Italia - Inghilterra, questione di feeling ... e di prezzo. Lasciamo da parte le facili metafore calcistiche, perché il Belpaese e la tutt’altro che perfida Albione, da qualche decennio regna un rapporto che potremmo definire di reciprocità. Specie quando si parla di vino, che al di là della Manica ha visto fiorire nei secoli il più fiorente mercato al mondo, superato solo in epoca recente da quello statunitense. Nel 2020, l’import britannico ha toccato i 3,7 miliardi di euro, dagli oltre 4 miliardi del 2019, con un calo pagato principalmente dagli sparkling (-21%) e dall’imbottigliato fermo (-7,5%), che insieme hanno fatturato poco più di 3 miliardi di euro (81%). Di questi numeri, l’Italia rappresenta il secondo fornitore di vino per il Regno Unito, con una quota del 20,7%, dietro solo a quella della Francia (32,4%), per un valore complessivo di 693,9 milioni di euro. Londra, così, è oggi il terzo mercato per il vino italiano, superato da tempo dalla Germania, meta ambita quanto difficilissima da raggiungere. In nessun altro Paese al mondo, del resto, la concorrenza è tanto forte: se “sopra” c’è la Francia a dominare, “sotto” Spagna e soprattutto Paesi del Nuovo Mondo sgomitano per erodere quote al Belpaese, tirando su un prezzo medio che - da ben prima della pandemia di Covid-19 e della Brexit - aveva iniziato a calare pericolosamente, tanto che ad ottobre 2020 si era assestato a 2,61 euro al litro, contro i 3 euro toccati nella metà del 2012. Ed è proprio da qui, dal prezzo medio, che nascono molte delle riflessioni di produttori e comunicatori del vino che WineNews ha raccolto dalla tappa inglese del “Simply Italian Great Wines” di scena a Londra, nella cornice della Church House di Westminster.
“Quello inglese - dice Walter Speller, firma di Jancis Robinson - è oggi un mercato particolarmente difficile, e spesso i produttori italiani hanno aspettative poco realistiche. È più semplice vendere vino italiano negli Stati Uniti, per tanti motivi. Qui, pensare di fare numeri è dura, a meno che non si voglia accettare la sfida del basso prezzo, ma la concorrenza, dal Cile all’Argentina, è fortissima, e spinge verso ribassi continui, e questo non è sostenibile. Non è questa la strada giusta per conquistare un mercato come quello della Gran Bretagna, che va conosciuto a fondo. È un mercato maturo, in cui proporre vini a basso prezzo non valorizza il lavoro dei territori, delle Regioni e del Paese Italia. È sbagliato cercare di convincere i consumatori che i prodotti di basso prezzo siano prodotti di alta qualità, al contrario l’Italia deve venire in Inghilterra con prodotti di qualità superiore, per poi proporre quelli di basso prezzo, che ne ricalcano comunque lo stile, un po’ come fanno i francesi. Il top-down marketing funziona meglio del down-top marketing, anche perché nel momento in cui un vino entra sul mercato ad un certo prezzo, poi alzarlo diventa quasi impossibile. Specie in un mercato ormai saturo, che è ancora il secondo mercato del vino al mondo, ma la gente ne beve sempre meno, c’è la concorrenza di tante altre bevande, dalla birra alla mixology, così come dei prodotti analcolici, a partire proprio dal vino, prodotti nuovi con cui anche il vino deve fare i conti, per questo non ha senso venire in Inghilterra per fare grandi numeri”.
Detto delle scelte di natura strategica e commerciale, anche sul lato della promozione c’è ancora da aggiustare il tiro, perché i limiti di quella del vino italiano sono sempre gli stessi, come ricorda la Master of Wine Jane Hunt, che in Uk firma alcuni degli eventi di promozione del vino italiano più importanti: “la grande difficoltà dell’Italia è che ci sono tante Regioni, ed ognuna è molto fiera di sé, per cui diventa difficile lavorare insieme, ma agli inglesi va venduto il brand Italia, come un’idea, non Sicilia contro Piemonte, contro Toscana, contro Umbria, perché la concorrenza non è interna, ma con Paesi come Australia, Nuova Zelanda, Argentina, Cile, Spagna e Francia. L’Italia ha trovato una certa facilità sulla fascia bassa del mercato, come raccontano i successi di Prosecco e Pinot Grigio, ma al supermercato non si trova molto di livello superiore. I vini italiani di alta gamma si trovano invece nella ristorazione, anche grazie al grande lavoro degli importatori. Per la massa, che compra vino sullo scaffale del supermercato, oltre a Chianti, Prosecco e Pinot Grigio non c’è grossa consapevolezza. Sarebbe bello se ci fosse un supporto unitario di tutta l’Italia, che però non c’è”.
Chi, invece, non ha nulla da “rimproverare” alle cantine del Belpaese, è Emily O’Hare, wine writer e docente Wset che ha scelto, da qualche anno, proprio l’Italia: “io non credo che ci sia qualcosa di più che i produttori italiani debbano o possano fare. Producono vini meravigliosi praticamente ovunque, dal Collio alle Marche, lavorando benissimo in vigna, all’insegna della sostenibilità, ed in cantina, sempre con l’idea di preservare la qualità delle uve. Gli stessi enologi, non lavorano per fare vini che possano stare bene solo sugli scaffali di un’enoteca, ma a tavola. E continuano a farlo anche in un momento tanto difficile. Per quei territori che ancora non sono presenti sul mercato inglese, diventa invece fondamentale proporsi con produzioni organiche, il solo modo di lavorare immaginabile nel futuro. Non è semplice, ma vini prodotti senza la chimica son ciò che serve, e ciò che chiedono i consumatori”.
Per i territori e le denominazioni del vino italiano, comunque sia, il mercato inglese resta tra i più importanti, e le criticità emerse parzialmente conosciute, seppure non risolte. “Qui il Chianti è una delle denominazioni più conosciute ed amate”, ricorda il presidente del Consorzio del Chianti, Giovanni Busi. “Ma non ancora abbastanza nel bicchiere, nei dettagli, nelle sue differenze, ed è qui che dobbiamo lavorare meglio e di più. In un momento come questo, dopo un periodo difficile per le aziende legato alla pandemia, c’è voglia e bisogno di ripartire, ma anche di avere una presenza più forte in Inghilterra, un Paese importante, che acquista molto Chianti, almeno da un punto di vista quantitativo. Ora però dobbiamo puntare sulla promozione, perché oggi siamo forti soprattutto limitatamente alla grande distribuzione, ma il Chianti è molto più di un vino da scaffale, è un vino che può e deve stare sulle tavole della ristorazione”. C’è poi chi della Gran Bretagna ha fatto “il suo quarto mercato export - ricorda Davide Acerra (Consorzio Vini d’Abruzzo) - grazie ad una crescita esponenziale negli ultimi cinque anni, scalando la classifica dei mercati più strategici per la nostra Regione. Merito del lavoro fatto dalle aziende, in termini di promozione e di penetrazione sul mercato. Accanto al Montepulciano d’Abruzzo, che comunque resta il nostro vino principe, si stanno facendo spazio i vitigni a bacca bianca, come Trebbiano e Pecorino. È un lavoro che va implementato, anche come Consorzio, cosa che stiamo facendo, con attività di promozione insieme ai maggiori opinion leader del Paese, e con una gamma sempre più ampia, di cui fanno ormai parte anche gli spumanti da vitigni autoctoni, vista la grande popolarità di questo tipo di prodotto”.
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