In Italia ci sono 10.000 i lavoratori agricoli migranti che vivono in condizioni di privazione dei diritti e di sfruttamento, ossia, vittime del caporalato. È uno dei dati più allarmanti contenuti nella prima indagine nazionale su “Le condizioni abitative dei migranti che lavorano nel settore agroalimentare” (qui l’indagine completa), firmato da Anci e Ministero del Lavoro, che ha come orizzonte il Piano triennale contro il caporalato e lo sfruttamento in agricoltura 2020-2022, condiviso con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che, oltre a ribadire la necessità della lotta al sommerso in tutti i settori dell’economia, investe 200 milioni di euro per superare gli insediamenti abusivi (150 quelli segnalati da 38 Comuni in tutta Italia) e combattere lo sfruttamento in agricoltura.
Tornando all’indagine, l’agricoltura - come si legge nel capitolo “Il lavoro migrante in agricoltura: tra precarietà e rischio sfruttamento”, che proponiamo integralmente - è un settore di particolare rilevanza per l’economia nazionale sia in termini di diversificazione che per la qualità della produzione. La filiera agroalimentare rappresenta il 25% del Pil nazionale e dà lavoro a più di 3,8 milioni di persone. L’Italia è infatti il primo Paese in Europa per numero di prodotti di qualità certificata e primo produttore al mondo di vini. Tuttavia, la crisi pandemica iniziata nel 2020 ha messo in risalto gli elementi di criticità delle condizioni di lavoro del comparto agricolo, già da tempo presenti e conosciuti, tanto da potersi definire come vulnerabilità strutturali di filiera. Come emerge dalla Relazione annuale sullo stato di attuazione del Piano Triennale, a partire dal 2020 le condizioni di vita e lavoro della popolazione migrante sono ulteriormente peggiorate e sono state caratterizzate sempre più da: perdita di reddito per non aver potuto raggiungere i luoghi di lavoro a causa delle limitazioni negli spostamenti; mancanza di ammortizzatori sociali; alloggi di fortuna del tutto inadatti a fronteggiare rischi di contagio; mancanza dei dispositivi di protezione individuale e difficoltà di accesso ai servizi sanitari. In particolare, per i braccianti di origine straniera la combinazione di irregolarità nel soggiorno e nel rapporto di lavoro produce spesso effetti ancor più pervasivi, che si traducono in forme di grave sfruttamento lavorativo e nell’intermediazione dei caporali anche per l’accesso a determinati servizi come la disponibilità di un alloggio o di un mezzo di trasporto verso i luoghi di lavoro.
Come emerge da numerosi report nazionali sulla tematica, il settore agroalimentare risulta essere particolarmente a rischio sfruttamento e i lavoratori stranieri “hanno una posizione di debolezza contrattuale che si riflette sulle condizioni di lavoro e genera marginalità, creando zone d’ombra che minacciano la sostenibilità sociale del settore agricolo italiano e ne danneggiano l’immagine internazionale”.
Il fenomeno dello sfruttamento lavorativo in Italia riguarda diversi settori (trasporti, logistica, costruzioni, turismo e servizi di cura) ma è particolarmente accentuato nel comparto agricolo, caratterizzato da una prevalenza di rapporti di lavoro temporanei e da una marcata stagionalità, oltre che da una forte presenza della componente straniera. Lo sfruttamento lavorativo e il caporalato coinvolgono tutta la filiera agroalimentare, dalla produzione alla raccolta, dalla trasformazione alla vendita dei prodotti agricoli, servendosi anche dell’intervento delle mafie locali, configurandosi spesso come un fenomeno di agromafia.
Le principali analisi quantitative sul fenomeno partono dall’incidenza e dal tasso di irregolarità lavorativa rilevati nelle statistiche sull’occupazione. Ciò consente di costruire stime settoriali più o meno rappresentative, che tuttavia contemplano un arco molto ampio di fattispecie, che vanno dalla sotto-dichiarazione (lavoro grigio) al lavoro totalmente irregolare. Il V Rapporto Agromafie e caporalato quantifica in circa 180.000 i lavoratori particolarmente vulnerabili e quindi potenzialmente soggetti a fenomeni di sfruttamento e caporalato. Tali numeri risultano in costante aumento, come si evidenzia dal confronto con le stime degli anni precedenti: nel 2017 la componente vulnerabile ammontava a 140.000 unità, mentre nel 2018 a 160.000 unità. Il tasso di lavoro non regolare tra gli addetti all’agricoltura è il più elevato tra tutti i settori economici, pari al 24,2% nel 2018, con un’incidenza di lavoro irregolare tra i dipendenti pari al 34,9% su un numero di lavoratori irregolari di 164.000 unità. Nel Piano triennale si fa presente inoltre che tali stime non tengono conto dei lavoratori stranieri senza titolo di soggiorno o non iscritti alle liste anagrafiche.
L’Osservatorio Placido Rizzotto stima che circa quattro milioni di lavoratori agricoli operino senza documenti, in condizioni di lavoro precario e di sfruttamento. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha rilevato che l’evasione fiscale per i lavoratori dipendenti irregolari nel settore agricolo risulta compresa tra i 642 milioni e il miliardo di euro. Come verrà approfondito in seguito, l’aumento esponenziale del lavoro straniero in agricoltura richiede la definizione di una strategia di governance multisettoriale, è indispensabile, ad esempio, porre attenzione alle esigenze e ai fabbisogni specifici di servizi sui territori quali trasporti, alloggi, servizi scolastici e sanitari, che nelle aree rurali spesso sono già carenti per la popolazione locale.
Secondo le analisi contenute nel Piano Triennale, nel 2018 il settore agricolo italiano, che rappresentava il 2,1% del valore aggiunto dell’intera economia nazionale, ha registrato un valore totale pari a 59,3 miliardi di euro. Viene stimato che l’economia sommersa in agricoltura abbia raggiunto il 16,9% del valore aggiunto, ben oltre il 12,3% dell’economia totale. Le trasformazioni economiche e strutturali intervenute nel corso degli anni nel settore primario hanno avuto un forte impatto sulla composizione e sull’intensità del lavoro agricolo. Il confronto con i due censimenti del 2000 e del 2010 realizzati dal Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali (CREA) evidenzia una drastica riduzione di aziende agricole e una diminuzione di superficie agricola utilizzata, dato che si traduce in un aumento delle dimensioni medie aziendali. Queste contrazioni e cambiamenti organizzativi (si pensi ad esempio all’incremento della meccanizzazione) hanno comportato una minor esigenza di impiego di lavoro. Alle aumentate dimensioni aziendali è corrisposto inoltre un minor contributo della famiglia alla manodopera agricola e un maggior ricorso a manodopera extraziendale e saltuaria, prevalentemente di provenienza straniera. I comparti che vedono una maggiore partecipazione di stranieri sono quelli zootecnici e di colture ortive e arboree, specializzazioni che richiedono una gran quantità di lavoro stagionale, specialmente in corrispondenza dei periodi di raccolta. Gli stranieri comunitari, che grazie al principio della libera circolazione possono più agevolmente fare progetti migrativi temporanei e ricorsivi, sono maggiormente impiegati con tipologie di contratto stagionale.
In molti paesi europei la crisi pandemica ha reso evidente la condizione di dipendenza del comparto della produzione agricola dal lavoro straniero. Quasi dovunque, il settore è trainato dai lavoratori immigrati, innanzitutto da quelli reclutati attraverso i dispositivi per la migrazione stagionale. Anche in Italia, come in molti altri paesi, il decremento dell’offerta di lavoro dovuta al blocco della mobilità transfrontaliera ha fatto emergere la consapevolezza dell’importanza del lavoro dei migranti anche per garantire la produzione di beni e servizi essenziali. Per quanto riguarda il comparto agricolo, se nel 2004 (primo anno in cui l’Istat distingue la cittadinanza nelle forze di lavoro) i lavoratori stranieri erano il 4,3%, nel 2010 la percentuale è più che raddoppiata arrivando al 9,2%. Successivamente si assiste in agricoltura a una progressiva sostituzione dei lavoratori italiani con cittadini stranieri che, a fine 2020, arrivano a essere 357.768, su circa 900.000 totali e concorrono al 29,3% dell’occupazione complessiva in termini di giornate lavorate.
Dal V Rapporto Agromafie e caporalato emerge che l’Europa dell’Est è l’area geografica da cui principalmente proviene la maggior parte delle vittime di sfruttamento lavorativo in agricoltura. Le organizzazioni sindacali ritengono che queste persone sono anche le più restie a intraprendere azioni di denuncia e scioperi. Negli ultimi anni è sempre più numerosa anche la presenza di vittime provenienti da Asia, Africa e America Latina. Gli uomini costituiscono la maggioranza delle persone vittime di sfruttamento lavorativo ad oggi identificate, sebbene si registrino proporzioni diverse tra la presenza maschile e quella femminile a seconda del paese di provenienza. La fascia d’età più rappresentata, per entrambi i generi, tende ad abbassarsi sempre più.
Secondo il sesto Rapporto EURISPES (2019) il volume d’affari complessivo annuale delle agromafie raggiungerebbe 24,5 miliardi di euro, grosso modo equivalenti al 10% del fatturato complessivo criminale del nostro Paese, con una crescita che sembra non risentire della stagnazione dell’economia italiana e internazionale. “Il caporalato, dunque, sarebbe parte di una rete criminale che si incrocia perfettamente con la filiera del cibo, dalla produzione al trasporto, alla distribuzione e alla vendita, con tutte le caratteristiche necessarie per attirare l’interesse di organizzazioni criminali che abbandonano l’abito “militare” per inserirsi nell’economia legale, riuscendo così a sfruttare i vantaggi della globalizzazione, delle nuove tecnologie, dell’economia e della finanza, tanto da far parlare di mafia 3.0”.
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