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Analisi WineNews per Vinitaly - Dal genoma editing ai vitigni resistenti l’alleanza tra genetica e vite, in Italia, s’ha da fare. Per conservare il patrimonio ampelografico ed aiutare una viticoltura più pulita, anche per la sicurezza del consumatore

L’alleanza tra genetica e vite, s’ha da fare, verrebbe da dire. E non per avere viti più produttive, ma per continuare a valorizzare al meglio le varietà già esistenti negli ambienti di coltivazione che stanno mutando, conservando e comprendendo il patrimonio ampelografico del Bel Paese, ma anche per aiutare una viticoltura più pulita, a tutto vantaggio della sicurezza dei consumatori, che troveranno un vino più “pulito”. A tale scopo, per coltivare cultivar praticamente uguali a quelle che già vengono coltivate, ma resistenti alle malattie, è questo ciò che è in gioco, non pare più possibile evitare, per giunta aprioristicamente, l’aiuto della scienza, sotto forma della genetica applicata alla vite. Ecco, in estrema sintesi, tra studi già compiuti e nuove scoperte, quello che emerge da un’analisi WineNews, uno dei siti più cliccati dagli amanti del buon bere per Vinitaly (Verona, 10-13 aprile; www.vinitaly.com).
Oggi, le uve coltivate sono sottoposte ad una forte pressione da parte di varie malattie e parassiti, e quindi ricevono normalmente moltissimi trattamenti con sostanze chimiche (anche le uve coltivate a biologico subiscono interventi “a base” di rame e zolfo) per proteggerle da insetti, muffe, funghi e patogeni vari (peraltro, destinati ad aumentare anche in conseguenza del riscaldamento del clima, almeno in certe zone, dove bisognerà lavorare anche sui portinnesti e le loro potenzialità, per esempio, nel contrasto allo stress idrico). La suscettibilità alle malattie, probabilmente, non è dovuta ad una ridotta variabilità genetica. Anzi: la vite mantiene una biodiversità molto elevata. Tuttavia la vite, considerando l’insieme di tutte le varietà esistenti (comprese anche quelle non coltivate a scopo commerciale) non è ancora stata sfruttata a pieno per produrre varietà resistenti ai vari patogeni. Il motivo principale è che commercialmente la vite viene propagata per via vegetativa. A tutti gli effetti per molti vitigni sono secoli che si piantano dei cloni tutti uguali. I geni presenti nelle diverse varietà non vengono scambiati e diffusi come accadrebbe se la vite si riproducesse per via sessuata, mescolando quindi i geni dei due genitori. Le ultime migliaia di anni di selezione e incroci della vite hanno esplorato solo una piccola frazione delle possibili combinazioni genetiche e i tentativi futuri di breeding, usando la selezione assistita con marcatori, leggasi genetica applicata alla vite, hanno una diversità enorme a loro disposizione per produrre uva da vino. Lo sviluppo di un’industria del vino e della vite ecologicamente sostenibile potrà contare su questa incredibile biodiversità caratterizzando geneticamente le collezioni di germoplasma nel mondo e usando tecniche di breeding assistite da marcatori per produrre varietà migliorate.
Questo significa percorrere un nuovo cammino, accompagnati dalla cisgenesi, che consente di ottenere “super-viti” attingendo esclusivamente ai geni della stessa specie. Consente, insomma, di ottenere modificazioni mirate analoghe a quelle spontanee e al contempo di preservare le varietà tradizionali in alcuni casi irrimediabilmente messe in pericolo da patogeni. Inoltre, il genoma editing, che esegue modificazioni mirate e corregge le sequenze del genoma, accelerando, per così dire, il processo di selezione naturale di varietà di uva più resistenti alle malattie, senza alterarne le qualità organolettiche. Le piante che ne derivano sono quindi al 100% di Vitis vinifera, non equiparabili a quelle ottenibili per transgenesi (che dà luogo a Ogm, ricorrendo all’introduzione di geni provenienti da specie diverse, come nel caso del mais BT a cui sono stati aggiunti i geni di un batterio). Ora, con il genoma della vite decodificato, sono noti numerosi geni che offrono una resistenza ad alcuni patogeni e parassiti, sia nelle varietà selvatiche che in quelle coltivate. Gli scienziati pensano di trasferire questi geni di resistenza nelle varietà commerciali che più soffrono di attacchi e che più necessitano di trattamenti.
Come è possibile trasferire un gene che rende una vite selvatica resistente ad un fungo in un’altra vite, magari un Merlot? La tecnica del Dna ricombinante permette di effettuare un “taglia e cuci”: si preleva il gene desiderato e lo si inserisce nella pianta che si vuole trasformare. La pianta ottenuta avrà ancora le stesse caratteristiche del Merlot di partenza, la stessa capacità di produrre ottimo vino, ma non avrà bisogno di trattamenti per quel fungo per cui è stata resa resistente. Il mondo del vino però usa la tradizione come strumento di marketing, e questo è chiaramente in contrasto con l’uso di biotecnologie non ancora “digerite” dalla maggior parte dei consumatori. Sì perché prelevando il gene desiderato da una vite e trasferendolo in un’altra rende la pianta automaticamente, un Ogm.
Naturalmente, non bisogna pensare che le biotecnologie siano la panacea a tutti i mali possibili. Per esempio nel campo delle analisi genetiche di paternità dei vitigni, non mancano casi controversi. Mediante l’analisi del Dna si è riusciti a stabilire l’identità di alcuni vitigni. Favorita, Pigato e Vermentino sono lo stesso vitigno anche se iscritti separatamente al registro delle varietà. Così come il Refosco di Faedis e il Refoscone. Buona parte del Cabernet Franc italiano in realtà è Carmenère. Il Prosecco (o Glera come si chiama da un po’ di tempo) è identico al croato Teran Bijeli. Il Pignoletto corrisponde al Grechetto di Todi, mentre l’Aglianico al Ciliegiolo. Due vitigni trentini, la Vernaccia Nera e la Francesa Nera, sono in realtà rispettivamente Merlot e Carmenère. Il Pinot ha una relazione di parentela di secondo grado (diciamo che potrebbe essere il nonno oppure lo zio) con il vitigno trentino Teroldego, il quale a sua volta, insieme ad una varietà non ancora identificata e forse scomparsa, ha dato luogo al Marzemino e al Lagrein. Ma esistono anche casi più complicati e che rivelano aspetti di biodiversità importanti. Agli inizi degli anni 2000 si è scoperto che il Sangiovese non è imparentato con nessuna varietà toscana, mostrando una parentela con il Ciliegiolo, coltivato in Toscana ma anche in alcune regioni meridionali sotto altri nomi. Nel 2007, è stato suggerito che il Sangiovese possa essersi incrociato con il Moscato Violetto (Muscat rouge de Madère) per generare il Ciliegiolo, con una vicinanza genetica ad alcuni vitigni calabresi e siciliani come il Nerello Mascalese e il Greco Nero di Cosenza. Sempre nel 2007, si ipotizza che il Sangiovese abbia come altro genitore il Calabrese di Montenuovo. Uno studio del 2008 scopre altri figli del Sangiovese, tra cui il Gaglioppo, il Mantonicone e il Nerello Mascalese. Due anni dopo si scoprono una serie di parentele prima ignote (per esempio il Lagrein è figlio della Schiava Gentile e del Teroldego) e viene confermata l’ipotesi che il Ciliegiolo sia figlio del Sangiovese e del Moscato Violetto. Nel 2013: il Sangiovese è sempre figlio del Ciliegiolo, ma l’altro vitigno genitore potrebbe essere una vecchia varietà meridionale, recuperata recentemente, il Negrodolce. E poi si scopre che il Sangiovese e il Mantonico di Bianco sono i genitori del Gaglioppo di Cirò, del Mantonicone e del Nerello Mascalese. Infine, nel 2014, uno studio conferma come il Sangiovese fosse coltivato in Sicilia e in Calabria, tanto che incrociandosi con il Mantonico di Bianco (o Montuonico, vitigno calabrese) ha generato il Nerello Mascalese, il Gaglioppo di Cirò e il Mantonicone. Insomma, dovremo aspettare analisi genetiche più sofisticate per trovare il bandolo della matassa. Tutti gli indizi però, uniti all’osservazione che il Sangiovese è tuttora coltivato in Calabria e in Sicilia sotto altri nomi, suggeriscono fortemente l’ipotesi che il Sangiovese non sia un antico vitigno toscano come si pensava ma sia nato nell’Italia meridionale in tempi remoti, da un incrocio spontaneo oppure volontario, e che sia stato trapiantato in Toscana solo in epoche più recenti.
Un’eventualità di questo tipo però è contro l’idea stessa di mantenere un particolare vitigno “immortale” nel tempo in modo che si possa produrre del vino di qualità, contando sempre sulla stessa base genetica. Il progresso scientifico, infatti, corre più veloce dell’adeguamento della società civile ad esso.

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