La Cina sta vivendo una ritrovata normalità, dopo il lockdown di inizio anno, e anche i consumi fuori casa tornano, pian pianino, ai livelli pre crisi. Una buona notizia per il vino, che guarda da anni verso Oriente, ad un mercato che, a ben guardare, fa una fatica enorme a crescere. I consumi sono ancora fermi a 1,2 litri pro capite l’anno - contro i 37 dell’Italia - ed il vino del Belpaese, nonostante i ritmi di crescita impetuosi degli ultimi anni, non si schioda dalla quota del 7% dell’import enoico totale. Il “semestre Covid” (marzo-agosto 2020) ha registrato, per le spedizioni italiane, un crollo a valore del 38%, e allora tornare a correre diventa ancora più importante, correggendo però la rotta, sia in termini di promozione che di marketing, imparando finalmente a mettersi “nei panni” del consumatore cinese, della sua cultura e del suo rapporto con ciò che mangia e beve. Una vera e propria sfida, specie adesso che la Cina si è fatta promotrice del più grande accordo di libero scambio che il mondo abbia mai visto: il Regional Comprehensive Economic Partnership, che coinvolge 15 Paesi dell’area Asia-Pacifico, in cui vivono 2,2 miliardi di persone, che generano il 30% del Pil mondiale. Accordo di cui fanno parte anche Australia e Nuova Zelanda, che già godevano, per il mercato cinese, di condizioni agevolatissime (zero dazi) da qualche anno. Argomenti, nel webinar “Mercato del vino in Cina: la nuova normalità”, organizzato da Vinitaly e moderato dal responsabile di Veronafiere Asia, Simone Incontro, cui hanno partecipato Leon Liang, ad e Wine Educator Grapea & Co, Alan Hung, ad Pacco Communication, Cynthia Yang, vice presidente Sunlon, JD.com group, e Jim Boyce, fondatore di Grape Wall.
A pochi giorni da “Wine 2 Asia”, la fiera di scena il 20 e 21 novembre a Shenzhen, la città più dinamica della Cina, da Veronafiere in partnership con il partner locale Pacco Cultural Communication, a fare il punto sul mercato cinese ed il suo rapporto con il vino italiano è Leon Liang, che nel 2019 ha organizzato più di 300 eventi promozionali nel settore vinicolo, coinvolgendo oltre 6.000 persone nella Cina continentale. Da wine educator, ha un’idea piuttosto precisa di come sia strutturato il mercato dei consumi, ma anche dei punti di debolezza del vino italiano. “La Cina negli ultimi anni ha mostrato una grande vivacità rispetto al vino, sono migliaia le persone che ogni anno seguono corsi ed educational, e il mercato dei consumi inizia a strutturarsi come quello dei Paesi più maturi. Si può segmentare sia geograficamente, con le grandi città che concentrano per intero i consumi, sia per tipologie, con i big spender che puntano ai grandi vini italiani come il Brunello di Montalcino, e chi muove i primi passi partendo dal Chianti. I giovani, invece, hanno abitudini diverse di consumo, sono i wine lover di domani, e bisogna imparare a rapportarsi a loro. Anche scegliendo modi di comunicare diversi, più diretti e semplici, che comunque vanno bene per tutti quei milioni di neofiti che, ancora, i radar delle aziende del vino non sono riusciti a captare”.
Il punto focale è sempre lo stesso: come arrivare al consumatore. “Dobbiamo trovare un modo veloce e semplice per raccontarci”, suggerisce Liang. “È più semplice arrivare al consumatore con una medaglia che raccontando il territorio da cui arriviamo. È come quando ascoltiamo una canzone alla radio, nella maggior parte dei casi è una hit da classifica, ed è esattamente ciò che ci va di ascoltare. Il problema del vino, o il suo limite, è che a differenza della moda, in cui ogni prodotto è apprezzabile e comprensibile con uno sguardo, ha bisogno di un certo livello di conoscenza per essere realmente compreso. Non si può spiegare cosa c’è dentro una bottiglia. In questo, però, l’Italia ha una grande forza, quella del proprio design, da mettere al servizio del vino e dei suoi brand. Per renderli distintivi: pensiamo al fiasco nel Chianti, ormai in disuso, ma che avrebbe avuto un impatto visivo enorme in Cina. La bottiglia, specie all’inizio, deve essere innanzitutto bella. La Francia ha un vantaggio storico, l’Australia ha investito tantissimo in promozione, ma l’Italia però ha di fronte un futuro luminoso, perché può offrire tantissimo al consumatore, in termini di piacevolezza ed esperienza. Capire quanto spesso e cosa beve la gente è fondamentale per capire di fronte a che mercato ci troviamo, e dal mio punto di vista è un mercato in rapido cambiamento. Abbiamo di fronte una generazione interessata, non dobbiamo avere paura del futuro, anche se forse non è ancora il momento di comunicare la complessità e le tante differenze del vino italiano”.
Ne viene fuori un quadro complesso, in cui c’è forse bisogno di fare un passo indietro, attraverso una comunicazione che parta dalla conoscenza reale del mercato, per farne, domani, uno in avanti, tornando a raccontare le peculiarità e la ricchezza delle produzioni italiane ad una platea più preparata. Di certo, il vino nel suo complesso di passi avanti in questi anni ne ha fatti ben pochi, come sottolinea nella sua analisi Jim Boyce, che nel 2007 ha fondato il popolare portale sul vino Grape Wall of China. “Il consumo di vino è fermo da anni in Cina, anche di quello importato, che pure rappresenta ormai il 60%. Il paragone con spirits, cocktail e persino birra è impietoso, per non parlare del Baiju. Sono spuntati come funghi cocktail bar e caffè, anche se nessuno avrebbe puntato sul caffè, si diceva che il palato dei cinesi fosse troppo lontano. Io invece non credo che le difficoltà del vino riguardino tanto, o solo, la sfera del gusto, quanto l’incapacità di rapportarsi ai consumatori. La birra era inesistente nella galassia dei consumi di 15 anni fa, o quasi. Oggi è l’alcolico più bevuto per volumi, i brand della birra sono riusciti a fidelizzare i propri consumatori con tante iniziative e un merchandising sempre divertente e intrigante. Il vino deve imparare dagli altri, anche perché di cose ne sono cambiate nel tempo, quasi tutte a suo vantaggio. Non ci sono più solo bottiglie di Bordeaux, ma da ogni angolo del mondo sugli scaffali dei negozi, tutti hanno accesso alle informazioni, ci sono molti più soldi, la gente viaggia, fisicamente ed in rete, e la Cina è ormai aperta al mondo”.
E allora perché non assistiamo al fiorire dei consumi enoici? “Perché - riprende Jim Boyce - se il vino è sempre dietro a craft beer e spirits è perché non è mai stato in grado di mettersi nei panni dei consumatori. Non è questione di gusto, ma di trovare il modo giusto di comunicare e promuovere il vino. Com’è possibile che l’Italia, con tutta la sua popolarità, valga appena il 7% del mercato del vino importato? I giovani amano la pizza e gli spaghetti, spendono per mangiarli, e lo farebbero anche con il vino, se solo sapesse come comunicare. Mi concentro molto sulla craft beer perché partiva da zero e oggi domina il mercato. Dobbiamo partire da un presupposto: il cibo qui è importante, e la birra sta bene con tutto. Nessuno in Cina è così appassionato formaggi e vino, che invece va portato su altre tavole. E poi, il branding e la capacità di fidelizzare i clienti con messaggi semplici. Perché aiamo ancora al bianco o rosso, e invece di focalizzare tutti gli sforzi sui 50 milioni di wine lover di oggi, dovremmo pensare ai possibili 200 milioni di domani”.
Tanto lavoro da fare per il vino italiano, forte come detto in apertura di un nuovo strumento, “Wine 2 Asia”, “la prima fiera fisica di Veronafiere post pandemia dedicata al vino, in un mercato che Vinitaly segue da tanti anni, fondamentale per il futuro del comparto, che così ha un punto di partenza, a Shenzhen, da cui partire per conoscere e crescere la Cina ed i suoi consumatori” commenta il dg di Veronafiere, Giovanni Mantovani.
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