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RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

Alberto Capatti: “riportare la politica nell’alveo delle tematiche delle scienze gastronomiche”

Lectio Magistralis del primo rettore dell’Università di Pollenzo, nata 20 anni fa con Slow Food. Carlo Petrini: “ora il riconoscimento internazionale”

“Cari studentesse e studenti, colleghe e colleghi docenti, Rettore, Petrini e ospiti tutti. Questo intervento viene da un professore in pensione da più di dieci anni, libero quindi di esprimere giudizi ed immaginare progetti, critico quindi del suo ruolo passato e presente, ma non di una università con la quale sono oggi a dialogare, con studentesse e studenti sui quali incombe il nostro, il vostro futuro. Partirò dalle scienze gastronomiche create a Pollenzo nel 2004, dentro una classe di laurea in agraria, poi delle tecnologie alimentari, che successivamente, hanno portato all’istituzione di una classe di laurea in scienze, culture e politiche della gastronomia nel 2017. È un insegnamento nato a Pollenzo, fra fattorie, orti, cantine, un castello e il nuovo albergo, con una seconda sede a Colorno, imitato rapidamente da Parma e poi da Padova, diffuso oggi in 17 università italiane e alcune straniere, che merita una storia. Ha il valore di testimonianza e di progettazione. La sua origine è singolarissima, con al centro Carlo Petrini, circondato da (Massimo, ndr) Montanari, storico dell’alimentazione medioevale, (Marco, ndr) Riva, tecnologo alimentare, ed io, professore associato di lingua e letteratura francese e storico dell’alimentazione contemporanea, allora direttore della rivista Slow”. Inizia così la Lectio Magistralis, che riceviamo e volentieri pubblichiamo, del professor Alberto Capatti, tra i “padri fondatori”, e primo rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, tenuta oggi dai uno dei massimi storici della gastronomia, in apertura delle celebrazioni per i 20 anni della fondazione dell’ateneo da parte di Slow Food, e dell’inaugurazione del nuovo Anno Accademico 2023-2024, ripercorrendone la genesi e, soprattutto lanciando nuove idee per il futuro. Un futuro nel quale, ha detto il fondatore della Chiocciola Carlo Petrini, intervenendo con il rettore Bartolomeo Biolatti e ribadendo “l’importanza di una formazione politica nel nostro Ateneo, in un momento in cui queste tematiche diventano così determinanti al punto che le manifestazioni di questi ultimi giorni, quelle con i trattori, riescono a scardinare l’impianto della politica alimentare europea”, Pollenzo ha due obbiettivi: “uno nazionale, con il Centro Studi e Ricerca del Cibo Sostenibile che unisce le quattro Università piemontesi riconoscendogli un ruolo guida, e uno internazionale che è quello che farà Pollenzo da grande, ovvero far nascere gastronomi che abbiano un’idea della gastronomia non incentrata sul proprio ombelico e diventare un punto di riferimento internazionale”.
Tornando alla Lectio, Capatti ha raccontato come “all’inizio si discuteva di come insegnare il cibo e l’alimentazione, si ipotizzava la creazione di un centro culturale e didattico, un collegio o un’accademia e, forse, miraggio, una università. Ne uscì la possibilità di farne una laurea triennale grazie al consenso di Petrini e all’allora ministro dell’Istruzione della ricerca e dell’Università Moratti. Dentro la classe di laurea in Agraria abbiamo costituito, non senza difficoltà, un nuovo corso di studi, nel quale avevamo la possibilità di inserire insegnamenti diversi, come le storie dell’alimentazione, antica e moderna-contemporanea, la filosofia e la sociologia, accanto a materie delle cosiddette scienze dure e a quelle economiche. Nascono così le Scienze Gastronomiche. Discipline che non si erano mai incontrate in un senso, e discipline tutte da inventare nell’altro, con professori, cultori e persino operatori, nel marketing e in altri settori legati all’agro-alimentare. Ecco quale era la nostra prima identità, con un rettore francesista che diventerà professore di ruolo, in lingua e letteratura francese, a Pollenzo, senza insegnare il francese. La storia di questa università, che è da scrivere e pubblicare, implica una visione progettuale di una cultura, rinata nel 2004, in costante evoluzione in un ambito profondamente trasformato oggi da clima e comunicazione, da culture vegane e carnivore in conflitto, che allora non combattevano. Grande novità per studenti e docenti, erano i viaggi in cui tutto il patrimonio disciplinare acquisito diveniva oggetto di pensiero e di critica, ed anche essi sono una parte fondamentale di questa storia. Ricordo, fra questi, memorabile, un tragitto in bicicletta, in cui docenti e studenti pedalavano, dalle fonti alle foci del Po, con tappe gastronomiche mirate e relative lezioni. La gastronomia era allora ignorata dalle università ed era dunque una rivoluzione, da cui sarebbero nati nuovi operatori nel vasto campo alimentare, cucine, artigianato, industria.
Sono un percorso senza altre tappe, senza altre formulazioni? La storia di Pollenzo deve comportare una analisi del reticolo di lauree in scienze gastronomiche italiane e straniere, e terminare con un progetto di un nuovo corso di laurea. Un ostacolo? Gerarchie universitarie e concorsi che immobilizzano ogni assetto culturale, mentre è necessaria una grande libertà di pensiero. Pollenzo deve essere il centro del futuro, quindi un laboratorio in attività costante. Per far questo occorre uno spirito critico che operi sulla nozione stessa di gastronomia. Ritorniamo a Brillat-Savarin e alla finalità stessa della gastronomia “il cui scopo è di vigilare alla conservazione degli uomini, mediante il miglior nutrimento possibile”. Sappiamo per esperienza che tutto oggi è capovolto, citando chi al supermercato acquista derrate scontate, o chi identifica l’alto prezzo con la qualità, o ancora chi replica senza varianti i propri acquisti, per non citare alfine gli affamati, delle nostre o altrui città, nutriti da mense di associazioni benevole, religiose, da organismi internazionali. Possiamo e dobbiamo rovesciare la definizione stessa di gastronomia “conoscenza ragionata” dei nutrimenti, in una società in cui la ragionevolezza e l’irragionevolezza delle conoscenze è gestita dall’alto, dai supermercati, dalla promozione pubblicitaria e dall’Intelligenza Artificiale. È difficile sottrarsi a queste guide istruttive, e la preparazione dei cibi in cucina è una supplementare etichetta, singolarmente affibbiata al piatto preparato da chi si nutre. Esistono ovviamente percorsi scientifici, università che istruiscono, ma lo stesso storico della cucina che studia banchetti rinascimentali in cui è presente solo da un punto di vista intellettuale, essendogli interdetto ogni assaggio, è presenteassente da un punto di vista gastronomico. Dobbiamo dunque conferire alla gastronomia un ruolo che non è quello di conoscenza ragionata o ragionevole, ma di critica del sistema alimentare, quale esso sia, partendo dal presente e ritornando ad esso. Critica significa oggi autocritica, parola che non troviamo in Brillat-Savarin, e che costituirà il nostro principio cognitivo.
Le scienze gastronomiche operano di concerto nella stessa università e nello stesso tempo ognuna istruisce singolarmente, ed è ignorata dagli altri, con una distanza che è modesta fra uno storico ed un antropologo, ed è invece incolmabile fra lo stesso antropologo e il chimico. Non esiste un insegnamento prioritario e onnicomprensivo, ma un confronto costante e distante fra le diverse discipline da un punto di vista didattico. Un passo ulteriore sarebbe una autoanalisi disciplinare volta a rovesciare la nozione stessa di scienze gastronomiche, facendo della gastronomia un punto di divergenza cognitiva. È un obbiettivo filosofico? No, è la realtà quotidiana degli studenti che fanno di questa divergenza il loro consenso cognitivo, in una visione in cui, finiti gli studi, opereranno al di là dell’interdisciplinarità in una realtà operativa altrettanto contraddittoria che di nuovo detterà le proprie regole in conflitto con altre. L’autocritica, anche in questo caso, deve essere il principio cognitivo interdisciplinare, che dà ad ognuno una visione di sé e degli altri da un punto di vista nutritivo. Nasce una nuova gastronomia, e le scienze devono continuamente identificare un progetto didattico individuale e comune che costituisce il punto critico di ognuna, insuperabile se non ignorandolo. Da storico dell’alimentazione ignoro la chimica e volendo operare didatticamente in sintonia, ne taccio nel mio insegnamento l’esistenza, per adottare una pseudosimbiosi nel curriculum studentesco: come uscire da questa contraddizione se non formulando un nuovo progetto che non si chiamerà più scienze gastronomiche, ma gastrocritica, critica gastronomica? Sopprimere alcune parole-chiave del lessico alimentare sembra oggi necessario. Su qualunque scatola, in un supermercato, trovo bio, sostenibile, naturale, peggio ancora italiana è stampata in una confezione di carne per certificarne la provenienza e suggerendo insidiosamente il contrario. Viviamo, mangiamo in un mondo di certificazioni simboliche che dovrebbero saziarci di qualità e invece sono pure illusioni. Criticare l’abuso dell’aggettivo naturale significa sopprimerlo o ridefinirlo scientificamente, e questo accade in una società che stenta a definire, a precisare i propri valori alimentari. Una natura coltivata con macchine e laboratori, vigilata al computer nella sua stessa vita, non è più natura ma la sua riproduzione artificiale. Dobbiamo dunque riformulare tutto il nostro sistema alimentare con una visione critica che ne cancella i valori attualmente pubblicizzati. Questo implica che l’insegnamento stesso della gastronomia parta da una autocritica che mette in evidenza uno spreco culturale di termini e di immagini.
Il secondo passo sarà recuperare la politica presente nella denominazione della classe di laurea e assente a Pollenzo la cui laurea triennale è scienze e culture gastronomiche. Oggi le politiche alimentari sono onnipresenti e la gastronomia è stata creata proprio da un amministratore e da un politico, Brillat-Savarin, personaggio di rilievo nella storia della Francia, dalla rivoluzione all’epoca post-napoleonica. Scrive la sua “Physiologie du gout” partendo da un assioma onnicomprensivo da un punto di vista disciplinare: “L’universo non è altro che la vita, e tutto quello che vive si nutre”. A questo primo indirizzo seguirà una analisi della nostra alimentazione, con metodi diversi, senza dimenticare la fiscalità stessa. La politica dunque è un approccio storico alla nutrizione, e non va dimenticata. È il primo passo di una revisione autocritica fondamentale, nel caso di Pollenzo, cui una analisi di altre università può essere utile. Oggi progettare è mutare l’insegnamento universitario, di per sé rigidamente strutturato, con professori ordinari, associati e ricercatori, introducendo punti di riflessione ed esperienze di operatori, e soprattutto confronti critici fra le diverse discipline al fine di cambiarne l’assetto con nuovi obbiettivi. Bisogna immaginare inoltre, l’esistenza di un centro di riflessione onnicomprensivo, docenti e studenti, capace di formulare un progetto in cui la gastronomia, scienza e cultura e politica, abbia un suo nuovo ruolo, al di là di una singola università. Ristrutturare, scrivere, insegnare facendo degli studenti il primo nucleo in azione, i quali tradurranno questa politica nelle future loro professioni. Un aiuto potrà venire da Slow Food analista critico di una Pac, politica agricola comune, che non affronta adeguatamente i problemi urgenti che riguardano il cambiamento climatico e da una rete di competenze professionali in grado di liberare la gastronomia dalle gerarchie autoreferenziali universitarie.
La politica è clima, sostenibilità, economia, regola la vita del contadino e la nostra stessa visione della natura e in quanto tale va studiata e promossa in tempi quanto mai difficili da interpretare. I trattori in strade e autostrade europee ne sono una prova e una battaglia è in atto che verrà politicamente affrontata. Riesaminiamo dunque la gastronomia e alla scienza, cultura, politica aggiungiamo anche altri strumenti per ristudiare la nostra stessa alimentazione, riattivando tutte le visioni, senza accantonare quelle desuete. Un passo fondamentale sarà il confronto fra i 17 approcci diversi alle scienze gastronomiche, al fine di fare un bilancio complessivo del loro successo, aprendo l’esame ad altri paesi, al fine di ipotizzare nuovi assetti disciplinari ed un nuovo esito della formazione. È auspicabile non solo un incontro, un congresso, ma la creazione di una agenzia italiana dell’insegnamento gastronomico, in grado appunto di creare il patrimonio didattico, al di là delle varianti universitarie. Tutto questo non è compito dei soli professori, perché gli studenti sono testimoni e operatori fondamentali, gli studenti che hanno finito il percorso didattico, ed operano nei diversissimi ambiti dell’alimentazione, e quelli che si trovano oggi nel triennio o nei master. Da questo esame a tutto campo deve nascere un nuovo progetto didattico, una nuova classe di laurea, o una laurea senza classe alcuna, con solo master, in grado di alimentare tutti, professori, studenti, laureati attivi con diversi nuovi impieghi. Il ritorno di questi ultimi ad un colloquio costante con Pollenzo, rappresenterebbe una novità, in grado di stimolare nuove riflessioni critiche sul nostro insegnamento. Vi includo ovviamente, in questa comunità, i pensionati, quale son io da più di un decennio, i quali non hanno solo la memoria ma il desiderio di veder il proprio passato in costante rinnovamento, sentendosi non nonni ma padri e figli di sé stessi.
Per riassumere, ecco i quattro temi di riflessione e di operatività: 1) la storia dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo è da scrivere e pubblicare; 2) in quanto la politica ha un ruolo eminente nelle scienze gastronomiche, adeguare l’identità di questa università al nome della classe di laurea, con nuovi insegnamenti; 3) promuovere un confronto e un congresso con le 17 scienze gastronomiche culturali e politiche attualmente presenti nelle università italiane e con quelle estere; 4) studiare un nuovo corso di laurea, in una visione del sistema alimentare attuale e futuro.
Voglio tuttavia terminare, non con questi quattro punti, ma con un invito. Insegnare gli alimenti è insegnare a mangiare il che implica che devo insegnare mangiando. Un convegno di fine settembre 2023 sul tartufo, si è tenuto senza un solo tartufo presente, e infinite lezioni sui vegetali, sulla cucina, sono senza una foglia, senza un piatto di pasta da morsicare, degustare, inghiottire: è proprio questo che accade. L’alimentazione dovrebbe giocare invece il suo ruolo non solo con la bocca aperta per parlare o la bocca chiusa per tacere ma con il mangiare che è pratica e insegnamento, diviso e condiviso, espresso dalle labbra e dalla bocca. Solo così si apprende e la memoria se ne servirà in seguito meglio, ripetendo e ad ogni futuro boccone, analizzando. L’opposizione di chi studia e di chi mangia offende le scienze gastronomiche facendone una teoria filosofica utile al solo pensiero. Mangiare è apprendere e l’insegnante deve partecipare in modo istruttivo, assaporando, masticando, commentando e imparando dagli studenti stessi. È facile ritrovare nei testi, nei ricettari spunti teorici della conoscenza ma se questa non è concretizzata, esperita, si è perduti in bocconi vocali che vengono assimilati dalle orecchie e dal solo cervello, con il risultato che nessun raffronto concreto si realizza e ci si perde in un rito”.

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