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Barolo e Brunello, i due alfieri del vino italiano nel mondo, allo specchio, con la zonazione al centro: se in Langa è una realtà più che secolare, codificata ormai dal 2010, a Montalcino l’iter è in stand by, e l’argomento continua a dividere

Italia
La zonazione secondo i produttori di Barolo dove è realtà dal 2010, e di Brunello di Montalcino, dove è ancora un’ipotesi

Quella della zonazione è, per sua natura, materia complessa e scivolosa, ma sempre attuale, sia in quei territori in cui è già stata codificata, come Barolo, sia dove il confronto è ancora agli inizi, e sembra fare una certa fatica a spiccare il volo, come Montalcino, patria del Brunello. Certo, tra i due alfieri dell’enologia rossista italiana nel mondo, insieme sotto il tetto comune dell’evento “BaroloBrunello”, una scommessa diventata punto di riferimento per tutti i wine lovers del Belpaese, ci sono differenze importanti, che WineNews ha voluto provare ad analizzare. Le zone di produzione del Barolo, infatti, sono note da oltre un secolo, e di toponomi come Cannubi, Brunate, Cerequio, Monfalletto si trova traccia già nel XVIII secolo. Il primo studio sulla zona di produzione di Barolo e sulle uve Nebbiolo, però, è datato 1879, è la “Monografia sulla Viticoltura ed Enologia della Provincia di Cuneo” di Lorenzo Fantini, mentre nel 1927 il professor Ferdinando Vignolo-Lutati, originario di Castiglione Falletto, fece riferimento, per la prima volta, alle due macro aree in cui si suddivide, geologicamente, il territorio del Barolo: il Tortoniano e l’Elveziano, sottolineando come “... la varia costituzione geologica e litologica, colla diversa composizione mineralogica del suolo, determina un ambiente che edaficamente può essere assai mutevole anche in una limitata regione e capace di agire in vario senso sulle caratteristiche del prodotto, uva e vino, di uno stesso vitigno”. Molti anni dopo, nel 1985, arrivò la famosa mappa delle sottozone pubblicata da Renato Ratti, cui seguì, nel 1990, l’“Atlante delle grandi vigne di Langa” di Slow Food editore, basi scientifiche per la zonazione entrata in vigore ufficialmente nel 2010, e codificata nelle mappe firmate da Alessandro Masnaghetti: 181 “Menzioni Geografiche Aggiuntive”, che raccontano le differenze di un territorio frazionato tra 11 comuni, ma che non rappresentano, comunque, un punto di arrivo.
“Quello della zonazione a Barolo - racconta a WineNews Alfio Cavallotto, vigneron a Castello di Falletto - è stato un iter durato un secolo. Il Barolo classico veniva prodotto da uve provenienti da vigneti diversi, messe insieme dai commercianti, perché i primi imbottigliatori, all’inizio del Regno d’Italia, erano i commercianti, per i quali era fondamentale conoscere la provenienza delle uve, così da trovare un equilibrio, ad esempio, tra quelle provenienti da La Morra, più eleganti, e quelle di Serralunga, più potenti, e così via. Nasce da qui l’esigenza di dare un nome ai vigneti migliori, mentre nel secondo dopoguerra i contadini hanno smesso di vendere le uve, cominciando a dare un nome, negli anni successivi, ai propri vini, prodotti dai vigneti di proprietà, da cui prendevano il nome. Fu una vera e propria rivoluzione per il tempo: la zonazione vera e propria inizia allora, si realizza con le prime etichette negli anni Sessanta, ma l’iter è stato lunghissimo, il lavoro vero e proprio è iniziato a metà anni Ottanta, ed è durato fino al 2010 in maniera serrata. È stato molto difficile mediare tra i diversi interessi, riuscire a mantenere i reali confini dei singoli vigneti e tradurli in un’etichetta. Molti cru, purtroppo, si sono allargati, altri sono stati creati all’ultimo minuto, però siamo riusciti a fare un bel lavoro, diciamo che il 75% del percorso è compiuto, in futuro spero che i cru storici possano essere riportati a quello che erano originariamente, speriamo che si possa fare. Per chi - conclude Cavallotto - deve ancora farla, sappia che è un lavoro che sembra semplice, ma nell’atto pratico è difficilissimo, mette in campo interessi e visioni diverse, tra cui è necessario mediare, ma si può fare”.
Per Fabio Alessandria, a capo della griffe Burlotto, ci sono diversi punti in comune tra Barolo e Brunello, “due vini con una storia simile, profondamente legati al vitigno e ad una storia produttiva di assemblaggio tra uve di diverse vigne. A Barolo il lavoro di delimitazione è stato lungo, adesso stiamo portando avanti uno studio di caratterizzazione, per codificare queste vigne. Difficile dire quale sia la strada giusta, come azienda le seguiamo entrambe, non vogliamo perdere la nostra storicità di Barolo che nasce da vigne diverse, ma è bello anche aprire una bottiglia di cui sai esattamente l’origine e le caratteristiche”.
“Sono dell’idea che la zonazione, al momento, sia un aspetto positivo per il mondo del Barolo, ma va ancora migliorata. Le diversità e le caratteristiche - racconta a Winenews Carlotta Rinaldi, figlia di Giuseppe, storico vigneron di Barolo - sono talmente grandi che dovremmo approfondire ulteriormente il lavoro fatto fin qui, che mi sembra un po’ lasciato a metà. Ci sono ancora zone che hanno bisogno di una visione più dettagliata dei cru. Dovremmo lavorare collettivamente e ricordandoci sempre che lavorare in una zona così, e con un vitigno come il Nebbiolo, è comunque un privilegio”. Secondo Achille Boroli, invece, “la zonazione è stata un passaggio fondamentale, almeno per la nostra azienda, che ha la fortuna di possedere 4 cru tra i più importanti di tutta l’area del Barolo. È fondamentale mantenere l’identità di queste terre anche perché a distanza di 10 metri da una vigna all’altra abbiamo caratteristiche completamente diverse, per cui, se non avessimo questa zonazione, perderemmo valore ed identità dei nostri vini”. Per Mario Cordero, direttore marketing di Vietti, azienda icona di Castiglione Falletto, è stata essenzialmente “una presa d’atto, visto che già a fine Ottocento quali fossero i grandi vigneti si sapeva già. C’è stato un periodo buio tra le due Guerre, ma dopo la Seconda Guerra Mondiale, specie dagli anni Sessanta, si è iniziato a produrre da single vineyards, e da lì c’è stato sempre maggiore interesse per indicare, anche se non ufficialmente, il nome del vigneto in etichetta. Con l’avvento delle menzioni geografiche aggiuntive, negli ultimi 10 anni, si è se non altro dato dei confini più precisi a tutta la zona: il limite è che ha appiattito un po’ i valori, mentre la storia li riconosce, ed i grandi conoscitori di Barolo sanno benissimo dove i grandi vigneti erano posizionati, ma questo non inficia la bontà della zonazione così com’è, specie per il consumatore, che ha una mappa precisa su cui individuare i singoli vigneti”.
E a Montalcino? Nella terra del Brunello di zonazione si è iniziato a parlare, timidamente, solo da qualche anno, e per ora gli studi sono limitati alla dimensione aziendale, con tanti vigneron che puntano forte su singoli vigneti capaci di regalare una distintività unica ai diversi Brunelli. Ma come la pensano i produttori? “La zonazione sarebbe un passo importante - dice a WineNews Giuseppe Gorelli, enologo e proprietario della griffe Le Potazzine - di cui si parla da tanto tempo. Al momento siamo indietro, ma pare che la volontà ad andare avanti, da parte di molte aziende, ci sia. Sarebbe un modo per rendere evidenti le peculiarità di ogni vino, dall’eleganza alla struttura, da un punto di vista caratteriale: ogni zona darebbe un’identità precisa. Non credo ci siano difficoltà reali nel fare la zonazioni, l’ostacolo è semmai far capire ad ogni singolo produttore il risultato che un percorso del genere può portare, ossia arrivare a capire esattamente se e come Montalcino è diviso nelle quattro macroaree da cui nascono Brunelli così diversi”.
Sulla lentezza con cui procedono i lavori è critico il Conte Francesco Marone Cinzano, proprietario di Col d’Orcia, che spiega a Winenews: “ho sentito tante versioni, c’è chi dice che non siamo in Francia, ma io credo che ormai siamo arrivati ad un livello di riconoscimento internazionale per cui possiamo guardare ai prossimi 100 anni, a come interessare gli appassionati del vino nel futuro. Noi da quest’anno, con l’annata 2011, abbiamo deciso di puntare su un toponimo, vigna Nastagio, così come ci hanno indicato i padri fondatori nel disciplinare del 1966, in cui ci invitavano ad usare gli antichi podere, a sfruttare le condizioni pedoclimatiche del nostro territorio. Credo che sia la strada da perseguire, iniziando da un catasto dei toponimi, considerando che alcuni sono già in uso, e gli altri potranno diventare poi oggetto di dibattito e di confronto tra i produttori. Montalcino - conclude Marone Cinzano - è un territorio vario, facciamo che queste differenze ci uniscano”.
Tra le voci critiche si iscrive invece Riccardo Illy, imprenditore friulano da anni a capo di Mastrojanni, secondo cui “tra Brunello e Barolo ci sono tante differenze: qui, diversamente da Barolo, esistono delle sottozone implicite, il comune di Montalcino è quadrato, e le sottozone sono praticamente i quattro quadranti che vi si possono inscrivere, però non hanno una loro denominazione storica, quindi da questo punto di vista mi sembrerebbe una forzatura. D’altro canto, la tendenza mi sembra quella di puntare sui cru aziendali, e quindi sui nomi della singola vigna: da uomo di marketing mi domando che cosa passi poi al consumatore che si trova di fronte al nome dell’azienda, a quello della denominazione ed eventualmente a quello della vigna se aggiungessimo anche quello della sottozona, il rischio è che si crei solo confusione. In ogni caso, da soci del Consorzio, ci atterremo alle decisioni della maggioranza”.
“Quello della zonazione è argomento serio, che ci deve coinvolgere tutti. C’è - ricorda Alessandro Mori, che proprio con un cru, il Madonna delle Grazie, ha portato il Brunello 2010 de Il Marroneto a guadagnare i 100/100 del magazine Usa “Wine Spectaror” - un progetto ben avviato del Consorzio del Brunello, rimasto però in un cassetto fermo da tempo. Personalmente, ci ho sempre creduto molto, la collina di Montosoli, ad esempio, è un punto identificativo importante, così come il Canalicchio. È un passo che dobbiamo fare, anche se tanti produttori hanno deciso di acquistare in zone diverse da quella in cui lavorano, e quindi diventa difficile identificare un vino come tipico di una determinata zona. Ci sono peculiarità che appartengono a determinate zone, come l’eleganza dei vini prodotti nella vallata nord, dove sono io, ed è bello che sia così, la zonazione è doverosa”.
Decisamente possibilista, infine, Francesco Ripaccioli, alla guida di Canalicchio di Sopra, secondo cui “la zonazione approfondirebbe la conoscenza del nostro territorio. Zonazione è una parola che a volte fa paura, perché confusa con classificazione, è questo il limite alla sua accettazione tra i produttori. Del resto, a Montalcino è già una realtà, ci sono zone profondamente diverse, che esprimono vini diversi, e questo è un valore, metterlo in risalto con un percorso già avviato, mappando innanzitutto il territorio, come punto di partenza, credo che sia un obiettivo da portare avanti, in maniera seria, con una logica di conoscenza e non di classificazione. La scelta di classificazione Montalcino l’ha già fatta, quando ha deciso, nel 1999, di fermare la produzione di Brunello a 2.000 ettari: quella è la nostra prima classificazione, in quei 2.000 ettari ci sono i cru di Montalcino, da individuare per dare ancora più appeal al territorio”.

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