Qui le vigne sono grandi perché c’è il tufo che allatta la pianta”. È il detto dei vecchi viticoltori. È il Vulture. Batte qui la storia enologica della Basilicata figlia della Magna Grecia. Alle pendici del gigante dormiente, la cui ultima eruzione risale a 130.000 anni fa, batte ad un ritmo nuovo e vivace la vita agricola legata a quell’antico vitigno portato dai coloni intorno al VIII secolo a. C.. Sui terreni resi tufacei dalle ceneri è in corsa un comparto che sogna di portare la voce lucana ad emergere dal coro dell’offerta del vino italiano e che sta contagiando e trainando l’intero scenario produttivo della Regione, comprensivo dei tre areali viticoli, ciascuno identificato da una Doc, del Materano, della Val d’Agri e delle campagne comprese tra Roccanova, Sant’Arcangelo e Castronuovo di S. Andrea. Alle porte del Congresso Assoenologi n. 74, in programma a Matera dal 31 al 3 novembre, con il tema “Vino come cultura” (e con la presenza confermata del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte), la Basilicata del vino si prepara ad emergere sotto i riflettori. La raccontiamo in un ideale viaggio di scoperta che la attraversa, tra testimonianze del passato, del presente e aspirazioni per il futuro.
Comincia proprio dal Vulture, dall’ultimo progetto avviatosi in questo panorama. L’azienda agricola Le Nuvole debutta con l’intento ben chiaro di esaltare il valore dell’uomo e il suo apporto alla coltura della vite, nel senso più ancestrale e artigianale, attraverso una produzione che si affida al rispetto della materia e al minimo intervento nella vinificazione. Il senso antico del vino viene ripreso con un’ottica produttiva che segue i principi della sostenibilità e con una visione di società contemporanea basata sull’inclusione sociale, sul reinserimento nel lavoro di persone in condizioni di fragilità. Rappresenta il primo step dell’iniziativa “Piccole Ali” messa in piedi dalla Fondazione Bagnale e Aias Melfi Matera onlus, sviluppando un’idea di Giulio Francesco Bagnale e Alessandro Bocchetti. 20.000 bottiglie per ora messe sul mercato e 7,5 ettari e mezzo coltivati. “L’attenzione al clima, all’ambiente sarà la scelta da percorrere per lo sviluppo economico - commenta Giulio Francesco Bagnale - è il tema che si dovrà affrontare e su cui la Basilicata dovrà concentrarsi. Abbiamo deciso di intraprendere il percorso con questa visione. Si apriranno sempre più spazi nel mercato per vini che rispecchiano l’idea della sostenibilità. Bisognerà rileggere il vino in questi termini, senza perdere il carattere e la complessità che identificano l’appartenenza territoriale”. L’azienda ha il suo quartier generale in una delle cantine più antiche e rappresentative di Barile, comune sotricamente eletto, insieme a Rionero, Maschito, Rapolla e Ripacandida, alla coltivazione dell’Aglianico, culla del vino lucano.
Sguardo rivolto al futuro, quindi, dallo scenario di Barile dipinto da Pierpaolo Pasolini, il reticolo delle cantine dello Shesh scavate nella roccia tufacea. In queste cavità, per condizioni termiche ideali, da sempre ogni famiglia produce il suo vino mentre ad un crocifisso, posto vicino le vasche è affidata la veglia della fermentazione, retaggio di quei tempi in cui il sostentamento della comunità dipendeva sostanzialmente dal buon raccolto dell’uva e dalla benevolenza del divino. L’uva era il denaro contante di allora. Ai bambini veniva dato il compito di raccogliere i chicchi caduti per terra o lasciati in pianta durante la vendemmia.
“Dai primi anni del Novecento fino agli anni Settanta, e nel Settantuno nasce la Doc, la Basilicata si poteva così sintetizzare: grandissima capacità di produrre uva e scarsa di fare vino”, ricorda Fabio Mecca, quarta generazione dei Paternoster che, per primi, correva l’anno 1925, misero l’Aglianico in bottiglia, da qualche anno acquisita dalla veneta Tommasi. Non c’era palmo di terra che non fosse coltivato a vite, si contavano all’epoca 16.000 ettari vitati quando adesso si sono ridotti a 1200. Ma era una coltivazione molto frammentata, dell’ordine di uno, due, tre ettari in media per famiglia. “A Barile e a Rionero partivano convogli carichi di uva, acquistate dai mediatori, destinate ad essere vendute al nord per tagliare i vini. Il vino si faceva per consumo personale. La presenza dei sensali era massiccia, molti decisero poi di stabilirsi qui e cominicare a produrre. Il mio trisavolo Anselmo aprì la prima locanda con osteria di Barile proprio per accoglierli”, racconta.
A cavallo tra gli anni ’80 e ’90 il registro cambia. Gli incentivi incoraggiano i produttori a puntare sulle caratteristiche dell’Aglianico. Si avvia l’era delle cantine sociali, ancora oggi rimane attiva la Cantina Sociale di Venosa che raccoglie 400 soci. Si espande in quel momento la viticoltura nell’areale che circonda la città di Orazio e che adesso conta la maggiore superficie vitata ed ospita nel Castello Pirro del Balzo l’Enoteca Regionale Lucaa, presieduta da Paolo Montrone alla guida di cantina Re Manfredi - Terre degli Svevi appartenente al Gruppo Italiano Vini (Giv). “Le cose negli ultimi anni sono molto cambiate, grazie al lavoro istituzionale - riferisce Montrone -. Basti pensare che venticinque anni fa c’erano solo dieci cantine nel Vulture mentre adesso sono ottanta e sono nate tre nuove Doc. Ci si è concentrati sulle potenzialità dell’Aglianico che grazie a questo terreno straordinario possiede qualità uniche. Non viviamo più all’ombra della Puglia o della Campania. Vantiamo un grande vino”. A tracciare il rinascimento ai piedi del vulcano sono stati i primi imbottigliatori, le storiche aziende come D’Angelo, Sasso e Martino, e i grandi nomi del vino venuti dal nord, evoluzione che ha portato poi piccole aziende (Elena Fucci, Mastrodomenico tra le tante) e grandi aziende a strutturarsi come firme della Basilicata contemporanea.
Attecchisce in questa partenesi temporale la sperimentazione di Cantine del Notaio a Rionero in Vulture, il paese con 1.250 cantine nel sottosuolo, scavate sotto le case e le strade, ciascuna numerata e a cui si accede dalle conche ai lati delle strade dette “facili”. Persino il più efferato e celebre brigante, Carmine Cocco, possedeva la sua cantina.
“Ci siamo introdotti con un approccio differente - racconta Gerardo Giuratrabocchetti al comando dell’azienda - avendo una tradizione di viticoltura in famiglia ed essendo agronomo ed enologo ho pensato che quello era il momento per studiare il vitigno, per capire cosa ottenere. L’assunto da cui sono partito era questo: se il vino del Vulture migliora quelli del nord è perché di suo è migliore. Convinsi così Luigi Moio a metterci sotto a studiare”. La ricerca si attiva sull’analisi di quindici vini con quindici vinificazioni diverse, ottenuti da tempi di raccolta differenti. La forte dotazione alcolica, l’elevata acidità dovuto al tipo di clima con escursioni anche di venti gradi tra il giorno e la notte, la struttura tannica e quindi la ricchezza polifenolica convincono i due studiosi “sulle capacità dell’Aglianico di invecchiare come nessun altro vino al mondo e di prestarsi a diverse destinazioni enologiche. “Scoprimmo un vino nuovo - aggiunge - diverso da quello commercializzato in passato, decenni prima, scarico di colore, senza la pienezza del bouquet perché raccolto il più prematuramente possibile per evitare avversioni climatiche visto che la maturazione avviene tra ottobre e novembre”.
Una recente sperimentazione la sta conducendo Viviana Malafarina di Basilisco, progetto di Feudi di San Gregorio a Barile. Ligure cresciuta in Piemonte e formatasi in Borgogna ha deciso di sposare la Basilicata e lavorare sui cru. “Avendo venticinque ettari dislocati nelle contrade più vocate di Barile ho potuto dedicarmi al concetto di cru - racconta -. Ho visto come cambia l’Aglianico mantenedo lo stesso orientamento in suoli diversi e con stessa esposizione. Qui da zona a zona varia il terreno. Dove c’è marna i vini sono più floreali e immediati, nelle zone ferrose hanno un carattere più ematico, nelle zone calcarre il tannino finissimo. Ma il bello è che racconto oggi l’Aglianico che non si conosce ancora. C’è tanto da scoprire. E questo mi stimola. Ma l’intera Basilicata è da scoprire. Una terra tutta da immaginare”.
C’è una storia enologica da scrivere anche nel materano dove insiste la Doc Matera, compresa tra Irsina e Nova Siri, tra Accettura e la costa Ionica. Territorio che sta identificando la sua ascesa nel Primitivo. Masseria Cardillo nell’areale metapontino a Bernalda, la cui origini risalgono alla fine del Settecento, coltiva le vigne in un luogo di antica tradizione ellenica. Lo attesta l’uvo di Elena risalente al V secolo a.C., piccola scultura rinvenuta durante la messa a dimora di un vigneto e oggi conservato al Museo Archeologico di Altamura. È una delle aziende che si è battuta per la Doc. Chi ha posto le basi del vino di Matera è stata l’azienda dei Fratelli Dragone. “Qui la coltivazione e vinificazione del Primitivo sono antecedenti - dichiara il titolare Rocco Graziadei che governa 22 ettari vitati su 270 della Masseria - a quelle pugliesi, al primitivo di Manduria e di Gioia del Colle. Il primitivo di Matera è più sobrio, sapido e fresco. C’è la voglia di mettersi in gioco per fare emergere il nostro territorio che è unico. Siamo piccole e medie aziende, una quindicina, e stiamo lavorando sulla qualità più che sulla quantità. Vogliamo essere riconoscibili e differenziarci”.
La Doc Terre Alte della Val d’Agri potrà aggiungere tanto contenuto al racconto della Basilicata del vino del prossimo futuro. In questa zona, di grande attrattiva paesagistica, dove si susseguono colline, rocche e calanchi, campi coltivati, borghi a perdita d’occhio, si stanno recuperando varietà antiche autoctone. Il progetto lo ha avviato il comune di Viggiano nel 2007 di concerto con l’Agenzia Lucana per lo Sviluppo in Agricoltura e del Cra. Sono una quarantina le varietà identificate, intercettate presso custodi di vitigni centenari, tra cui due varietà di Aglianico bianco e Dolce Precoce. Lungo la parte alta della Val D’Agri già nel II d.C. la gens romana Allia addomesticava la vite, e da cui deriverebbe il nome Aglianico. Da qui passava la via dei traffici degli Enotri, dei Greci e dei Romani. Sono oggi 8 le aziende che aderiscono il Consorzio di Tutela.
Da Caprarico verso Chiaromonte a sud si estende la piccola Doc Grottino di Roccanova istituita nel 2009. Una zona collinare dove a regnare è il Sangiovese. Ma uno spazio se lo sta ritagliando anche la Malvasia Bianca di Basilicata. Già nel 1.700 si contava un’intensa attività vitivinicola nella zona, il cui simbolo sono le grotte da vino, le cantine, censite a Roccanova e nelle sue periferie e nei comuni di Castronuovo S. Andrea e S. Arcangelo.
Tante facce di un terra che è ancora un diamante grezzo dell’enologia italiana, che punta a brillare più che mai.
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