forte spinta sta arrivando dalla zona di Wenzhou, Ningbo e Hangzhou - prosegue Pandolfini - da dove vengono la maggior parte degli immigrati cinesi in Italia, che, sia per moda che per necessità, stanno promuovendo il vino italiano in Cina, avendo una conoscenza diretta dei nostri prodotti. In generale, siamo in una fase di “semina”, nel senso che i nostri marchi non hanno il peso che hanno i marchi francesi, per cui i consumatori vanno educati con un paziente lavoro di wine tastings, trainings, mass-media (su riviste specializzate e lifestyle) e, quando possibile, invitandoli in Italia a toccare con mano la nostra realtà. Proprio questo ultimo fattore, potrebbe essere fondamentale per il nostro successo, visto la scarsità di iniziative aggressive da parte del Sistema Italia”.
Certo, il vino può puntare molto sul suo fascino di status symbol, destinato al consumo di lusso, che in Cina ha sicuramente delle potenzialità ancora tutte da scoprire, ma “i marchi di lusso del vino, non hanno la possibilità di creare la propria brand awareness attraverso punti vendita monobrand - precisa Pandolfini - come accade per la moda, per cui l’iter di sviluppo sarà sicuramente più lungo. La strategia, per adesso, deve mirare al segmento dei clienti privati (che in Cina rappresenta una quota altissima di mercato, ancora non quantificabile, ma c’è chi dice quasi il 60%) e, allo stesso tempo, creare accessibilità ai prodotti nel canale HoReCa (hotel, ristoranti, café). Per questo motivo - sottolinea Pandolfini - credo che sia importante trattare il brand come qualcosa di esclusivo, in modo da creare un desiderio, che va poi a creare il prestigio del brand. Una volta creata la brand awareness, sia per i vini italiani in generale che per i singoli brand, sia per i vini di alto livello che per gli “everyday wines”, si apriranno nuovi spazi per un un pubblico più ampio. Questo è quello che è successo ai vini francesi. I grandi Cru di Bordeaux - aggiunge Pandolfini - hanno scatenato un effetto a cascata tanto che basta ci sia scritto Bordeaux sull’etichetta per essere percepito come un vino di prestigio e qualità. Antinori sta attualmente lavorando, sulla creazione del prestigio presso gli opinion leaders, i ricchi cinesi e le alte sfere della nomenclatura politica - conclude Pandolfini - mostrando la storia, gli investimenti in cui la famiglia si è impegnata, la notorietà guadagnata negli altri mercati, e invitando questi potenziali clienti ad eventi e viaggi in Italia, associando i nostri vini al lifestyle made in Italy. Per il momento le vendite stanno crescendo nell’ordine delle due cifre percentuali, quindi non possiamo lamentarci”.
Un mercato, quello cinese, che, dunque, resta un “working progress”, con difficoltà ancora da metabolizzare completamente, a partire dalla lingua: il cinese, infatti, non è una lingua unitaria e i diversi dialetti, dal Cantonese al Mandarino, per citare i più noti, sono profondamente diversi e non è detto che dove viene parlato il primo si conosca anche il secondo.
Un mercato ancora giovane, dove a “tirare” è l’affare tout-court, la terna prezzo-costo- profitto, più che i gusti di un pubblico competente o che trova tradizionalmente nel vino una bevanda di riferimento, anche per ragioni culturali. In Cina, tutto questo ancora non esiste e nelle presentazioni dei vini più che parlare di terroir e peculiarità organolettiche specifiche, è necessario spiegare come il vino è realizzato, illustrandone i processi di produzione, anche quelli più banali, che, a queste latitudini, sono semplicemente ignorati. Se alcuni racconti che arrivano da Pechino o Shangai, possono essere rubricati fra le “leggende metropolitane”, resta però vero che il mercato cinese è ancora dominato da logiche per certi versi bizzarre.
A sedurre il consumatore cinese, per esempio, è ancora molto più efficace una bella etichetta, magari nera, oro o rossa, che il vitigno da cui è ottenuto quel vino. E se il progetto graphic label contiene il numero “otto”, può accadere una sorta di “miracolo” commerciale (come è successo recentemente per le bottiglie di Château Lafite Rothschild 2008, già in via di esaurimento ad un anno dal loro imbottigliamento e le cui quotazioni, al solo annuncio che in etichetta sarebbe stato apposto il simbolo cinese del numero otto (un simbolo, considerato particolarmente fortunato in Cina), sono cresciute del 20% in 24 ore).
Un mercato, insomma, assai allettante ma complicato, in cui i parametri di vendita sono ancora distanti da quelli impiegati normalmente sulle piazze di tutto il mondo e completamente diversi anche da quelli usati per avviare mercati “vergini” e altrettanto promettenti, ma, regolamentati, come è stato, ormai almeno tre decenni fa, nel caso dello sbarco delle aziende vitivinicole del Bel Paese in Usa.
Un mercato, infine, in cui, giova ricordarlo, la Francia ha una quota del 46% (seguita dall’Australia al 18%) sul vino importato e addirittura del 52% quando si passa al valore imbottigliato (dati: Observatorio Espanol del Mercado del Vino). L’Italia è al quarto posto con una crescita fortissima (+96% nel 2010) ma con una quota di mercato soltanto del 6%.

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