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ECONOMIA AGRICOLA

Agroalimentare italiano leader in Ue per valore aggiunto. Ma è mal distribuito lungo la filiera

Di 100 euro spesi dal consumatore, solo 20 arrivano agli agricoltori. I dati del “Rapporto Agroalimentare” 2024 di Ismea
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Agroalimentare italiano leader in Ue per valore aggiunto. Il Rapporto Ismea

Agricoltura e industria alimentare italiane realizzano, insieme, un valore aggiunto di 77,2 miliardi di euro, pari a circa il 4% del Pil nazionale, con il contributo maggiore riconducibile al settore primario (40,5 miliardi). Comprendendo anche le fasi a valle del sistema produttivo della distribuzione e della ristorazione, si sale a 124 miliardi di euro, arrivando fino al 15% del Pil se si includono i servizi di logistica, trasporto e intermediazione relativi alla filiera agroalimentare. Con il comparto che si conferma uno degli asset più forti e più importanti, a livello economico, ambientale e sociale, ma anche identitario, in Italia, non è una scoperta. Ma che vede ancora tanti squilibri nella distribuzione di questo valore, lungo la filiera: su 100 euro spesi dal consumatore, appena 20 vanno agli agricoltori, per i quali poi si scende a 7 in termine di utile netto. Quadro delineato dal “Rapporto Ismea sull’Agroalimentare” presentato, oggi, al Ministero dell’Agricoltura a Roma.
“Nel Rapporto sull’agroalimentare italiano presentato oggi da Ismea parlano i dati, che vedono in questi due anni dei risultati eccezionali: uno è quello della crescita del nostro export, maggiore rispetto agli ultimi anni, ma il dato più importante è quello degli investimenti che crescono del 43,5%. Un modello di sviluppo che ricerca non il consenso di oggi, ma i risultati per l’Italia del domani. Gli investimenti in agricoltura sono quelli che rafforzano il nostro mondo, la nostra economia e che sono mancati per troppi anni”, ha commentato il Ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida. L’Italia, spiega il rapporto, copre poco meno del 17% dell’economia del settore primario dell’Ue. Un’incidenza, in termini di valore aggiunto, che pone il nostro Paese al secondo posto, appena dietro alla Francia (con il 17,4%), ma davanti a Spagna (14,7%) e Germania (13,8%). Una posizione confermata anche nel 2023, nonostante la riduzione del 3,3% del valore aggiunto in termini reali (al netto cioè della dinamica dei prezzi), conseguente a un’annata agraria pesantemente condizionata dagli eventi climatici avversi. Tra questi, i noti fenomeni alluvionali del mese di maggio in Emilia-Romagna, Toscana e Marche, le gelate tardive, che hanno interessato il 40% delle aree agricole italiane, specie nel Nord-Est e lungo la dorsale appenninica, e le ondate di calore al Sud. Con un bilancio dei danni, a carico soprattutto di frutta, foraggi e cereali, stimato da Ismea, per i soli eventi catastrofali (gelo e brina, siccità e alluvioni) attorno al miliardo di euro.
L’annata 2023, ricorda Ismea, è stata negativa per le coltivazioni legnose, che più di altre hanno risentito dell’impatto di grandine e gelo tardivo sulla produzione: frutta (-3%), ma soprattutto vino (-16,1%), che nel 2023 ha sperimentato la peggiore vendemmia dal dopoguerra ad oggi. Il consuntivo dell’anno si è rivelato negativo anche per patate (-4,4%), ortaggi (-1,5%), per il comparto florovivaistico (-3,8%) e per la zootecnia (-2,6% le carni bovine e -1,1% il latte). Le coltivazioni erbacee, al contrario, hanno registrato un andamento complessivamente positivo, in particolare le colture industriali (+8,5%) e i cereali (+6,6). In recupero la produzione di olio di oliva, aumentata in misura significativa (+36%) anche se lontana dai potenziali.
Contrariamente al settore primario, l’industria alimentare ha chiuso il 2023 con un risultato decisamente migliore: il valore aggiunto è aumentato del 16% a prezzi correnti e del 2,7% in volume sull’anno precedente, nel contesto di una dinamica molto positiva nel decennio 2014-2023, sia in termini nominali (+45%) che reali (+26%). La produzione l’anno scorso, ha registrato solo una leggera flessione (-1,7% sul 2022), ma nel quadro di un trend decennale, comunque, positivo (+10,5%). Il primo comparto dell’industria alimentare italiana è il lattiero-caseario, a cui si deve il 14,3% del fatturato complessivo; seguono ortofrutta (8,5%), elaborati a base di carni (8,1%), vino (7,6%) e macellazione di carni rosse (7,2%). Pasta e olio, prodotti di punta dell’export, coprono rispettivamente il 5,7% e il 5,1% del fatturato dell’industria alimentare italiana. Le dinamiche del 2023 sono positive per il lattiero-caseario (+3,4%), trainato da export e consumi interni; cioccolateria e confetteria (+1,6%), grazie alla spinta della domanda estera; mangimistica (+1,9%) e panetterie e pasticcerie artigianali (+0,9%). Si riducono, al contrario, i fatturati di oli e grassi vegetali (-10,5%), industria ittica (-9,2%), carni rosse (-7,5%), succhi di frutta (-7,9%) e gelati (-8,1%).
L’Italia, spiega ancora il Rapporto, si conferma al terzo posto per incidenza sul valore aggiunto dell’industria alimentare dell’Ue, con una quota dell’11,9%, preceduta da Germania (leader con il 19,5%) e Francia (17,8%); quarta è la Spagna con il 10%. Permangono squilibri strutturali, però, nella distribuzione del valore lungo la filiera agroalimentare, con le fasi più a valle, quali logistica e distribuzione, in grado di trattenere la quota più elevata del valore finale del prodotto, a discapito soprattutto della fase agricola. Secondo l’analisi della catena del valore, realizzata da Ismea sulla base dei dati più recenti dell’Istat, su 100 euro spesi dal consumatore per l’acquisto di prodotti agricoli freschi, meno di 20 euro remunerano il valore aggiunto degli agricoltori, ai quali, sottratti gli ammortamenti e i salari, resta un utile di 7 euro, contro i circa 19 euro del macro-settore del commercio e trasporto. Per i prodotti trasformati, che implicano un passaggio in più dalla fase agricola a quella industriale, l’utile dell’agricoltore si riduce a 1,5 euro, solo di poco inferiore a quello dell’industria, pari a 1,6 euro, contro i 13,1 euro del commercio e trasporto. Nel periodo 2019-2023, nel contesto dei grandi stravolgimenti dovuti all’emergenza pandemica e allo shock energetico, il fisiologico ritardo nella trasmissione degli aumenti dei prezzi delle materie prime alle fasi a valle dell’agricoltura, in particolare all’industria e alla distribuzione, ha comportato temporanei cambiamenti nella distribuzione del valore che non hanno tuttavia modificato, a conclusione di questo percorso, gli assetti a sfavore delle componenti produttive, in particolare del settore primario. L’approfondimento, realizzato dall’Istituto, sulla filiera della pasta e su quella della carne bovina ha messo in luce una situazione di sofferenza, con margini particolarmente compressi, se non addirittura negativi, per le aziende agricole e gli allevamenti, mitigati solo dal sostegno pubblico, attraverso la Pac e gli aiuti nazionali. Nella catena del valore della pasta, i costi di produzione del frumento duro rappresentano una quota molto elevata (36%) del valore finale al consumo. Sia in presenza di bassi prezzi della granella, come nel 2017, sia di valori quasi doppi nel 2023, i costi unitari a carico delle aziende agricole sono sempre risultati più elevati dei prezzi di vendita, con conseguenti valori negativi del reddito operativo. Nella filiera della pasta è soprattutto il margine della distribuzione a incidere sul prezzo al consumo, con un peso del 30% circa nel 2017, salito al 36% nel 2023. Anche nella catena del valore della carne bovina la fase più critica è quella dell’allevamento, stretta nella morsa dei costi di approvvigionamento dei capi da ingrasso e dei costi di alimentazione, che nel loro insieme rappresentano oltre il 60% del valore finale del prodotto. La fase primaria è anche quella su cui gravano i maggiori rischi di natura esogena, dovuti ai bassi livelli di autosufficienza per i ristalli e le materie prime. In alcuni anni, come nel 2023, le implicazioni di tale dipendenza sono state particolarmente evidenti, con i costi di allevamento che hanno superato i ricavi generati dalla vendita dei capi, determinando un reddito operativo negativo. La fase dell’industria di macellazione mantiene più o meno la sua redditività (4,5% nel 2022 e 3,1% nel 2023), con una struttura in grado di diversificare il rischio; la distribuzione, infine, funge da cassa di compensazione, ritardando il trasferimento dell’inflazione ai prezzi al consumo, ma assicurandosi un margine lordo di 3,56 euro/kg, che in quota rappresenta quasi il 30% del prezzo finale.
Nel complesso, sottolinea ancora Ismea, l’agroalimentare italiano migliora, però, la sua l’autosufficienza, ma resta alta la dipendenza da importazioni in filiere chiave. Una maggiore apertura internazionale che ha favorito i rapporti commerciali con l’estero e una più solida struttura produttiva e logistica che ha alzato il grado di autonomia delle forniture rispetto ai fabbisogni alimentari. L’agroalimentare italiano ha sperimentato progressi su entrambi i fronti, estero e interno. A confermarlo è una batteria di indicatori contenuti nel Rapporto sull’agroalimentare italiano, con un approfondimento sulle catene globali del valore e sul grado di approvvigionamento delle diverse filiere nazionali, temi di stringente attualità alla luce del quadro di crescente incertezza che sta inducendo diversi Paesi a rivedere le strategie di delocalizzazione adottate negli ultimi decenni. Uno degli indicatori chiave è il tasso di approvvigionamento generale del settore agroalimentare italiano, inteso come rapporto tra il valore della produzione interna e quello dei consumi, che nel complesso si è attestato, nel 2023, vicino al 100% (99,2%). Il dato - sottolinea l’Ismea - è frutto, tuttavia, di situazioni differenziate a livello di singoli comparti e prodotti. In particolare, la compresenza di un’agricoltura deficitaria di alcuni prodotti e di un’industria alimentare orientata all’esportazione determina situazioni di significativa dipendenza dall’estero in alcune filiere per l’approvvigionamento di materie prime da trasformare in prodotti caratteristici del made in Italy. Una tendenza che si è accentuata negli ultimi anni di pari passo all’aumento della capacità di penetrazione sui mercati esteri dell’industria alimentare e alla contestuale minore disponibilità di materia prima nazionale a causa dell’impatto dei cambiamenti climatici.
Questo deficit rende alcune filiere più vulnerabili a fattori geopolitici, climatici e sanitari che influenzano le catene di fornitura, specie laddove il tasso di approvvigionamento è basso e la provenienza delle importazioni è fortemente concentrata o legata a Paesi lontani e a rischio. I primi dieci prodotti importati dall’Italia sono in ordine: caffè, olio extravergine d’oliva, mais, bovini vivi, prosciutti e spalle di suini, frumento tenero e duro, fave di soia, olio di palma e panelli di estrazione dell’olio di soia. Il grado di autosufficienza dell’Italia per questi prodotti varia dallo 0% nel caso del caffè e dell’olio di palma a oltre il 60% nel caso dei prosciutti, ma sono mais e soia, ingredienti di base dell’alimentazione zootecnica, i prodotti che, secondo l’analisi di Ismea, presentano le maggiori criticità in termini di approvvigionamento. Per entrambi le importazioni negli ultimi venti anni sono considerevolmente aumentate, comportando una drastica riduzione del tasso di approvvigionamento (al 46% per il mais e al 32% per la soia nel 2023). Quanto ai Paesi d’origine, per la soia si evidenzia una forte concentrazione delle forniture dal Brasile (50%), mentre nel caso del mais, pur in presenza di un livello di concentrazione minore, prevalgono gli arrivi dall’Ucraina, un Paese chiaramente a rischio elevato. Il tasso di approvvigionamento italiano è basso anche per i frumenti, con l’industria pastaria che dipende per il 44% dalle forniture provenienti da Canada, Russia, Grecia e Turchia, e quella dei prodotti da forno che per il 64% del fabbisogno ricorre al prodotto di origine ungherese, francese, austriaco, ucraino e romeno. Anche per la carne bovina il tasso di approvvigionamento è sceso a livelli molto bassi nel 2023 (40%), con la Francia che concentra l’85% del valore dell’import di bovini da ristallo. La prevalenza di un solo fornitore, trattandosi della Francia, è rassicurante sul fronte geopolitico, ma rende comunque vulnerabile la filiera nazionale ad altri fattori, come testimoniano le recenti difficoltà dovute alle restrizioni sanitarie associate alla diffusione negli allevamenti francesi di epizoozie e alla più recente emergenza Blue tongue. Infine, per l’olio extravergine di oliva, di cui l’Italia è il secondo maggiore esportatore mondiale e il primo consumatore, le forniture provenienti dagli altri Paesi del bacino Mediterraneo, in primis la Spagna, sfiorano il 50% del nostro fabbisogno, legando a doppio filo le sorti del prodotto nazionale a quello estero, soprattutto in termini di variabilità dei prezzi.
“Con questa seconda edizione del Rapporto sull’agroalimentare italiano, Ismea conferma l’obiettivo di produrre con cadenza annuale un’analisi consolidata dello “stato di salute” del settore. Si tratta di una pubblicazione attenta e rigorosa che vuole fornire uno strumento agevole di lettura e comprensione dei fatti, ancora più rilevante nel contesto attuale, dominato da incertezza sia sotto il profilo macroeconomico che sul fronte internazionale. Mettere a fattor comune, in una visione d’insieme, il nostro patrimonio di analisi e monitoraggio ci consente di fornire gli strumenti per interpretare i fenomeni e far sì che gli operatori del settore possano cogliere opportunità di crescita e consolidamento, a tutto vantaggio della performance complessiva del sistema agroalimentare nazionale”, ha commentato Livio Proietti, presidente Ismea. Con il dg Sergio Marchi che ha aggiunto: “dal rapporto Ismea emergono ancora una volta le straordinarie doti di solidità e resilienza dell’agroalimentare italiano, di fronte alle tante sfide di natura macroeconomica, geopolitica e meteo climatica che si è trovato a fronteggiare negli ultimi anni. Un settore che si è ritagliato un posto di rilievo nell’economia nazionale, arrivando a rappresentare, nella sua accezione più estesa “dal campo alla tavola”, oltre il 15% del Pil nazionale, e che riveste un ruolo da protagonista anche in Europa e nel mondo. Al nostro Paese si deve quasi il 17% del valore aggiunto agricolo europeo e quasi il 12% di quello dell’industria alimentare, quote che collocano l’Italia ai primissimi posti in Ue, mentre le esportazioni, cresciute di circa il 90% in un decennio, evidenziano una dinamicità superiore alla media europea, mondiale e dei principali competitor. Da segnalare, tuttavia, in uno scenario internazionale di crescente instabilità, la questione della strutturale dipendenza dall’estero di alcune filiere chiave del made in Italy, un tema a cui il Ministero e il Governo hanno dedicato particolare attenzione con la istituzione di uno specifico Fondo per la Sovranità Alimentare. Il Rapporto Ismea ha riservato quest’anno un ampio approfondimento a riguardo, volto anche all’identificazione delle catene di fornitura maggiormente vulnerabili a causa dei fattori geo-politici, climatici e sanitari”.

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