“Se c’è una cosa che accomuna il mondo del vino e quello delle macchine e delle tecnologie per la viticoltura e l’enologia, è l’identica propensione a fare la maggior parte dei fatturati fuori dal Belpaese”. Parola di Vittorio Della Toffola, a capo di una delle aziende leader mondiali nel settore dei macchinari per il lavoro in cantina che, dal Simei ed Enovitis (www.simei.it), la kermesse milanese che da oggi al 16 novembre, mette in mostra il meglio dell’hi-tech del settore, frutto di quella capacità di investire ed innovare tipica della piccola e media impresa italiana. A dimostrarlo, i numeri che parlano di “un export che - continua Della Toffola - nel 2012 ha chiuso con un valore esportato di 1,9 miliardi di euro, a +18% sull’ultimo biennio”.
Del resto, in qualsiasi cantina, di qualunque parte del mondo, ci sono 8 probabilità su 10 di trovare un macchinario italiano, praticamente le stesse di trovare sugli scaffale di un’enoteca un vino del Belpaese, e la situazione non è troppo diversa quando si sposta l’attenzione sui materiali di consumo, come lieviti, capsule, tappi. Tutto bene, quindi? No, perché le similitudini con il mondo del vino valgono anche quando si parla di limiti e difficoltà. Legate quasi interamente all’endemica incapacità di saper raccontare il meglio di sé, per crescere e superare, come sempre, il rivale numero uno, la Francia. “Noi italiani - come spiega a WineNews Maurizio Di Robilant, a capo della “Robilant Associati Brand Advisory & Strategic Design - siamo come un pesce che nuota nel più bel mare del mondo ma che, essendoci nato, non se ne rende conto”. E questo porta a non prendercene cura in maniera adeguata, visto che, “come racconta un interessante studio del Censis, il valore aggiunto della bellezza, dal 2002 al 2010, è sceso da 75 a 58 miliardi di euro. Vuol dire che, pur continuando a produrre cose belle, non ce ne occupiamo a sufficienza, mancano formazione, cultura e, soprattutto, consapevolezza. Del resto, puntare sulla bellezza vuol dire anche creare lavoro, ma per riuscirci dobbiamo fare in modo che il mondo ci conosca. E questo vale in particolar modo per il vino, visto che non abbiamo una comunicazione del vino italiano, visto che comunicano solo i singoli, creando una certa confusione. Per far diventare la pluralità un punto di forza, dovremmo inserirla in un sistema Paese che faccia da punto di riferimento, perché se ognuno parla con la propria voce, ovviamente, si fa un gran brusio di fondo e non ci facciamo capire. I francesi, ad esempio, hanno tre tipi di vino e tutto il mondo li conosce, mentre noi abbiamo più ricchezza, ma dobbiamo capire qual è il modo migliore per comunicarlo, facendo sì che la comunicazione del sistema Paese sul vino venga emerga come primo elemento, a cui agganciare tutta la complessità dell’Italia enoica”.
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