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I wine lover Usa prediligono ancora Italia e Francia, ma la curiosità vola verso mete nuove, dalla Croazia alla Cina, passando per Georgia ed Israele, culla delle viticoltura capace di raccontare storie uniche, da Cremisan al primo vino palestinese

I numeri parlano chiaro, la luna di miele tra Stati Uniti ed Italia, almeno in senso enoico, è ancora in pieno idillio, con Francia e Australia ben distanti, sia in termini di quantità che di valori, seguite a loro volta da Argentina, Nuova Zelanda, Spagna e Cile. Ma la curiosità, si sa, è difficile da saziare, e a volte ha bisogno di uscire dalle rotte classiche e puntare verso territori emergenti, ancora marginali e poco conosciuti, ma dal potenziale vinicolo tutto da scoprire. A partire, come racconta l’ultimo sondaggio del magazine Usa “Wine Spectator” (www.winespectator.com) tra i suoi lettori, dalla Croazia, indicato come Paese più interessante, da un punto di vista strettamente enoico, dal 26% dei wine lovers a stelle e strisce. Seguita, sul podio di questa speciale classifica, ma staccatissime, da Cina (12%) e Georgia ed Israele (entrambe all’11%), con Uruguay (8%), Brasile (7%), Turchia (6%), Libano (4%) e Moldova (2%) a chiudere la chart.

Se la Croazia, almeno per noi, non è una scoperta né una sorpresa, e la curiosità per la Cina troverà presto soddisfazione (la prima etichetta cinese di Moët Hennessy, il ramo wine & spirits del gruppo del luxury LVMH, Ao Yun, un blend di Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, è appena arrivata sul mercato americano), diverso è il discorso che riguarda la Georgia, culla del vino e pronta a riprendersi un ruolo d protagonista, ed Israele, diventata in pochi anni una solida realtà del panorama vinicolo internazionale, anche grazie ad una nicchia, quella del vino Kosher, particolarmente forte in Usa, che vale 28 milioni di euro l’anno. Proprio tra le attuali Georgia ed Israele si estendeva la mezzaluna fertile, culla di una delle più grandi civiltà della storia, quella assirobabilonese, la prima a coltivare la vitis vinifera e produrre vino.

Una tradizione che, nei secoli più recenti, con la completa islamizzazione dell’area, si è andata perdendo quasi completamente: la Turchia, con fatica, sta cercando il rilancio, mentre nei territori della Palestina gli esempi di “resistenza vinicola” si contano sulle dita di una sola mano. Il primo è il Monastero di Cremisan, la cantina con sede a Gerusalemme ed i filari, tra varietà internazionali ed autoctoni, che corrono, letteralmente, sul confine tra Israele e Palestina: gestita dai Salesiani, rischia di venire inglobata interamente nel territorio israeliano, vanta la collaborazione del più famoso degli enologi italiani, Riccardo Cotarella. Il secondo esempio, invece, è un progetto molto più attuale, ed è legato interamente al territorio, arabo, della Cisgiordania. Qui, nella città di Taibe, la famiglia Khoury ha fondato nel 1994 il primo birrificio del territorio, e ora, la seconda generazione, è pronta a puntare su una tradizione antica, quella del vino, il primo prodotto interamente in Palestina, da uve autoctone (lo Zeini), in terrazzamenti tra i 700 ed i 1.000 metri.

In Cisgiordania, del resto, l’uva è la seconda coltura più importante dopo quella dell’olivo, anche se appena il 2% della produzione diventa vino, che negli Stati Uniti, da dove è iniziato il nostro racconto, non può essere commercializzato come “made in Palestina”, ma solo come “made in Cisgiordania”. È questa, in effetti, la sfida maggiore della famiglia Khoury, che al quotidiano francese “Le Figaro” (www.avis-vin.lefigaro.fr) ricorda come “fino alla guerra del 1967 esisteva ancora una viticoltura palestinese, ad esempio nella città di Latrun, dove oggi si produce vino israeliano ...”.

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