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ARTIGIANI DEL GUSTO E GRANDI IMPRENDITORI DEVONO COESISTERE NEL SEGNO DEL MADE IN ITALY, COME PURE “LOCAL E GLOBAL” NELLA RISTORAZIONE. COSÌ OPINION LEADER, CHEF E VITICOLTORI NEL FORUM DI VALDOBBIADENE “VINO E RISTORAZIONE: GLOBAL, LOCAL O GLOCAL?”

Gli artigiani del gusto e i grandi imprenditori dell’agroalimentare devono riuscire a coesistere nel segno del made in Italy. Non solo devono unirsi nella lotta all’italian sounding che toglie al “mercato Italia” 50 miliardi di euro. Tutto questo ben sapendo che l’Italia è una destinazione turistica ed è apprezzata per il suo stile di vita, anche alimentare, richiestissimo nel mondo. Ma deve capirlo tutto il “sistema-Italia”, nel suo complesso. Così, ieri, a Valdobbiadene, nella culla del Prosecco, nel confronto “Vino e Ristorazione: global, local o glocal?”, tra opinion leader, chef, manager di cantine e viticoltori.
Una ristorazione che, per Antonio Paolini, giornalista e critico gastronomico per le “Guide de L’Espresso”, di volta in volta, deve innanzitutto “specializzarsi, scegliere se essere un ristorante local, di tendenza, etnico o globale, e poi fare marketing sul brand, senza cambiare nome continuamente come spesso accade. Puntando su una cucina che deve essere consapevole delle sue radici e delle eredità di saperi e di materie prime che possiede, colta sulle sue tecniche, sulla storia, ma anche sul giusto prezzo dei piatti, e allo stesso tempo curiosa, aperta al confronto, capace di mantenere la propria identità e al tempo stesso di esprimersi in maniera cosmopolita e originale”.
Insomma, chiarezza sì, paraocchi no. Per Fabio Baldassarre, chef del ristorante Unico di Milano, “un’esperienza global aiuta a apprendere nuove culture. Conoscere l’altro ci insegna a diventare più italiani, a renderci conto di chi siamo e tirare fuori il meglio. Per questo bisogna anche esser sempre curiosi, far prevalere l’etico sul fusion e credere in noi perché è quello che alla fine per la gente conta”. Per Vito Mollica, executive chef del Ristorante Il Palagio del Four Seasons di Firenze: “non possiamo funzionare solo a livello locale, allo stesso tempo non potremmo mai lavorare solo con gli internazionali. Se da un lato c’è la “condanna a scegliere il meglio” dall’altro lato significa che siamo noi i testimoni di tanti piccoli mondi, che siano il più originali possibile nella filosofia”.
E quanto al vino, che in Italia da sempre è il partner n. 1 del cibo al ristorante, le cose stanno cambiando, da tempo. “La carta va aggiornata più frequentemente - dice Alessandro Regoli, direttore WineNews - ordinata per tipologia di prodotto per una maggior chiarezza e semplicità di consultazione anche per una clientela meno esperta. Va prevista un’offerta alla mescita o al bicchiere, anche perché i passi avanti della tecnologia permettono una buona conservazione delle bottiglie aperte, che restano davanti agli occhi di tutti. Ma per tornare a far crescere il consumo di vino, che in Italia è ai minimi storici, con 37 litri procapite all’anno, questo non è sufficiente, ovviamente. Serve tener conto che oggi gli appassionati hanno sempre più facilmente accesso alle informazioni grazie alla rete e a Internet, e infatti la cultura del buon bere è aumentata. Accanto a questa tendenza se ne accompagna un’altra che sta assumendo sempre maggiore importanza: il consumo casalingo, ovvero la ricerca del buon bere non più attraverso il consumo fuori casa ma portando direttamente nel proprio appartamento insieme agli amici, la voglia di stappare insieme bottiglie importanti prese direttamente dalla cantina personale o acquistate per l’occasione. Poi c’è il prezzo. Un elemento che, specie di questi tempi, fa la differenza. Nella colonna di destra della carta ci vogliono cifre che invoglino a spendere. Certo, si tratta di un terreno delicato: il ristoratore non deve rimetterci, questo è pacifico, ma non deve pensare neppure che con il vino si fa il fatturato del locale”.
E poi c’è il punto di vista dei produttori: per Giorgio Castagnotti, dg della produzione della Martini & Rossi Spa, “ci confrontiamo con una clientela enorme e variegata, quindi oltre al clima ed al meteo ci troviamo ad analizzare territori e origini per far sì che il nostro prodotto sia apprezzato ovunque. Per questo la nostra strategia sta nella costanza della scelta delle materie prime”. Per Roberta Giuriali Stelzer (cantina trentina Maso Martis) “in Italia un grosso problema è quello della formazione professionale, troppo spesso vissuta dalle famiglie come un ripiego e non come un’indole, una passione. Anche perché le persone fanno la differenza, l’accoglienza è fondamentale”. Un problema, quello della professionalità, che lamentano anche gli chef, soprattutto per il fatto di far fatica a trovare personale di sala adeguato, spesso, ai livelli dei loro ristoranti. “Molti - aggiunge Mollica - si concentrino su bellezza e tecnica del piatto, mentre tralasciano l’accoglienza”. Ma la sala è l’altra “metà del cielo” di un ristorante, che può contribuire al suo successo o al suo fallimento quasi quanto la cucina.

Focus - L’intervento di Winenews: “Sulle “carte dei vini” al ristorante”
Ormai, il consumo di vino procapite in Italia si attesta sui 37 litri. Tanto per farci un’idea siamo un buon 10 litri sotto la Francia, che resta il più grande Paese del mondo per consumo di vino procapite. Fortunatamente, la situazione del mondo del vino italiano è decisamente diversa se si guarda all’export che anche in questo 2013 sembra riproporre la propria solidità, dopo che il vino italiano aveva toccato nel 2012 un valore di 4,7 miliardi di euro (nuovo record per il made in Italy in bottiglia) e un “peso” in volume superiore ai 21 milioni di ettolitri, con circa lo stesso volume distribuito in Italia. Un dato che conferma, nonostante tutto, il ruolo ancora molto importante del mercato italiano almeno dal lato quantitativo, mentre Stati Uniti e Germania restano saldamente i mercati che spendono di più in etichette del Bel Paese (rispettivamente 1 miliardo di euro e 950 milioni di euro). Resta comunque impossibile non considerare attentamente questo quadro che in Italia, pur fra tante controtendenze, è caratterizzato dalla crisi e dai cambiamenti di stile nel consumo di alcol.
Evidentemente, in casa nostra, questo stato di cose colpisce prima di tutto il luogo per eccellenza del consumo di vino, il ristorante, dato che, crediamo, il nettare di Bacco si trovi ancora “a suo agio” per lo più in abbinamento con il cibo, mentre sembra interessare in misura minore i Wine Bar e, con altre modalità, le stesse enoteche chiamate a diversificare la loro pura attività di “bottiglieria” con degustazioni, incontri con i produttori e un servizio sempre più “tagliato a misura” sui clienti più assidui. Certo, a subire le maggiori critiche e a vedersi davanti scenari che non saranno più gli stessi, resta principalmente la “carta dei vini”, l’assortimento di etichette che un locale propone alla propria clientela. Variabile per quantità, qualità, livello dei ricarichi, profondità delle annate e quant’altro, la carta dovrebbe essere un atto di comunicazione del ristoratore dove viene evidenziato la scelta dei vini, il perché sono considerati interessanti, la loro adeguatezza ai piatti e al livello del locale nonché il gusto che guida le proposte enoiche del locale e, ovviamente, il prezzo, da considerare non solo guardando alla bottiglia in sé ma anche a tutto quello che la accompagna.
Astrattamente, per mantenere la carta “appetibile” dovrebbero bastare i suggerimenti che qualsiasi sommelier è in grado di fornire: aggiornare frequentemente la carta, ordinarla per tipologia di prodotto, prevedere un’offerta alla mescita e/o al bicchiere (i passi in avanti delle macchine che garantiscono una buona conservazione alle bottiglie aperte sono davanti agli occhi di tutti).
Purtroppo, queste ricette sembrano però non bastare più, anche e soprattutto perché in parte costruite su una realtà che ormai è quasi completamente mutata. A partire dall’approccio complessivo al consumo di vino. Nascono, o sono già nate, esigenze nuove da parte dei clienti/consumatori. Oggi, i gourmet, ma non solo, hanno maggiori opportunità di confronto con quanto accade nel resto nel mondo, il flusso di informazioni è agevolato dalla rete e la cultura del buon bere è aumentata, di pari passo all’aumento di locali dove si consuma vino, dai Wine Bar alle enoteche. A questa serie di sollecitazioni hanno fatto seguito una serie di “bisogni” nuovi e più articolati, capaci di dettare una paradigma del tutto inatteso. Primo fra tutti, il sempre più crescente fenomeno del portarsi le bottiglie preferite da casa, seguendo una abitudine che all’estero è ormai consolidata, e che, anche da noi, potrebbe diventare una modalità di consumo del vino al ristorante non secondaria. Accanto a questa tendenza se ne accompagna un’altra che sta assumendo sempre maggiore importanza: il consumo casalingo, ovvero la ricerca del buon bere non più attraverso il consumo fuori casa ma portando direttamente nel proprio appartamento insieme agli amici, la voglia di stappare insieme bottiglie importanti prese direttamente dalla cantina personale o acquistate per l’occasione.
Ma accanto a queste nuove esigenze, l’elemento scatenante di questo mutamento, evidentemente, sta nella crisi dei consumi di vino in Italia, che deve costringere gli addetti ai lavori a cominciare a guardare la situazione con un pizzico di minore esclusività. È probabilmente arrivato il momento anche di fare davvero i conti con la media dei ristoranti e con la media dei clienti. Insomma, è sempre più importante comprendere esigenze e prospettive dei locali che non sono gourmet o stellati. Quelli di cui non si parla mai, ma che sono quelli che incidono di più sul consumo del vino nel fuori casa. Stesso discorso vale per la clientela, decisamente maggioritaria quella fatta da coloro che apprezzano il vino ma che non stanno a farci grandi ragionamenti sopra. Qui si inseriscono variabili più ampie in cui la carta dei vini perde necessariamente le connotazioni classiche della sua struttura e del suo obbiettivo, che deve necessariamente confrontarsi con un deciso cambiamento di come si “vive” un ristorante e di come si consuma il vino a tavola anche da parte di coloro che continuano a frequentare i locali non solo per la soddisfazione sensoriale ma anche per quella intellettuale.
In Italia, nella stragrande maggioranza dei casi, restano ancora aperti vecchi problemi per le carte dei vini. Primo fra tutti quello di non portare con sé un messaggio oppure di portarlo uno troppo confuso. Anche per questo sono entrate in crisi le carte dei vini “enciclopediche” omnicomprensive, insomma caotiche e dispersive. Meglio forse avere 30 etichette selezionate con un criterio chiaro e visibile e un vino sfuso e/o una scelta di vini al bicchiere. Oppure anche una carta molto raffinata ma che non basi il suo messaggio di ricercatezza su mille referenze che nessuno vuole o ha voglia di “spulciare”. Il che non vuol dire negare il valore di ristoranti importanti come, per esempio, Enoteca Pinchiorri a Firenze, che deve molto del suo successo proprio all’ampio spazio riservato ai vini. Ma, appunto, si tratta di una eccezione e comunque il messaggio di questo locale e della sua carta è chiaro come chiaro è il target di clientela a cui è rivolto.
Poi c’è il prezzo. Un elemento che, specie di questi tempi, fa la differenza. Nella colonna di destra della carta ci vogliono cifre che invoglino a spendere. Certo, si tratta di un terreno delicato: il ristoratore non deve rimetterci, questo è pacifico, ma non deve pensare neppure che con il vino si fa il fatturato del locale. Forse un tempo, adesso non più. Ci sono sempre più luoghi dove è possibile, grazie all’uso della mescita al bicchiere, di bere benissimo senza rischiare di dover pensare ad un mutuo per il conto finale. Oppure locali in cui una scelta oculata di etichette di qualità dai prezzi alla portata di tutti (se non si usano ricarichi eccessivi) possono addirittura invogliare a stappare più bottiglie. All’estremo opposto, probabilmente, restano troppi i ristoranti in cui ancora adesso si fa fatica a scegliere una bottiglia appena decente sotto i 100 euro.
Ma la carta per funzionare non deve essere solo una fredda lista scritta. Chi serve il vino sarebbe auspicabile che dicesse qualcosa su quello che versa, spiegasse perché ha scelto quella etichetta di Brunello piuttosto che un’altra. Insomma, meglio un locale con 30 bottiglie su cui il ristoratore può parlare che uno dove ce ne sono 1.000 ma di cui nessuno sa dire nulla.
Il destino della concezione della carta dei vini che fino a pochi anni fa era trionfante, ovvero una carta capace di contenere quante più referenze possibili, ubbidendo più che alla passione e alla professionalità, alla più banale legge del marketing per cui un’offerta più vasta accontenta più clienti, sembra dunque davvero superata. Gli stessi ristoratori sembrano ormai convinti che una carta dei vini “generalista” non sia più funzionale, né dal lato dei costi di gestione, né da quello della richiesta dei clienti e della loro stessa sensibilità. Abbandonata una costruzione della carta dei vini superficiale, magari condotta soltanto scegliendo tra i vini premiati dalle guide, o costruita per vanità, i ristoratori, anche i più famosi e acclamati, attualmente pensano in primo luogo al target della propria clientela.
Ecco allora apparire sui tavoli carte dei vini che privilegiano con sempre maggior forza tipologie specifiche di prodotti (“carta dei vini bio e/ o biodinamici”, per fare un esempio) o, non è un fenomeno secondario, l’opzione del vino al bicchiere come accompagnamento “pensato” per abbinarsi ad un menu specifico, o, ancora, i vini del territorio dove si trovano i ristoranti. È chiaro, infatti, che in zone vocate all’enologia, come la Toscana, il Piemonte o il Veneto, non avere una buona e ricca scelta di vini del territorio sarebbe penalizzante, mentre i ristoranti di zone meno importanti, che fanno della cucina il loro punto di forza, possono permettersi di avere carte meno corpose.
Ricette vincenti a priori restano comunque impossibili. Anzi, si trovano tendenze e scenari che in qualche caso possono essere addirittura contradditori. Se lo stesso modo di concepire l’abbinamento è entrato i crisi, o meglio sta radicalmente cambiando i propri assiomi, allontanandosi dal classico incrocio di vini rossi con la carne, bianchi con il pesce, ecc …, cominciano ad emergere una serie di “nuove” carte, ma questa volta non dei vini. Un altro elemento, che sta crescendo nelle sensibilità di molti ristoratori e di molti gourmet e che finirà per minare ulteriormente le certezze in fatto di carte dei vini, che potrebbero mutarsi in carte delle birre artigianali o dei the o delle stesse acque minerali, non esenti però dal riproporre le stesse problematiche.
Stretta dalla crisi dei consumi di vino in Italia e dai cambiamenti degli stili di vita, la carta dei vini sembra avviarsi verso un declino non però definitivo. Resta ancora ben saldo il suo ruolo di insostituibile quanto meno di orientamento per il cliente che potrebbe ritrovare la propria forza anche con l’aiuto della rete, capace di mettere a disposizione esempi e idee provenienti da altri Paesi, dove questo strumento continua a godere di ottima salute.
Alessandro Regoli - Direttore WineNews

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