Alla base della straordinaria qualità del made in Italy agroalimentare c’è il lavoro. Di donne e uomini: sono oltre 1 milione i lavoratori dipendenti solo in agricoltura, cui vanno aggiunti 460.000 tra lavoratori autonomi, coltivatori e imprenditori agricoli e i 380.000 dipendenti dell’industria alimentare. Numeri che fanno del settore primario una colonna dell’economia italiana, capace di resistere alla dura prova della pandemia, garantendo in questo ultimo anno l’approvvigionamento di ogni genere di prima necessità senza grandi problemi. C’è, da qualche anno, un cambiamento evidente nel lavoro nei campi: il boom delle esternalizzazioni, ossia dell’affidamento ad altre imprese dello svolgimento di alcune fasi del processo produttivo agricolo.
Niente di nuovo, o che riguardi solo il mondo agricolo, ma di certo i numeri sono importanti (+18% negli ultimi tre anni), e portano con sé dinamiche non sempre limpide (su tutte la crescita smisurata delle imprese senza terra, perlopiù cooperative di lavoro agricole, +28% in cinque anni) e nodi, specie di natura legislativa e normativa, che hanno bisogno di essere sciolti. argomenti al centro del webinar, organizzato da Confagricoltura “Le esternalizzazioni in agricoltura - Appalto di servizi labour intensive e somministrazione, rischi e opportunità”, cui hanno partecipato, tra gli altri, il presidente Confagricoltura, Massimiliano Giansanti, il direttore dell’Area Lavoro e Welfare Confagricoltura, Roberto Caponi, il Sottosegretario di Stato per il Lavoro e le Politiche Sociali, Tiziana Nisini, il presidente di Adapt, Università Lumsa di Roma, Emmanuele Massagli, il Segretario generale Fai-Cisl, Onofrio Rota, della FlaI-Cgil, Giovanni Mininni e della Uila-Uil, Stefano Mantegazza.
Come detto, accanto al tradizionale contoterzismo, che consiste nell’affidamento di una serie di lavorazioni ad un’impresa di servizi agromeccanici che li esegue con mezzi propri, si assiste allo sviluppo di altre forme di esternalizzazione (appalto) che riguardano fasi del processo produttivo meno meccanizzate, in cui prevale l’elemento umano e manuale (ad esempio la raccolta). Contestualmente, si sta diffondendo in agricoltura, e con una certa rapidità, anche la somministrazione di lavoro, fino a qualche anno fa illustre sconosciuta. “Le esternalizzazioni - spiega il direttore dell’Area Lavoro e Welfare di Confagricoltura, Roberto Caponi - riguardano principalmente tre settori: vitivinicolo, ortofrutta e allevamenti avicoli. È una tendenza del tutto normale, perché il mercato agricolo richiede sempre maggiore specializzazione, ma i motivi, come raccontano le stesse aziende, sono molteplici. La prima ragione è la difficoltà di reperire manodopera specializzata: solo il 2% arriva dagli uffici di collocamento pubblici, una criticità che non può essere trascurata. C’è difficoltà a trovare manodopera, e il picco dello scorso anno a causa della pandemia ha complicato un quadro già complesso. E poi c’è la necessità di rendere più efficiente il lavoro e di semplificare la gestione del lavoro: le aziende hanno spesso paura di incorrere in sanzioni quando assumono qualcuno, temendo di sbagliare qualcosa, incappando persino nelle strettoie della legge 199, nata per combattere il caporalato, e quindi per perseguire fini nobili, ma che ma rischia di mettere in mezzo imprese che nulla hanno a che fare”.
E il costo del lavoro? È una delle motivazioni che spingono le aziende ad esternalizzare, ma certo non la principale, perché “la necessità di manodopera in un determinato momento (dettato dalla natura e non certo dall’uomo, ndr) mette le aziende in una posizione di debolezza contrattuale. L’esternalizzazione non piace al legislatore, e lo si vede dal fatto che, ad esempio, se l’azienda a cui esternalizzo il lavoro non paga dipendenti e tributi le spese sono a carico dell’azienda agricola. Si difendono principi sacrosanti mettendo in difficoltà le aziende. Servirebbero maggiori certezze, perché se io azienda per la somministrazione mi devo rivolgere ad un’agenzia la cosa mi lascia tranquillo, ma quando si parla di appaltare un lavoro il rischio di incappare in imprese poco serie è sempre alto”, denuncia Roberto Caponi. “Servono soluzioni normative che facciano stare tranquilli i lavoratori, evitando che le imprese quando si rivolgono a questi servizi vengano criminalizzate. Alcune fasi siamo costretti ad esternalizzarle, ma l’appalto non può essere delegittimato se l’imprenditore agricolo non ha una responsabilità diretta”.
Il tema dell’appalto di servizi labour intensive, ossia attività che richiedono alto utilizzo di manodopera è delicato, come spiega il presidente di Adapt, Università Lumsa di Roma, Emmanuele Massagli, “specie nella raccolta generica, a bassa professionalità, si genera la maggior parte degli equivoci, mentre è meno problematico se la professionalità richiesta è alta e rara. Gli indici di genuinità dell’appalto di servizi labour intensive richiedono che l’impresa abbia una forma legale ma anche una sostanza: deve disporre di un potere organizzativo e direttivo sui dipendenti (il personale dell’appaltatore risponde all’appaltatore), ove si generino equivoci, in cui il committente o i suoi dipendenti danno ordini, l’appalto non è genuino. L’appaltatore, al contempo, deve essere in possesso dei mezzi che occorrono all’esecuzione del servizio (basta la disponibilità giuridica dei mezzi), ed i lavoratori non devono inserirsi nel ciclo produttivo e nel lavoro dei dipendenti”.
Serve, evidentemente, una semplificazione: regole certe e norme chiare, nel rispetto ovviamente di diritti del lavoro e del lavoratore, come rimarcano il Segretario generale della Fai Cisl, Onofrio Rota, della Flai Cgil, Giovanni Mininni e della Uila Uil, Stefano Mantegazza. Ricordando però che la legge 199 ha fatto “emergere aspetti che denunciavamo da tempo: nessuno può non essere d’accordo con la bontà della legge 199”, sottolinea Giovanni Mininni. Aggiungendo che “quella delle esternalizzazioni è una dinamica che riguarda in toto il mondo del lavoro, e non sempre avviene per risparmiare sul costo del lavoro. Il contoterzismo viene fatto perché i macchinari, molto spesso, non sono posseduti dall’imprenditore, che a volte non riesce ad acquistare. In quel caso è un’opportunità, si tratta di un fenomeno consolidato. L’altro fenomeno, che va normato e che ci preoccupa, è quello dell’avanzata delle aziende senza terra, che possono mettere a rischio un appalto che non è genuino”.
Ben più sferzante l’analisi di Stefano Mantegazza (Uila Uil): “Ben vengano le agenzie di somministrazione, strumento ordinario dell’attività di impresa, ma dentro le cooperative agricole di lavoro spesso si nasconde di tutto, dallo sfruttamento in giù. Sono la metà di tutte le cooperative agricole, e crescono a velocità vertiginosa. Quelle buone sono cooperative che durano negli anni, quelle meno buone scompaiono ciclicamente, in tempo per evitare sanzioni fiscali o altro. È qui che dobbiamo lavorare, e se le sanzioni sono l’ultimo fronte dobbiamo fare qualcosa prima. Inps, in primis, deve fare qualcosa: le cooperative devono avere una serie di caratteristiche, come mezzi propri e un struttura aziendale adeguata. si costituisca un albo delle cooperative: se una cooperativa appena nata assume 500 persone, forse l’autorizzazione si potrebbe non dargliela, distinguendo tra i pirati e chi lavora bene. Questo è un tema, su cui credo si possa fare molto e velocemente, in un Paese che ancora convive con il lavoro nero e 200 miliardi di euro di economia sommersa, in cui l’agricoltura che ha un ruolo importante. È del tutto evidente - aggiunge Mantegazza - che qualsiasi prestazione di servizio sia più costosa dell’assunzione diretta. Qualsiasi contratto a cifre inferiori nasconde qualcosa che non va: una lente di ingrandimento sulla genuinità degli appalti lo può mettere facilmente in evidenza. Il tema degli appalti non genuini porta un doppio dumping, nei confronti delle aziende che lavorano bene e delle altre aziende agricole che non si rivolgono a imprese o cooperative truffaldine, e poi ovviamente ci sono conseguenze sui lavoratori. Un contratto di appalto ad un costo troppo basso porta a storture come troppe ore lavorate e niente contributi”.
A fare la sintesi, è il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti. “Chi ha un’impresa deve saperla organizzare. Dal campo alla tavola siamo il primo settore dell’economia nazionale. Nel 1990 eravamo nel mondo c’erano 5,3 miliardi di abitanti, oggi 7,8 miliardi, siamo destinati a raddoppiare, ma la superficie arabile no, per cui ci vuole maggiore organizzazione degli aspetti produttivi, perché il nostro compito è sfamare i cittadini del mondo. Non possiamo offrire cibo ad altissimo prezzo, ma dobbiamo comunque generare il giusto reddito. Sono obiettivi ambiziosi, possibili solo se avremo al nostro fianco personale qualificato e altamente formato. Lo dico con chiarezza: le parti sociali hanno trovato forme di accordo a volte sostituendosi allo Stato. La legge 199 non è scritta male, ma è migliorabile. Dire che un lavoratore su tre in agricoltura è sottopagato, però, è una forzatura. Vedo la voglia di avere un futuro chiaro e certo e con norme adeguate. Nelle imprese agricole il rapporto tra imprenditore e collaboratore va oltre il contratto, tutti noi lavoriamo al fianco dei nostri dipendenti, non siamo capitani d’industria”.
Però, non si può neanche dire che “stia funzionando tutto al meglio”, riprende Giansanti. “La stella polare è il contratto collettivo nazionale, che non è solo un numero, e il prossimo sarà fondamentale. Girando le campagne vedo come ci sia la necessità di rispondere alle esigenze delle imprese che, con la sfida climate change, vivono momenti di difficoltà. La crescita delle cooperative senza terra è una sconfitta per tutti. Finita la pressione pandemica molti italiani sono rimasti in campagna, dove sta nascendo un nuovo modello agricolo, basato sull’innovazione. Genetica, meccanica, chimica e adesso il digitale, per lavorare meglio e in sicurezza. Il lavoro, almeno in casa Confagricoltura, è un tema serio, non accettiamo strumenti di dumping interno, che danneggiano la competititvità delle imprese. Ci muoviamo dentro le regole. Mettiamo al centro la qualificazione del lavoro in agricoltura, attraverso Enti Bilaterali e Contratto Collettivo Nazionale, per cui passa il futuro delle aziende agricole. Ma con una postilla al Governo - conclude il presidente di Confagricoltura - ossia che sia al centro di una riflessione, perché da qui passa il futuro del made in Italy, non è normale che il settore non sia stato neanche convocato un anno fa per la stesura dei protocolli anti Covid. Siamo tutti d’accordo sulla lotta al caporalato, ma dentro la 199 ci sono elementi da migliorare per dare certezze agli imprenditori: per noi il valore della terra è un valore etico”, chiosa Giansanti.
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