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La “Legge di purezza della pasta” compie 50 anni di garanzia d’eccellenza, celebrati da Aidepi con una campagna sull’arte dei pastai e qualche consiglio su come riconoscere la pasta di qualità, il piatto preferito da un italiano su due

Non Solo Vino
La “legge di purezza della pasta” compie 50 anni di garanzia d’eccellenza, celebrati da Aidepi con una campagna sull’arte dei pastai

Che rapporto hanno gli italiani con la pasta a 50 anni dalla “Legge di purezza della pasta”? È un amore che dura nel tempo, nonostante le mode alimentari e il cambiamento degli stili di vita: infatti praticamente tutti la mangiano (99%), in media circa 5 volte a settimana per ragioni di gusto e salute, e per il 46% è l’alimento preferito da consumare ogni giorno. Il gusto (fattore primo nella scelta della pasta), la tenuta in cottura e la capacità di non rompersi quando la giriamo, sono gli elementi che costruiscono l’alchimia della pasta perfetta, individuati da un’insolita ricerca commissionata dall’Associazione delle Industrie del Dolce e della Pasta Italiane (www.aidepi.it) alla Doxa, che ribadisce la rilevanza, oltre che dell’origine delle materie prima, anche di fattori come la qualità del grano e il saper fare del pastaio.
I 50 anni della “Legge di purezza della pasta”, varata nel 1967 (L. 580/67) e unica normativa al mondo voluta dai produttori che, fissandone i limiti qualitativi (utilizzo del grano duro, contenuto proteico, eccetera), garantisce l’eccellenza del nostro piatto simbolo, sono l’occasione per i pastai italiani di festeggiare la loro arte con una campagna di informazione (www.welovepasta.it), accompagnata da questa ricerca sul consumo di pasta, che svela anche una curiosità: i veri fan della pasta stanno spostando il loro baricentro geografico verso il Centro Italia, mentre il primato prima era nel Sud e nelle Isole: qui il 45% degli italiani, soprattutto uomini, mangiano la pasta tutti i giorni.
“I tedeschi hanno la legge di purezza della birra - dice il presidente dei Pastai di Aidepi, Riccardo Felicetti - noi italiani ne abbiamo un’analoga sulla pasta. Da sempre in Italia la pasta si ottiene a partire dalla semola di grano duro, l’unica ad avere quella tenacità che permette di tenere la cottura e di restare sempre al dente. A tutela e difesa della nostra qualità, questa tradizione è diventata legge 50 anni fa. Da allora chiunque in Italia produca pasta destinata al mercato nazionale si impegna ad usare impasti preparati esclusivamente con semole (o semole integrali) di grano duro ed acqua, senza ricorrere ad alcun additivo. Altrove non è così: in molte parti del mondo si usa il grano tenero, che dà una pasta diversa per consistenza e tenuta in cottura. Ma ci sono anche altri limiti a garanzia della qualità del nostro prodotto simbolo. Per esempio, il colore, o il livello minimo di proteine e la qualità del glutine per trattenere l’amido e permettere quindi la proverbiale tenuta “al dente”. Per la legge di purezza, nella pasta italiana, il tenore proteico deve essere almeno il 10,5%. Ma i valori della pasta italiana sono decisamente più alti”.
Ma quando scegliamo la nostra pasta, in base a cosa lo facciamo? Per riconoscere la pasta buona gli italiani mettono al primo posto il fatto che la pasta resti al dente e tenga bene la cottura (77%), poi pensano conti che sia fatta con grano di qualità (68%) e infine che si leghi perfettamente al sugo giusto (60%), creando quel capolavoro di gusto che crea il nostro piatto nazionale. Una curiosità: la pasta al dente piace di più alle donne tra i 35 e i 54 anni, che vivono nel Centro Italia e nel Nord Est (meno nel Sud e nelle Isole). Se interrogati invece sull’origine (italiana) del grano, qualità del grano (indipendentemente dall’origine) e saper fare dei pastai, i nostri connazionali mettono tutti e tre fattori più o meno allo stesso livello, con livelli di voto (da 1 a 10) che vanno da 8,4 a 8,9 per ciascuno dei 3 fattori.
Se fosse un derby, la pasta liscia perderebbe… 66 a 8. Sono infatti queste le percentuali degli italiani che pensano che la tipologia di pasta sia importante e che scelgono, sempre in base al loro gusto, rispettivamente quella rigata o quella liscia. Mentre per una quota minoritaria (17%) la tipologia conta e perciò sono disposti a puntare su pasta liscia o rigata in base alla ricetta. I fan della pasta rigata sono in particolare donne (35-54 anni) che vivono nel Centro Italia o nel Nord Est.
Per quanto riguarda il portafogli, gli italiani non pensano che a un prezzo più alto corrisponda necessariamente una pasta più buona: se 1 italiano su 3 ritiene che il rapporto esistente tra prezzo e qualità sia costante (più costa più è buona), il 41% dice di non percepire grandi differenze e il 22%, addirittura, di trovare più buona quella che costa meno. Invece l’incubo peggiore per gli italiani che preparano la pasta è l’operazione di girare la pasta durante la bollitura, che nasconde le insidie maggiori (che “si rompa”, 66% o che “si attacchi”, 59%); molti però temono anche che i tempi indicati sulla confezione siano sbagliati (37%), che condendola risulti esserci poco sugo (36%) o addirittura che la porzione sia insufficiente (32%).
Secondo Riccardo Felicetti: “questa ricerca dimostra che per gli italiani la pasta è ancora una cosa seria. Ma il dibattito sulle materie prime rischia di far perdere di vista l’operato di chi, da secoli, le lavora con maestria e offre a tutti gli appassionati un prodotto che tutto il mondo ci invidia. Vogliamo rimettere al centro dell’attenzione questa sapienza tramandata da generazioni aprendo le porte dei nostri pastifici, per far capire agli italiani tutta la passione, la sapienza, la ricerca, i test sensoriali e di laboratorio, insomma tutto quello che sta dietro una forchettata di spaghetti. Un consumatore informato è anche più attento e consapevole”.

 Focus: la lavorazione della pasta sulla tenuta “al dente” in 5 punti

1. Grano, duro di nome… e di fatto
Tutto inizia dal grano duro, l’unico con cui in Italia si può fare e commercializzare la pasta. Che è “duro” di nome e di fatto: a differenza del grano tenero, la sua struttura è vitrea e non farinosa, il suo impasto non è troppo estensibile ma resta molto tenace. Proprio per questo, fin dall’antichità, la sua lavorazione non è quasi mai stata manuale ma realizzata con l’ausilio di macchine e strumenti. Facendo della pasta un prodotto in un certo senso “industriale” fin dalle origini, o quasi. L’evoluzione dei macchinari nei secoli (gramola a stanga, ingegno, torchio a trafila o idraulico, pressa meccanica continua…) racconta l’arte del pastaio e la complessità di un processo produttivo in cui i dettagli fanno la differenza.

2. Un impasto omogeneo e ben idratato
Idratazione, essiccazione e nuovamente idratazione. Semplificando all’estremo, dal pastificio alla tavola la pasta attraversa queste tre fasi, tutte determinanti per la sua tenuta in cottura. La prima idratazione avviene impastando acqua e semola. Assorbendo acqua, si forma il reticolo glutinico, che trattiene l’amido e assorbe fino al 200% del suo peso. Un’idratazione buona e uniforme è fondamentale per ottenere un prodotto finito di qualità. In questa fase entrano in gioco tenore e elasticità del glutine, il contenuto proteico, le dimensioni delle particelle di semola (più sono grandi, più lento l’assorbimento di acqua), la temperatura dell’acqua per l’impasto (quella ottimale è di circa 35°C). Per rendere l’impasto omogeneo e togliere tutta l’aria, l’impasto avviene in due fasi e l’ultima si realizza sottovuoto. In questo modo le particelle di semola più piccole, con un eccesso di acqua, andranno più facilmente a contatto con quelle più grandi, che ne sono in debito. Inoltre l’aria nell’impasto lo renderebbe grigiastro e formerebbe bollicine bianche.

3. Forme uniformi della trafila
Poi l’impasto viene compresso e spinto in modo uniforme e con la pressione giusta sulla trafila. Un impasto con la giusta consistenza, compatto e senza grumi mantiene il reticolo proteico più ordinato e uniforme. Proprio come una rete da pesca a maglie strette e senza buchi. Per questo quando troviamo nella confezione un fusillo o una penna di dimensioni diverse, vuol dire che durante il processo produttivo l’impasto non è stato spinto in modo omogeneo attraverso la trafila. Se poi lo spessore della pasta non fosse omogeneo, avremo zone più idratate e altre più dure. Un difetto che la pasta rivelerà in cottura, lasciando una spiacevole sensazione alla masticazione. E un pasto meno digeribile.

4. La graduale eliminazione dell’acqua
Quando passa attraverso la trafila, la pasta ha ancora un’umidità pari a circa il 30%, ma per essere messa in commercio deve calare al di sotto del 12,5% per legge. Un essiccamento perfetto deve essere uniforme su tutta la superficie e soprattutto tra esterno e interno della pasta, per evitare che poi si rompa nel pacco o in cottura o che resti poco tenace in bocca. È un processo di durata variabile e in più momenti, intervallati dalle cosiddette pause di rinvenimento, durante le quali le molecole d’acqua hanno il tempo di ridistribuirsi all’interno del prodotto. È un’operazione critica in quanto un essiccamento non uniforme, se troppo rapido, può favorire deformazioni e fessurazioni della pasta; se troppo lento, può invece determinare che la pasta inacidisca o ammuffisca.

5. Cosa succede alla pasta quando la buttiamo in pentola
Durante la cottura, l’acqua penetra progressivamente nella pasta (che infatti diventa via via più molle). L’ebollizione fa sì che la pasta si muova continuamente e quindi venga colpita dall’acqua in ogni suo punto. Amido e proteine subiscono due trasformazioni opposte e quasi contemporanee. L’amido si rigonfia, aumentando di volume, gelatinizza e, disaggregandosi, si solubilizza. In questa fase riesce ad attraversare il reticolo proteico e fuoriuscendo in parte dalla pasta. Lo vediamo quando l’acqua di cottura diventa meno trasparente, facendosi via via più torbida tanto maggiore è la quantità di amido “fuggito”. Fortunatamente, alle proteine accade il fenomeno opposto. La loro progressiva coagulazione “stringe le maglie” del reticolo glutinico e scherma l’amido all’interno della struttura. La prevalenza dell’uno o dell’altro fenomeno cambia tutto. Una piccola fuoriuscita di amido aiuta la pasta a legarsi con il sugo. Ma se eccessiva la rende collosa e scotta.

Focus: Pasta al dente crash test: 8 prove che puoi fare anche a casa
1. Pasta, qualità “a prima vista” (e prima di buttarla in pentola)
Una pasta di qualità si può giudicare anche quando è cruda. Dal colore giallo ambrato omogeneo, senza puntini chiari o scuri e dal suono secco che sprigiona quando la si spezza.
Prendiamo la pasta e osserviamola attentamente: se l’essiccamento non è stato condotto nel modo corretto, sulla pasta si possono notare delle sostanze di color rosso bruno, che penalizzano la cottura. O la cosiddetta bottatura, striature biancastre che penetrano in profondità e indeboliscono la struttura aumentando il rischio di rotture o fessurazioni del prodotto in cottura. La presenza di puntini bianchi sulla superficie è indice di una non perfetta idratazione della semola, mentre se i puntini sono neri è segno della presenza di frammenti di crusca non eliminati in macinazione o di particelle di semola derivanti da cariossidi (chicchi di grano) scure.

2. In cottura, controlla la limpidezza dell’acqua
È opaca? È trasparente? Un’acqua poco torbida in cottura è segno di una pasta di qualità, che limita il rilascio dell’amido. Garanzia di una tenuta in cottura ottimale.

3. Cruda o cotta, la forma non cambia
Prova a controllare l’elasticità, la capacità della struttura di riprendere e mantenere la sua forma originaria. Per esempio, il pacchero si “siede” oppure no? Lo spaghetto mantiene il nervo anche quando è all’onda oppure si ammassa? Questa caratteristica è sintomo di un glutine di buona qualità e di una pasta che si è reidratata in modo omogeneo.

4. Fuori cotta, dentro cruda? No grazie!

Se sotto ai denti non si presentano zone molli (l’esterno) e dure (l’interno), allora la pasta è stata lavorata a regola d’arte e da ottime materie prime. La sua cottura è omogenea e il gradiente d’idratazione, passando dall’esterno all’interno del prodotto, è molto basso.

5. La resa nel piatto, ovvero quanto sei (ancora) bella pasta

Quanti pezzi restano integri dopo la cottura e quanti si sono fessurati o sfaldati? Quanti sono incollati tra di loro, quanti poco cotti? Va da sé che maggiore il numero di “pezzi” difettati, minore sarà la qualità della pasta e la sua tenuta al dente.

6. I test sotto sforzo per misurare il “nervosismo” della pasta

La pasta, più è nervosa, meglio è. Il nervo è lo sforzo che occorre per tagliare con i denti la pasta, la sua resistenza al taglio, l’elasticità e la capacità di mantenere queste performance in condizioni di stress (come l’extracottura o l’attesa del servizio) sono caratteristiche fondamentali per capire se una pasta è di qualità.

7. L’extra-cottura, a prova di cuochi distratti

Un classico dei test di laboratorio della pasta è stressarla con l’extracottura. Perché più aumenta la durata della cottura, tanto più diminuiscono tutti gli indici di qualità. Per prima cosa va identificato il Tempo Ottimale di Cottura, cioè il momento in cui la parte centrale della pasta (l’“animella” bianca) si idrata e perde il suo colore biancastro. È quello che troviamo scritto sulla confezione. L’animella si può visualizzare nel prodotto cotto schiacciando un filo di spaghetti tra due pezzi di plastica trasparente (test del vetrino) o tagliando un formato corto evidenziandone la sezione (test del coltello). Poi si mantiene il prodotto in cottura per il 25%-30% in più (2-3 minuti). In questo modo si prova quanto la pasta è in grado di sopportare errori e distrazioni quando cuciniamo. Come quella telefonata o quella chat a cui non si è stati in grado di rinunciare…

8. Pasta in apnea: quanto è buona se la dimentichiamo nel piatto 5-10 minuti?

Infine i valori di nervo e patinosità si verificano anche sulla pasta scolata e “dimenticata” circa 5 minuti nello scolapasta o 10 minuti nel piatto, per testare quanto a lungo sa rimanere ancora buona nel piatto o nel vassoio, diventando quindi un parametro di valutazione tra i più importanti per il settore della ristorazione.

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