Istituzioni, consorzi e produttori sono chiamati ad affrontare evoluzioni ed emergenze che coinvolgono il settore e tra queste l’urgenza di disporre di vigneti più resistenti a crittogame e parassiti, agli eventi abiotici causati dal cambiamento climatico, che si incrociano con la ricerca di una maggior sostenibilità ambientale e con i criteri di scelta dei consumatori. In questo quadro l’introduzione dei vitigni resistenti nelle denominazioni di origine - prevista dell’Ue, ma attualmente non dal nostro Testo Unico (art. 33 comma 6, legge 238/2016) che ne consente l’utilizzo soltanto nelle Igt - potrebbe giocare un ruolo importante, ma trova alcuni ostacoli, che sono stati dibattuti nella tavola rotonda “I nuovi disciplinari, vigneti resistenti: sì o no”, organizzata da Assoenologi a Rive-Rassegna Internazionale Viticoltura Enologia, evento biennale dedicato alla filiera della vite e del vino, che si è tenuta alla Fiera di Pordenone, nei giorni scorsi.
Nonostante i Piwi siano autorizzati in diverse regioni (Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Emilia-Romagna, Marche, Abruzzo e Piemonte), la loro diffusione è limitata, concentrata in gran parte nel Nord-Est, dove si trovano circa 2.000 ettari totali. Lo sblocco del divieto nelle Do potrebbe incrementarne notevolmente l’uso poiché per Prosecco Doc e Pinot Grigio delle Venezie, sviluppate su importanti superfici, potrebbero includerli tra i vitigni della quota complementare (rispettivamente del 15% e del 10%)
Eugenio Pomarici, dell’Università di Padova e vicedirettore Cirve, ha identificato le ragioni della scarsa diffusione dei Piwi. “Storicamente, molte regioni del Centro-Sud non hanno considerato i Piwi per la bassa pressione fitosanitaria di peronospora e oidio, anche se recenti problematiche stanno allargando i territori interessati - ha spiegato - l’altra ragione sta nell’iscrizione all’albo delle Do della maggior parte dei vigneti e quindi passare all’Igt vorrebbe dire veder ridurre il loro valore fondiario. A questo si aggiunge il disinteresse della cooperazione e l’inspiegabile divieto di utilizzo nel biologico”.
“Inoltre a queste ragioni - ha aggiunto Riccardo Velasco, direttore Centro di Ricerca in Viticoltura ed Enologia (Crea-Ve) - si affianca il blocco opposto da numerose regioni che li vedono come estranei all’autenticità dei vini, scoglio superabile utilizzando per la selezione, quale madre nobile, gli autoctoni dei diversi territori. Oggi i resistenti offrono reali opportunità che sta, per dovere e diritto, ai consorzi, investiti della salvaguardia delle caratteristiche dei loro vini, valutare”.
Venendo alle Doc, fatta eccezione per quelle rigorosamente monovitigno, la maggior parte dei disciplinari ne consentirebbe l’introduzione nel 15% della quota complementare. Dai risultati di alcune indagini del Cirve, illustrati da Pomarici, emerge che i consumatori li percepiscono favorevolmente, associandoli alla sostenibilità, e sono disponibili a comprarli e pagarli di più per il consumo quotidiano e che i produttori riscontrano riduzione dei costi, gestione facilitata in vigneto e vinificazione e che i vini Piwi possono spuntare anche prezzi premium.
Nella sua prolusione sullo stato dell’arte della ricerca sui resistenti, Velasco ha sottolineato anche come i Piwi, grazie alla tecnica di “piramidizzazione”, sono depositari di più meccanismi di resistenza che li rendono quasi “inespugnabili” da peronospora e oidio. “La probabilità che i patogeni riescano a mutare per superarli tutti è bassissima - ha spiegato Velasco - e questo rappresenta una certezza della durata delle resistenze. Nel caso di vitigno ottenuti con le Tecniche di Evoluzione Assistita (Tea) per ottenere un solo “meccanismo” genetico di tolleranza/resistenza sono necessari circa 5 anni, quindi per ottenerne con resistenze “insuperabili” ci vogliono molti anni, impegno e lavoro. Tuttavia essi offrono il vantaggio di essere di fatto cloni dei vitigni madre di partenza, quindi rappresenteranno opportunità addizionali nel momento in cui saranno disponibili per fare scelte diverse anche nel caso di Do monovitigno. Oggi ad essere già disponibili sono i Piwi e siamo già molto avanti nell’introduzione di diversi meccanismi di resistenza in vitigni nobili. E comunque i resistenti non solo producono ottimi vini in purezza o in blend con altri vitigni, ma a mio parere hanno dignità per essere considerati da grandi consorzi”.
Dello stesso avviso, dichiarando con chiarezza di non avere preclusioni per l’introduzione dei Piwin nelle Do, Michele Zanardo, presidente del Comitato Nazionale Vini Dop e Igp, che ha sostenuto la necessità di sperimentazione su cui i consorzi hanno un ruolo importante per farsi portavoce delle modifiche dei denominazioni. Ha, inoltre, indicato il “modello francese” come virtuoso e da adottare. Sebbene l’Italia abbia iniziato prima la ricerca sui Piwi, la Francia è ora più avanti. Dopo un intenso programma di miglioramento genetico dal 2014, i francesi hanno introdotto i Piwi nelle Aoc Bordeaux e Champagne. “I francesi - ha approfondito Zanardo - hanno sperimentato i loro vitigni resistenti nelle diverse Aoc nelle aziende, microvinificandoli e assaggiandoli in purezza e in blend in un percorso che è durato dieci anni con risultati concreti, e dando ai produttori la possibilità di capire quali erano le potenzialità dei vitigni e di scegliere se usarli oppure no. Credo che dobbiamo ripartire da qui”.
Le posizioni dei consorzi sul tema sono peculiari anche per oggettive differenze legate alla possibilità o meno di inserire i resistenti nella quota complementare di altri vitigni laddove prevista dal disciplinare, ma impossibile nelle Do che si fondano su un unico vitigno al 100%, come per il Nebbiolo nel caso del Barolo. Il Consorzio del Prosecco Doc sta lavorando da anni sull’innovazione varietale, bilanciando la necessità di sostenibilità con la salvaguardia dell’identità del prodotto, avendo ben presente i limiti normativi attuali imposti dal Testo Unico del Vino e al contempo le nuove opportunità offerte dai vitigni resistenti in previsione di un’evoluzione normativa. “Le varietà resistenti sono già un’opportunità per il sistema vitivinicolo per le Igp e i vini generici - ha sottolineato Andrea Battistella, direttore del Consorzio Prosecco Doc - se collocate nelle aree più sensibili possono evitare conflitti con la cittadinanza e le attività prossime ai vigneti. Condizione necessaria è il mantenimento delle peculiarità del prodotto e, quindi, l’introduzione di un nuovo vitigno nel disciplinare deve essere gestita con la massima consapevolezza per salvaguardare la denominazione costituita da un complesso di fattori ambientali, umani e storici all’interno dei territori. La sperimentazione è quindi fondamentale, e grazie alla quale la filiera produttiva potrà valutare l’opportunità di ampliare la base ampelografica”. Diverse le ricerche messe in atto dal Consorzio con partner scientifici e istituzionali che rappresentano, in una “sorta di manovra a tenaglia” per incrementare la riduzione degli input chimici e migliorare la sostenibilità: dal progetto Gleres, per ottenere “figli di Glera” resistenti con il suo stesso profilo sensoriale, all’applicazione delle Tecniche di Evoluzione Assistita sulla Glera, fino al programma Ampelopros per testare numerosi vitigni del panorama viticolo italiano e nuove varietà resistenti in due aree del territorio della denominazione.
“Nel nostro areale di produzione - ha spiegato Stefano Sequino, direttore del Consorzio Pinot Grigio delle Venezie - le uve ottenute da varietà resistenti sono da tempo utilizzate per la produzione dei vini Ig e già esiste un patrimonio di conoscenza ed esperienza che ci consente di fare un passo avanti in termini di sostenibilità ambientale e di riduzione dei costi per le imprese. Si tratta di un percorso che stiamo portando avanti con approccio tecnico e scientifico con l’obiettivo di valutare, insieme ai nostri tecnici, enologici e produttori il contributo dei vini ottenuti da varietà resistenti rispetto al profilo organolettico del Pinot Grigio”. Sono, infatti, in corso prove di microvinificazione e degustazioni tecniche su campioni di Pinot Grigio tagliati con vini ottenuti da varietà resistenti, con particolare riferimento a quelle varietà che presentano un parentale già inserito nella quota complementare del disciplinare di produzione, come Pinot bianco, Friulano e Chardonnay. “I risultati delle degustazioni tecniche - ha raccontato Sequino - sono di grande interesse e ci consentiranno di effettuare scelte consapevoli, nel rispetto del profilo organolettico del Pinot Grigio. Nel frattempo seguiamo con attenzione i lavori parlamentari rispetto agli obiettivi del Ddl del Senato 1152 che, coerentemente con il percorso tracciato da tempo dal Reg. (Ue) 2021/2117, intende inserire, come già avvenuto in Francia, le varietà resistenti nella base ampelografica dei vini a denominazione di origine, possibilità oggi non consentita dal Testo Unico del Vino”.
A esprimersi dichiaratamente contro l’introduzione dei Piwi - attribuendosi la definizione di “bastian contrario” - per questioni storiche, culturali e coerentemente con alcuni disciplinari delle denominazioni rappresentate dal Consorzio di cui è presidente (Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani, per 65 milioni di bottiglie e circa 12.000 ettari) è stato Sergio Germano. “È grazie alle denominazioni più storiche da cui siamo partiti, caratterizzate dal 100% di un solo vitigno, che i nostri vini, come Barolo e Barbaresco, si sono affermati - ha spiegato Germano - ricordo che post metanolo si era discusso della possibilità, per “rafforzare” il colore del Nebbiolo, di inserire altri vitigni. Proposta saggiamente cassata che ha portato alla sua affermazione. La sensibilità del Nebbiolo al suolo, al territorio anche a distanza di pochi metri, è il nostro punto di forza e quindi non c’è interesse a introdurre altri vitigni in difesa dell’identità, della storicità e della rinomanza consolidate di queste produzioni. Siamo, invece, per la ricerca di varietà autoctone resistenti ottenute tramite l’applicazione delle Tea su cui, anche per quanto riguarda il Nebbiolo, la ricerca sta lavorando”. Una chiusura, peraltro legittima, ai Piwi, che però potrebbero un domani essere presi in considerazione per la più recente Do Langhe, inserita 25 anni fa, che ha quote complementari e per una eventuale Igt regionale da istituire per favorire una maggiore sostenibilità ambientale della viticoltura in alcune aree sensibili.
“La filiera, con il supporto della politica di settore - ha detto Eugenio Pomarici tirando le conclusioni della tavola rotonda - deve continuare a fare ricerca e sperimentazione nei diversi contesti produttivi delle denominazioni. La politica dovrebbe favorire nelle Do la “prova dei Piwi” derivati dalle varietà di interesse per verificarne l’adattamento (secondo “l’approccio francese”: 5% superficie; 10% assemblaggio, 10 anni di prova) coinvolgendo nelle prove i produttori. La modifica del Testo Unico per consentirne l’uso sarebbe un segnale importante, come pure favorirne l’autorizzazione da parte delle regioni. E poi è essenziale la comunicazione ai produttori di tutte le informazioni disponibili per fare scelte, che inevitabilmente rimangono una loro responsabilità”.
Clementina Palese
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