In futuro, il cibo, come tutto il resto delle merci, si acquisterà sempre più online, e se crescerà il peso di alimenti alternativi e “novel food”, le eccellenze del made in Italy saranno un must, anche nel 2050, quando almeno un abitante della Terra su 10 nel mondo mangerà italiano. Sono gli atout che emergono dall’Assemblea delle Cooperative italiane, oggi a Roma, dove Giorgio Mercuri è stato rieletto presidente di Confcooperative FedAgriPesca (con le federazioni dell’agricoltura e della pesca che si sono unite sotto un unico cappello), che mette insieme 3.300 cooperative agricole, agroalimentari e della pesca, con oltre 430.000 soci, per un fatturato di 29 miliardi di euro.
Dalla ricerca sul futuro della catena alimentare posto 2020, presentata da Antonio Villafuerte Martin, dell’Istituto International San Telmo, emerge che il cibo del futuro dovrà fare bene alla salute di chi lo mangia, ma anche a quella del pianeta, perché oggi un terzo dell’energia del pianeta è utilizzata nella filiera alimentare, il 70% dell’acqua potabile viene utilizzata in agricoltura e allevamento; il 24% delle emissioni totali di gas serra proviene dall’agricoltura e allevamento. E nei prossimi decenni l’agricoltura sarà chiamata a produrre e sfamare un numero crescente di abitanti. Lo potrà fare solo consumando meno acqua e riducendo il suo impatto sulle risorse del pianeta.
La consapevolezza che le risorse del pianeta siano limitate ormai è sempre più diffusa non solo tra i consumatori, ma anche tra le aziende che producono cibo. E in tale direzione vanno le stesse scelte strategiche dell’Europa nella ridefinizione dell’impianto normativo della nuova Pac. Anche la cooperazione agroalimentare sta investendo molto nella sostenibilità ambientale. Secondo il centro Studi Confcooperative, 7 cooperative agroalimentari su 10 sono impegnate in progetti di sostenibilità ambientale; 1 su 2 investe in risparmio d’acqua ed energia elettrica; 1 su 3 in tecnologie rispettose dell’ambiente; 1 su 4 è indirizzata verso il riutilizzo dei materiali (biomasse e scarti industriali). Pure nella pesca la parola d’ordine è sostenibilità: per 2 cooperative su 3 questo è già realtà, con l’utilizzo di tecniche di pesca e allevamento a basso impatto, con l’impiego di attrezzi da pesca sempre più selettivi o con la riduzione volontaria delle giornate di pesca per non stressare le risorse e valorizzare le produzioni. I pescatori sono sempre più sentinelle dei mari, chiamati a ripulire i fondali da plastiche o immondizia. Lo spreco degli acquedotti italiani invece ammonta a 2,8 milioni di metri cubi al giorno: in un anno, in media, perdono il 40% della portata d’acqua con punte del 77% in alcuni capoluoghi del centro sud (Snpa - Sistema Nazionale Protezione Ambiente).
I consumatori del futuro saranno sempre più alla ricerca di prodotti sani e sicuri, ma allo stesso tempo tenderanno a consumare dei pasti non più solo per il proprio piacere o perché fanno bene, ma scegliendo anche cibi che non danneggino il pianeta, senza cioè avere sensi di colpa verso il mondo. Un altro grande must per il cibo del futuro sarà la trasparenza informativa verso i consumatori, che saranno sempre più attenti alle caratteristiche dei prodotti che portano sulle proprie tavole.
La riduzione degli sprechi è un’altra parola d’ordine di questi anni che vede impegnati su più fronti istituzioni, aziende, catene distributive e di ristorazione e consumatori. L’Instituto San Telmo ha anche diffuso alcune proiezioni elaborate dalla Fao, secondo la quale oggi nel mondo viene gettata via il 45% della frutta, il 20% della carne, il 30% dei cereali, il 35% del pesce. Non solo: negli oceani ci sono 5 miliardi di pezzi di plastica e se non facciamo nulla, entro il 2050 ci saranno più materie plastiche che pesci. Nei prossimi anni aumenterà la sensibilità sul problema dell’utilizzo della plastica, sia presso gli operatori della produzione che in quelli della distribuzione, e si continuerà a lavorare per ridurre gli imballaggi e gli sprechi alimentari.
Nel cibo del futuro sarà sempre più determinante il giudizio dei Millenials che, secondo una ricerca dell’Instituto San Telmo, sono sempre connessi (più del 60% confronta i prezzi in negozio usando i propri dispositivi mobili). I Millennials non si fidano della pubblicità (solo l’1% si fida di quanto riportato dagli annunci televisivi), dal momento che le loro principali fonti di informazione sono le recensioni online di amici e altri clienti, i social media e i blog, che vengono esaminati dal 33% dei Millenials prima dell’acquisto). I Millenials continueranno anche in futuro ad essere sempre più informati, già oggi sanno molto di più sui prodotti rispetto alle generazioni precedenti, anche se la veridicità delle informazioni che circolano sul web non sempre è attendibile.
Ma sul cibo e le scelte alimentari incombe il rischio delle fake news sui social. L’Instituto San Telmo stima che il 30% delle “notizie false” nei social media si riferisce all’alimentazione e che una percentuale pari al 60% dei consumatori che riceve quest’informazione cambia opinione su un prodotto. Va ad ogni modo evidenziato che Facebook è il social media ritenuto più efficace dalle aziende di e-commerce italiane: secondo l’indagine sull’e-commerce della Casaleggio Associati, il 71% del campione lo giudica efficace o molto efficace, Instagram è al secondo posto, con il 49%, ma è il social che registra la crescita più importante in termini di popolarità (nel 2016 era al 37%).
Nondimento, il cibo sarà sempre più acquistato online. L’acquisto di prodotti alimentari sul web conoscerà nei prossimi anni una crescita significativa. Secondo un rapporto realizzato in America da Nielsen e dal Food Marketing Institute, entro il 2025 lo shopping online di generi alimentari rappresenterà circa il 20% del mercato totale, una quota pari a 5 volte quella attuale, arrivando a generare complessivamente un giro d’affari vicino ai 100 miliardi di dollari e un tasso di penetrazione pari al 70% dei consumatori americani. Anche in Italia la spesa online del cibo è in forte crescita: secondo il recentissimo studio E-commerce in Italia 2018 (Casaleggio Associati, maggio 2018), oggi il commercio online dell’alimentare vale circa 700 milioni di euro - una quota pari al 2,7% del totale e-commerce in Italia che ammonta a 35,1 miliardi di euro - ma è il comparto che presenta una maggiore prospettiva di crescita (è previsto un aumento del 43% in un solo anno).
Questo non vuol dire la fine dei negozi tradizionali. Sembrava una evoluzione scontata, ma adesso c’è chi comincia a pensarla diversamente. Secondo una tesi sviluppata nel libro dal titolo, profetico e provocatorio insieme, La fine dello shopping online. Il futuro del commercio in un mondo sempre connesso (Wijnand Jongen, Hoepli, 2018), in futuro i giganti dell’ecommerce non potranno fare a meno di dotarsi di luoghi e reti fisiche, che non saranno più da intendersi come tradizionali luoghi d’acquisto, bensì come degli spazi in cui si fa “l’esperienza” d’acquisto (si prova una merce all’interno di showroom), oppure come veri e propri punti logistici di consegna e ritiro. I classici punti vendita del passato, anche di ipermercati e supermercati, tenderanno a trasformarsi in piattaforme e reti distributive. Nascerà, scrive l’autore, “un nuovo paradigma economico: la vendita onlife, dove online e offline diventano una cosa sola” con i clienti che “potranno completare online l’esperienza di acquisto che hanno cominciato a casa o in viaggio, in un negozio fisico o in un virtuale”. I punti di prelievo, dove i consumatori possono ritirare i loro ordini eseguiti online o restituirli, saranno sempre più apprezzati dai consumatori perché hanno il duplice vantaggio di eliminare il costo della consegna e i tempi di attesa per il corriere.
Lo stesso fondatore e presidente di Alibaba Jack Ma ha dichiarato che persino “l’e-commerce puro diventerà un business tradizionale e verrà sostituito dal concetto di New Retail: l’integrazione di online, offline, logistica e dati in un’unica catena di valore”. Di certo cambieranno le esigenze di una agricoltura che deve fare conto anche con una popolazione mondiale che umenta, e in cui sono più di 800 milioni le persone che soffrono la fame e sono malnutrite. E una delle possibili risposte passa anche attraverso i cosidetti “novel food” a base di insetti, alghe e non solo.I terreni destinati alla coltivazioni non possono aumentare a dismisura, né risorse come l’acqua potabile possono considerarsi inesauribili. Per garantire cibo a tutti i futuri abitanti del pianeta è necessario non solo affermare un nuovo modello di agricoltura e di allevamento sostenibile, ma anche introdurre nell’alimentazione umana nuovi alimenti come insetti e alghe. Non è un fantascienza. Oggi il 40% del raccolto mondiale è destinato alla produzione di proteine animali o di biocarburanti. Se le attuali coltivazioni di mais o barbatietole venissero sostituite da distese di alghe, si risparmierebbe terreno da utilizzare per produrre altro cibo. L’Unione Europea ha infatti deciso di stanziare tre milioni di euro ad ogni Paese membro che incoraggi con iniziative di vario tipo l’uso di insetti in cucina.
Insetti, e cibi stampati in 3d arriveranno sulle nostre tavole, ma secondo 9 italiani su 10 anche nel 2050 le eccellenze del made in Italy, il tagliere di formaggi e salumi, pesce e carne, pizza pasta e pane, latte e ortofrutta, saranno sempre in cima alle preferenze dei palati senza essere scavalcati dalle innovazioni gastro-etniche (San Telmo). Nel mondo 1 consumatore su 10 mangerà made in Italy. Per 4 italiani su 5 la tracciabilità e la sicurezza alimentare sono must irrinunciabili nella scelta di cosa e dove acquistare. Tra le sfide del futuro c’è quella di migliorare la resa al palato dei prodotti di quarta e quinta gamma. Obiettivo: incrementare il consumo di prodotti ittici anche di chi è frenato nell’acquisto per l’impegno richiesto in cucina nella loro preparazione.
In Italia e non solo, è in crescita la tendenza, specialmente nelle fasce più giovani dei consumatori, ad ordinare pietanze che vengono cucinate dai ristoranti e quindi consegnate a casa. Saremo sempre più al cellulare a ordinare pasti piuttosto che ai fornelli? Secondo quanto riportato nel Rapporto Coop 2017, già oggi in Italia il giro d’affari stimato del food delivery è nell’ordine del mezzo miliardo di euro, concentrato per lo più nelle grandi aree urbane grazie al successo delle diverse piattaforme dedicate per le consegne a domicilio, dalla danese Just Eat alla tedesca Foodora all’inglese Deliveroo.
E in un domani non troppo lontano potrebbero proliferare in ogni grande città le dark kitchen (cucine professionali senza ristoranti e senza posti a sedere, pensate esclusivamente per preparare piatti destinati alla consegna) potrebbe diffondersi nelle. Nel 2030, secondo un recentissimo studio della banca svizzera Ubs, il business mondiale della food delivery potrebbe passare, in una prima ipotesi di scenario, dagli attuali 35 miliardi di dollari ai 365 miliardi, in virtù di un crollo dei costi di trasporto per via del maggior ricorso ai droni (ma in un’ipotesi più contenuta, potrebbe raggiungere un business di 85 miliardi di dollari, arrivando comunque a raddoppiare il proprio business).
In ogni caso, per l’industria agroalimentare, la crescita passa dalle esportazioni. Le aziende del futuro dovranno sempre più intercettare i consumi dei Paesi emergenti poiché siamo in qualche modo saturi del mercato estero. Secondo i dati diffusi dall’Instituto San Telmo, l’80% delle esportazioni agroalimentari europee è attualmente rivolto ai Paesi sviluppati, che però saranno quelli in cui la crescita della popolazione, e di conseguenza dei consumi, sarà molto più contenuta rispetto ai Paesi emergenti. Mentre infatti il potere d’acquisto dei Paesi sviluppati passerà nel 2025 dagli attuali 26 a 34 trilioni di dollari, i mercati emergenti conosceranno una crescita esponenziale, passando da 12 a 30 trilioni di dollari.
Sulla via dell’export e dell’internazionalizzazione, però, è necessario fare più sistema. Qualcosa si è mosso rispetto agli scorsi anni, ma servono maggiori sforzi per accompagnare le imprese sia investendo su comunicazione all’estero, riuscendo a essere più presenti sugli scaffali della Gdo internazionale. Fondamentale, però, la tutela dei prodotti veramente italiani. Il mondo ha fame di made in Italy. L’Italian Sounding crea danni al nostro agroalimentare per oltre 75 miliardi di euro (Centro Studi Confcooperative). Nei prossimi 3 anni l’innovazione spingerà l’export agroalimentare di 15 miliardi di euro.
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