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L’export è la via obbligata per la crescita del mondo enoico italiano, e la comunicazione è una leva irrinunciabile, a patto che racconti la qualità ed il territorio. Ecco le “pillole” del Seminario di marketing del vino della Fondazione Mach

Export via obbligata, perché vale per molti oltre il 50% del mercato (Stevie Kim, Vinitaly International), marketing fondamentale, perché il consumatore è cambiato e oggi, nell’era della qualità del vigneto e del produttore, a pagare sono il lavoro, l’impegno e la verità (Emilio Pedron, Bertani Domains). E il brand, che oltre alla qualità del prodotto deve esprimere uno stile di vita (Matteo Lunelli, Ferrari), ma sempre legato al territorio, senza cui un marchio, a parte poche eccezioni, non può decollare (Antonio Rallo, Donnafugata), con le denominazioni che, tra forte identità del prodotto, rigore dei disciplinari e dei controlli e la libertà di espressione della marca a vantaggio del marchio collettivo sono opportunità (Raffaele Boscaini, Masi). Ecco le “pillole” dei protagonisti del seminario n. 7 di marketing del vino della Fondazione Mach, che ha messo al centro i nuovi modelli per l’export (www.fmach.it).

Ne emerge un panorama in continua mutazione, in cui la geografia della produzione e dei consumi del vino sono completamente cambiati negli ultimi anni, come pure è cambiato il consumatore, ormai capace di scegliere, e sostanzialmente infedele, tanto che lo stesso vino fatica a trovare modelli di riferimento. “È l’era della qualità del vigneto e del produttore. Non possiamo competere sul prezzo - esordisce Emilio Pedron, a capo di Bertani Domains - e dobbiamo forzatamente e virtuosamente imboccare la strada della costruzione del valore aggiunto, sui mercati esteri come su quello domestico. Una presenza forte sul mercato interno, infatti, è la condizione per essere forti anche all’estero. Le leve di marketing per aziende che contano sui propri vigneti, e chiudono la filiera, come noi, sono il lavoro, l’impegno e la verità”.

Il mercato italiano, quindi, ha ancora una funzione ed un ruolo, a dir poco fondamentale, anche se è l’estero, ormai, a sostenere la crescita della viticoltura italiana, specie grazie ai numeri delle bollicine, con il fenomeno Prosecco che sta facendo da apripista per le esportazioni anche dei metodo classico che, tuttavia, vale la pena di ricordarlo, rappresentano una piccolissima parte degli sparkling italiani: il 4%, pari a 25 milioni di bottiglie tra Franciacorta, TrentoDoc, Oltrepò, Alta Langa. “Anche per gli sparkling - ha sottolineato Matteo Lunelli, a capo della griffe trentina Ferrari - è necessario un percorso di conoscenza. Come dal cioccolato bianco si passa a quello al latte e poi si prosegue verso la preferenza del fondente, così il Prosecco costituisce una sorta di sparkling di ingresso. Sono ottimista perché nell’alta ristorazione internazionale si sta facendo strada la consapevolezza che esistono più territori di produzione di questa tipologia, e che non si può avere in carta sempre il solito Champagne. La nostra grande opportunità - conclude Lunelli - è nella lenta ma continua crescita delle esportazioni. L’obiettivo è mantenere il mercato italiano e alimentare le esportazioni aumentando la produzione”.

In generale, è cruciale la notorietà della denominazione, senza la quale i brand aziendali, a parte alcune eccezioni, non possono decollare. “Si tratta di una situazione connaturata alla frammentazione e alle dimensioni ridotte delle aziende italiane - spiega Antonio Rallo, alla guida di Donnafugata e presidente Unione Italiana Vini - da trasformare in punto di forza .Un caso particolare è quello della Sicilia, dove brand aziendali affermati, comprendendo l’importanza del traino del territorio, data la sua notorietà, ci hanno investito. In un territorio non certo noto principalmente per il vino hanno dato vita alla Doc regionale Sicilia. Una Doc che ha dato impulso alla quota di vino imbottigliato e alle esportazioni”.

Certo, non tutte le denominazioni hanno lo stesso appeal. “Nel mio caso - racconta Matilde Poggi, presidente Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti - sono riuscita a entrare sul mercato statunitense non per la notorietà del Bardolino, ma perché il mio vino è fatto in vigna. Nell’ambito di alcune Doc esistono differenze notevoli tra i prodotti che penalizzano la percezione della denominazione”. Comunque, dalla Sicilia all’Alto Adige, l’Italia può accompagnare al vino il territorio, con tutto ciò che esso offre, dall’arte, alla cucina, dalla storia alle bellezze naturali.

“Il binomio vino e territorio - ha ricordato Raffaele Boscaini, presidente della griffe dell’Amarone Masi - è un assioma. Il vino che interpreta il territorio è vincente. Un marchio forte si accompagna sempre a un marchio collettivo forte. Tanto più importante è quest’ultimo tanto più prevale sul brand aziendale. La forte identità del prodotto, il rigore dei disciplinari e dei controlli, la libertà di espressione della marca a vantaggio del marchio collettivo costituiscono opportunità per le denominazioni sui mercati esteri. Tuttavia il sistema delle Dop deve tutelare il prodotto e non i produttori”.

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