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Verso la vendemmia, parla il fondatore di Slow Food Carlin Petrini: “le previsioni? Legittime ed interessanti. Però quello che conta non sono le stime su qualità e quantità, ma la valorizzazione della diversità dei vitigni autoctoni italiani”

Se qualcuno ha già cominciato a tagliare i primi grappoli della vendemmia 2016, come annunciato, per esempio, da Settesoli, la più grande cantina della Sicilia, con il Pinot Grigio, il grosso della raccolta è ovviamente ancora lontano. Logico che, nell’avvicinamento al momento cruciale per la vita delle cantine e del mondo del vino tutto, la curiosità e l’interesse di sapere come stanno andando le cose in vigna. Ne parleranno le cronache, e lo faremo anche noi. La cosa da evitare, in questa fase, è evitare “oracoli” definitivi sulla qualità, visto che una bizzarria climatica è sufficiente a cambiare il quadro. E neanche lasciarsi andare trionfalismi eccessivi, soprattutto sul fronte della quantità, anche perché, come spesso è stato detto, il vino poi bisogna venderlo. Riflessioni non nuovissime nel mondo del vino, ma che ha voluto rimettere al centro dell’attenzione uno dei più importanti opinion leader a livello mondiale, quando si parla di narrazione del vino e del cibo, quale è Carlo Petrini, fondatore e presidente internazionale di Slow Food.
Che sulle pagine del quotidiano “La Stampa” del 29 luglio, in un pezzo riportato anche da “Slow Wine” (http://goo.gl/zT41IW) scrive: “si avvicina agosto e con esso il momento in cui partirà, da parte dei miei amici critici enologici e non solo, la corsa ad affermare quanto questa sia un’annata eccezionale dal punto di vista vinicolo e come la produzione italiana abbia ancora una volta toccato cifre record in barba ai nostri cugini d’oltralpe. Tutto legittimo e anche interessante, ma vorrei anticipare questo momento con due riflessioni. Da un lato, come si dice dalle mie parti, i conti si fanno a bocce ferme. È evidente pertanto che, prima di lanciarsi in annunci e previsioni roboanti, la vendemmia va portata a casa. Il punto tuttavia in questo caso è forse un altro, e cioè quali sono i nostri criteri di valutazione e quali i valori che si tengono in considerazione in questo genere di ragionamenti”.
Secondo Petrini, l’errore, che porta alla seconda delle sue riflessioni, è quello di concentrare troppo l’attenzione sui volumi, o meglio sulla “quota di mercato che la nostra viticoltura riesce a conquistare a livello internazionale, il prestigio che le nostre etichette riscuotono nel mondo. È indubbio che questo abbia importanza dal punto di vista della salute complessiva del comparto, ma non dobbiamo fare l’errore di pensare che una maggior produzione sia per forza di cose un dato positivo o che lo strapotere di vini come il Barolo e il Barbaresco, il Brunello di Montalcino fino ad arrivare al Prosecco per parlare di grandi numeri, vada salutato come segno del successo tricolore. Non va dimenticato, infatti, che l’Italia gode della più grande varietà di vitigni autoctoni imbottigliati del mondo, con più di 700 varietà che compongono il nostro panorama vinicolo e che ciascuna di queste ha particolarità e peculiarità che non solo le rendono uniche, ma che dovrebbero farne l’orgoglio vero della nostra agricoltura. Penso che su questo bisognerebbe puntare, più che sulla potenza internazionale dei vini più conosciuti. Anche perché la diversità è quella che ha fatto la storia della nostra enologia, è nella diversità che si esprime il territorio, e puntare tutto sul fascino dei grandi vini è una scelta un po’ miope così come è miope la scelta di osannare un aumento della produzione che, a conti fatti, vede, a fronte di un superamento della Francia in termini di numero di bottiglie prodotte, un’entrata nelle casse dei nostri produttori di poco più della metà rispetto agli omologhi d’Oltralpe”.
Secondo il fondatore di Slow Food, la cosa più importante è la “valorizzazione della varietà e della complessità del nostro panorama vinicolo, sapendo che un vitigno autoctono è quello che meglio ha adattato le proprie caratteristiche al territorio che lo ospita, e che nei secoli ha instaurato una relazione con l’uomo che a sua volta si è adattato alla sua coltivazione, ha messo a punto tecniche che a loro volta hanno plasmato il paesaggio e la socialità, questo è il nostro più grande patrimonio, e la vera sfida è quella di trovare il modo di difenderlo e di farne la nostra bandiera”...
Diversamente, sostiene Petrini, “ci troveremo a celebrare la quinta annata del secolo in sedici anni, a gioire di un nuovo superamento produttivo dei francesi e ad assistere a una nuova occasione persa di prendere coscienza di quelle che sono la straordinaria varietà della nostra viticoltura e la grandezza dei nostri vignaioli”.

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